L'azzeramento dell'articolo 18 dello Statuto  dei lavoratori  non è una misura per rendere flessibile il mercato del  lavoro, ma per rendere  rigidi (fino al parossismo) il regime di  fabbrica e la stretta sui ritmi di  lavoro. Certamente nei prossimi mesi  e anni ci saranno, uno a uno, o, meglio,  quattro a quattro ogni  quattro mesi, decine di migliaia di licenziamenti  individuali per  "motivi economici". Sappiamo già chi verrà colpito, perché da  qualche  mese i capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e   gli operai che resistono all'intensificazione del lavoro, annunciando  loro che,  «appena passa l'abolizione dell'art. 18, sei fuori!». Così,  se alla  manifestazione della Fiom del 24 febbraio, su 50 mila  partecipanti, almeno 40  mila erano lavoratori e lavoratrici della Fiom,  possiamo essere sicuri, con uno  scarso margine di errore, che, al  ritmo di 12 all'anno per azienda, quei  lavoratori verranno espulsi dal  loro posto di lavoro ottenendo con il tempo  quello che Marchionne ha  realizzato in un colpo solo, cambiando nome allo  stabilimento di  Pomigliano e tenendovi fuori tutti i tesserati Fiom. E lo stesso   avverrà con altre migliaia di lavoratori, già ben identificati, nella  maggior  parte delle aziende di altri settori. Se Barozzino, Pignatelli e  La Morte, i tre  operai della Sata di Melfi licenziati dalla Fiat per  rappresaglia contro uno  sciopero, ci hanno messo più di un anno per  dimostrare le loro ragioni di fronte  ai giudici e, nonostante l'ordine  di reintegro, non viene loro concesso di  rientrare in fabbrica,  possiamo immaginare che cosa succederà con le decine di  migliaia di  lavoratori già in lista per essere licenziati individualmente "per   motivi economici".
I quali, per dimostrare di essere stati   oggetto di una discriminazione, e non di una esigenza "economica",  dovranno  andare a cercare tra i loro compagni di lavoro qualcuno  disposto a testimoniare  in loro favore, sotto la minaccia di  entrare così anche lui, nel giro dei  successivi quattro mesi, nella  lista degli esuberi per motivi  "economici".
Così diverse decine di  migliaia di lavoratori andranno ad  aggiungersi, grazie all'azzeramento  dell'articolo 18, all'esercito dei  disoccupati senza reddito che i  tagli di bilancio, la riforma degli  ammortizzatori sociali a costo zero  e le crisi aziendali stanno moltiplicando  nel nostro paese. 
Con in più  il fatto che, se è quasi impossibile per un giovane  trovare oggi un  posto di lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici di una certa  età  sarà ancora più difficile, e per quelli usciti dal loro impiego con un   licenziamento individuale - cioè con le stimmate di una espulsione   discriminatoria - il licenziamento equivarrà all'iscrizione in una lista  di  proscrizione.  
È una cosa che le persone di una certa età ricordano bene quando  alla Fiat,  prima dell'autunno caldo di quarant'anni fa, imperversava il regime   imposto da Vittorio Valletta. Siamo ritornati là; anzi peggio, perché  allora  l'economia tirava mentre adesso non c'è alcuna speranza di  tornare in tempi  accettabili a una qualsiasi forma di ripresa della  crescita. E soprattutto  dell'occupazione. 
Ma l'uscita dalle aziende di  alcune decine di lavoratori con  posto fisso non apre certo le porte a  nuove assunzioni, come è ovvio a qualsiasi  persona che non sia in  malafede. Semplicemente chiude per sempre davanti ai  lavoratori  licenziati le porte di un altro impiego. Perché la domanda di lavoro   non c'è e non saranno certo le politiche economiche di Monti e della Bce  a  crearla (basta vedere quello che la Bce ha combinato in Grecia e in  Portogallo,  paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro). 
Ma quei  lavoratori licenziati non avranno più né  cassa integrazione (né ordinaria, né  straordinaria, né in deroga), né  mobilità, né "scivolo" verso il  prepensionamento; solo una modesta  somma di denaro e un anno di disoccupazione.   
Poi si ritroveranno per strada senza reddito e con nessuna possibilità di un  nuovo lavoro:  nemmeno d un lavoro precario: perché se mai ci sarà da assumere   qualcuno in un call-center o in una cooperativa di facchinaggio, non  andranno  certo ad assumere un 40-50enne licenziato, quando è e sarà  pieno di giovani più  adatti a lavori del genere. Così, nel giro di  qualche anno, assisteremo a questo  rovesciamento dei rapporti  intergenerazionali: se fino ad oggi molti dei giovani  assunti in  qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare   sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di  aiuto da  parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i  lavoratori anziani (cioè  ultracinquantenni) senza pensione né salario a  dover contare sui redditi  saltuario dei loro figli precari per  sopravvivere.
Ma se questo è il panorama  che ci aspetta fuori delle fabbriche e delle aziende,  quello che si prospetta al  loro interno è anche peggio. Perché là si  vivrà sotto il ricatto permanente del  licenziamento individuale "per  motivi economici"; e se questo potrà colpire solo  pochi lavoratori per  volta - non più di dodici all'anno per azienda - funzionerà   perfettamente da deterrente per tutti gli altri. 
Perché, con poche  eccezioni, le  imprese e l'imprenditoria italiana ormai impegnate a  difendere i loro sempre più  risicati margini di competitività contando  esclusivamente sull'intensificazione  dei ritmi di lavoro e la  compressione dei salari, non hanno certo la cultura  aziendale e la  lungimiranza per farsi sfuggire un'occasione del genere: non  avrebbero  insistito tanto per l'abrogazione dell'art. 18. Posto fisso vuol dire   accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale - a patto di saperlo e  volerlo  valorizzare - che tante imprese italiane hanno sacrificato ai  vantaggi offerti  dall'ingaggio del lavoro precario e malpagato. 
L'azzeramento dell'articolo  18 è un invito a continuare su questa strada, perché  rinunciare all'esperienza  dei lavoratori anziani vuol dire  ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai  livelli tecnologici più  bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare  Berlusconi, Maroni e  Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in  pochi mesi. Il  piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in   Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro - in realtà,  sulla  disciplina di fabbrica e l'ampliamento dell' "esercito  industriale di riserva" -  ma anche dopo, se sarà approvato, è  continuare ad opporsi senza se e senza ma.  La posta in gioco e troppo  alta e anche coloro che in azienda non ci sono  ancora, non ci sono più,  o non ci saranno mai, dovrebbero capirlo e agire di  conseguenza. Quale  che ne sia l'esito, questa mossa di Monti e Fornero deve  diventare per  tutti il simbolo dell'ipocrisia, della malafede e della pochezza  di  questa campagna di governo.
G Viale - 23/03/2012
il Manifesto
 
 
 
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