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mercoledì 11 novembre 2015

NOTE CRITICHE SULLA PIATTAFORMA FIOM

Punto per punto, alcune riflessioni su quel che non va della Piattaforma FIOM 2016, tralasciando per lo più quel che altri hanno già detto.

di Lorenzo Mortara


Nuovismo – La prima cosa che colpisce della PIATTAFORMA FIOM per il RINNOVO del CONTRATTO DEI METALMECCANICI 2016, è la voglia di novità e di sperimentazione contrattuale. Tutto il preambolo è un unico peana in onore del rinnovamento. Peccato che anche Federmeccanica, non parli d’altro che di rinnovare l’assetto contrattuale. Questo vizio di ammiccare alla controparte con le stesse parole, ben sapendo che le lingue sono diverse, ha già prodotto disastri nel recente passato. Chi non ricorda che Landini fu il primo ad aprire a Renzi? Il metodo era lo stesso: il Berluschino del PD voleva cambiare l’Italia, e anch’io, disse il nostro Leader, lo voglio, perché nessuno più dei lavoratori vuole cambiare questo Paese. Sperava così di diventarne un interlocutore privilegiato. Divenne solo un giocattolo nelle sue mani. Possibile che dobbiamo fare un’altra volta la figura dei fessi? Così come Renzi vuole cambiare in peggio il Paese, e Landini in meglio, almeno per i lavoratori, alla stessa maniera l’innovazione contrattuale di Federmeccanica è lo smantellamento del Contratto Nazionale, l’innovazione della Fiom è invece il suo rafforzamento. Sono due cose opposte e inconciliabili, perché quando due discorsi vaghi e generici sul rinnovamento contrattuale si incontrano, tra i due prevale sempre quello più forte. Esattamente come l’apertura a Renzi sul cambiamento del Paese, non ha sortito altro che l’uso strumentale di Landini come copertura delle sue politiche antioperaie. La colpa non è di Renzi, ma di Landini che l’ha continuamente promosso, portandolo in palma di mano per un paio di mesi, anziché smascherarlo subito senza pietà. La Piattaforma ripete lo stesso errore col profondo rinnovamento contrattuale…

 

venerdì 9 gennaio 2015

Nessun pasto è gratis, ovvero…

…di alcune perplessità contabili della serva intorno alla presunta rivoluzione copernicana dell’attuale italico governo

In questo finire dell’anno corrente, in conseguenza dei meccanismi innescati dalla legge Fornero del 2012 in relazione alla riforma degli ammortizzatori sociali, decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici ultracinquantenni vengono licenziati in tutto il paese per «non perdere» un anno di mobilità; una quantità, al momento imprecisabile, di crisi aziendali viene risolta mettendo in mobilità, più o meno incentivata, migliaia di dipendenti a prescindere dalla possibilità di raggiungere i requisiti pensionistici, tanto sotto il profilo contributivo quanto sotto quello dell’età anagrafica: tutto questo per non perdere l’opportunità di un anno di indennità dal 30% al 50% inferiore al loro salario contrattuale, ma valido per maturare la copertura pensionistica figurativa.

Una botta di c… che di questi tempi non va sprecata.

Già dallo scorso anno, invece, sempre come conseguenza della legge Fornero, va assumendo dimensioni sempre più rilevanti il fenomeno delle dimissioni volontarie cui viene, per così dire, indotti un numero crescente di dipendenti per non danneggiare i padroni che, ove li licenziassero, dovrebbero pagare all’Inps una penale di circa 240 €, compromettendosi altresì la possibilità di godere di benefici contributivi e/o sgravi fiscali assortiti. La perdita del diritto all’Aspi o alla MiniAspi, con annessi assegni al nucleo familiare da parte di lavoratori e lavoratrici è un incidentale effetto collaterale che, per quanto deprecabile, costituisce il prezzo che qualcuno deve pur pagare, e certamente non possono essere le imprese – fulcro delle ipotesi governative per uscire dalla crisi – a farsene carico.

l'articolo continua > QUI < 


fonte : http://www.connessioniprecarie.org
autore : M Fontana - 31 dicembre 2014

mercoledì 12 marzo 2014

L'attacco di Renzi e le risposte sbagliate di Camusso e Landini

Quel terribile applauso che nella trasmissione di Fazio ha sottolineato un passaggio particolarmente reazionario di Renzi fa venire i brividi. Il Presidente del consiglio ha affermato che farà lavorare i disoccupati, e se i sindacati si opporranno pazienza. Quindi secondo Renzi e il pubblico di Fazio i sindacati sarebbero contrari a far lavorare i disoccupati, quindi i disoccupati  ci sono anche per colpa loro. È una vecchia baggianata che periodicamente percorre gli umori della destra: i sindacati hanno rovinato l'Italia  e ora il presidente nuovo e moderno la fa sua, approfittando della crisi evidente e della burocratizzazione di CGIL CISL UIL.  In questo modo Renzi strizza un occhio a chi verrebbe sindacati più forti ed efficaci e un altro a chi non li vorrebbe in nessun modo. È questo il suo modo di non essere né di  destra, né di sinistra, cioè di essere di destra stando formalmente a sinistra. (...)

Avendo passato un bel pezzo di vita sindacale a contestare la concertazione, posso ben dire che non sono a lutto per la sua fine, però non posso non tenere conto del fatto che essa cade dal lato della finanza, delle banche e delle multinazionali, e non da quello dei diritti del lavoro. Socialmente cade da destra.

Noi che la contestavamo da sinistra abbiamo più volte denunciato il fatto che lo scambio che stava alla base della concertazione, rafforzamento del ruolo istituzionale di CGIL CISL UIL in cambio della loro disponibilità ad accettare la regressione del mondo del lavoro, aveva qualcosa di insano. Questo scambio, il  sindacato come istituzione  stava meglio mentre per i  lavoratori andava sempre peggio, non poteva durare all'infinito.

Renzi e il sistema di potere che lo ha messo lì e che oggi lo sostiene sono ingenerosi. Grazie alla collaborazione o non opposizione dei grandi sindacati abbiamo avuto la caduta dei salari, la precarizzazione di massa per legge, il peggioramento delle condizioni di lavoro, un sistema pensionistico che è tra i più feroci ed iniqui di Europa. Appena insediato come ministro dell'economia, Tommaso Padoa Schioppa spiegò  che il suo governo, quello di Prodi, aveva gli stessi obiettivi di quelli della signora Thatcher, solo li voleva realizzare con la collaborazione e non con lo scontro con i sindacati.

Fino alla crisi la concertazione ha funzionato e lor signori dovrebbero essere riconoscenti alla moderazione sindacale. Ora però non serve  più, con le politiche di austerità e i diktat della Troika, anche la sola immagine di essa non piace ai signori dello spread,  per i quali il sindacato è negativo in sé. Come diceva  il generale Custer degli indiani, per chi guida la finanza e ci giudica sulla base dei propri interessi, il solo sindacato buono è quello morto. Già nel libro verde del ministero del lavoro gestione  Sacconi,  si chiedeva il passaggio dal regime della concertazione a quello della complicità con le imprese.  E questa è stata la richiesta dalla lettera BCE del 4 agosto 2011, assunta da Berlusconi che sperava così di salvarsi, e poi resa operativa da Monti. 

Renzi è un puro continuatore di questa politica, ma è lì perché ha  il compito di costruire attorno ad essa quel consenso che non ha mai avuto. Per questo dopo aver sostenuto Marchionne contro la FIOM, ora cavalca lo scontento sacrosanto che c' è verso la passività di CGIL CISL UIL , ma per colpire il sindacato non per rafforzarlo. Renzi ha lamentato che la CGIL si svegli dopo aver dormito venti anni, ciò che vuole è che quel sonno continui per sempre.

Alla crisi e alla ritirata dell'azione sindacale Susanna Camusso e Maurizio Landini stanno reagendo in due modi conflittuali tra loro e comunque sbagliati

La segretaria generale della CGIL difende la linea ed i comportamenti della CGIL di oggi, ne nega la burocratizzazione e la passività e ripropone la concertazione su scala ridotta, come azione comune delle cosiddette parti sociali, sindacati e Confindustria tutti nella stessa barca. L'accordo del 10 gennaio é una disperata difesa della  casa che crolla, ma  in realtà aggrava la crisi democratica del sindacato attraverso regole autoritarie e corporative. 

La risposta di Landini parte dalla giusta denuncia di questa crisi democratica,  ma poi finisce per scegliersi con interlocutore proprio quel Renzi che è avversario politico di un sindacato davvero rinnovato. 

Camusso, per non cambiare, si aggrappa all'intesa con CISL UIL e Confindustria, così prestando il fianco alla demagogia renziana contro le caste sindacali. 

Landini, che afferma di voler cambiare, si aggrappa a Renzi, così compromettendo tutto il senso della sua battaglia.

Entrambe queste scelte sono il segno che la CGIL è una organizzazione in piena crisi, i cui gruppi dirigenti hanno sinora tentato tutte le strade tranne una.  Quella di rompere con i palazzi della politica e del potere e con ogni collateralismo con il centrosinistra, per ricostruire la piena autonomia di azione sociale.

Il sindacato deve cambiare e la sfida  di Renzi va raccolta, ma proprio per lottare meglio contro il suo governo, ultimo esecutore delle politiche di austerità.
  
 
Giorgio Cremaschi
11/3/2014

mercoledì 11 settembre 2013

Rinazionalizzare le pensioni conviene

Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia si riprende la parte pubblica dei fondi privati. Nella gestione privata c'è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la cresta.



Non c'è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia governata da un liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico. 
Il governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a trasferire forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37 miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito pubblico di un valore pari all'8% del Pil. Con la debacle del sistema cileno di qualche anno fa - che però è una storia un po' diversa - la disfatta dell'offensiva contro la previdenza pubblica guidata una ventina d'anni fa dalla World Bank è completa. E pour cause. Quello che i primi tre paesi fecero fu semplicemente trasferire la gestione del sistema pensionistico pubblico ai privati sicché, mentre il sistema restava fondamentalmente il medesimo, i costi di gestione si accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo indietro. Semplicissimo.
 


Nel sistema pensionistico pubblico gli enti mutualistici (come l'Inps) prelevano i contributi dei lavoratori (supponiamo 100 euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati correnti (diciamo 98, con 2 euro che sono i costi di gestione del sistema pubblico che è molto più efficiente del sistema privato). I lavoratori sono consenzienti perché contribuendo oggi acquisiscono il diritto alla pensione da anziani.
Con le privatizzazioni, invece, gli stessi 100 euro dell'esempio venivano devoluti a fondi pensione i quali li investivano nel mercato finanziario. La promessa era che le pensioni future non sarebbero state più erogate dallo stato, bensì dal riscatto dei fondi investiti incluso il rendimento realizzato. 
Ma è proprio così? 

Intanto gli enti mutualistici come fanno a pagare le pensioni correnti una volta che vengano meno i contributi (se questi vanno ai fondi pensione)? Ciò che accade è che il Tesoro emette titoli di stato (per 100 euro) per pagare le pensioni correnti. E chi li compra? Gli stessi fondi pensione coi contributi dei lavoratori. 
Insomma, prima della riforma i lavoratori davano 100 allo stato e questo ci pagava le pensioni. 
Ora danno 100 ai fondi pensione che ci acquistano 100 titoli di stato con cui quest'ultimo ci paga le pensioni. 
È cambiato qualcosa? 
Nella sostanza no: i 100 di contributi servono sempre a pagare le pensioni correnti - com'è nella logica di qualunque sistema pensionistico in cui chi lavora sostiene gli anziani - solo che fanno un giro più tortuoso. E in questo giro c'è chi ci perde e chi ci guadagna. 

Lo stato deve pagare degli interessi sui titoli che emette. Per esempio, a un tasso del 5% per erogare 100 euro di pensioni deve pagare 5 euro di interessi all'anno su 100 di titoli emessi. E chi si intasca gli interessi? Supponiamo che i gestori dei fondi attribuiscano il rendimento dei titoli ai lavoratori, è questo un guadagno netto per loro? No, perché nella veste di lavoratori o di pensionati (e nella vita capitano entrambi i ruoli) lo stato chiederà loro 5 euro di imposte di più all'anno. Inoltre è molto probabile che dei 100 euro di contributi investiti in titoli di stato, i fondi pensione ne restituiscano ai lavoratori quando andranno in pensione solo, diciamo, 80 o 90, per le spese di gestione, marketing e profitti. 
C'è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la cresta.

Questi fatti erano chiarissimi già a fine anni '90 a economisti come Stiglitz e altri. Meno chiari erano a presunti tecnici nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a potenti interessi finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni vicini alla sinistra radicale). 

Gli economisti della World Bank, la principale paladina delle riforme, non erano così sciocchi da non vedere che si trattava di un gioco delle tre carte. Ma avevano un argomento di riserva. Con la riforma il debito pubblico cresce perché, come s'è visto, lo stato si indebita per pagare le pensioni correnti. Ma nella logica del tanto peggio tanto meglio della World Bank, ciò avrebbe aperto la strada a ridurre altre voci della spesa sociale. 

«Il fatto eclatante - nota uno sconcertato Vittorio Da Rold su Il Sole del 6/9 - è che i fondi pensione non saranno minimamente risarciti». Ma il giornalista si dà da sé la ragione: il governo polacco ritiene, infatti, «che i bond siano stati acquistati con i contributi dei dipendenti che altrimenti sarebbero andati al governo». 
Lo stato cioè si riprende titoli che appartengono ai lavoratori, e li cancella dal proprio debito, garantendo a questi ultimi le pensioni future, probabilmente più certe ed elevate, visto che chi ci rimette sono solo i fondi pensione che dovranno smettere di fare la cresta alle spalle di stato, lavoratori e pensionati.




S. Cesaratto - 10/09/2013

il Manifesto

domenica 28 luglio 2013

IBM

L'accordo siglato giovedì 19 luglio tra IBM Italia S.p.A. e FIOM FIM UILM con la mediazione di Assolombarda è un'autentica vergogna. (...) Segna la definitiva capitolazione della FIOM ai voleri famelici di IBM ed al più bieco appiattimento sindacale di FIM e UILM. Ma andiamo con ordine.
 

Il 16 maggio in Assolombarda a Milano IBM Italia presenta alle OO.SS. ed al Coordinamento Nazionale delle RSU IBM un piano di esuberi nazionale per 355 unità. l piano è articolato sostanzialmente in 2 punti:
a) 206 persone dovranno lasciare l'azienda "volontariamente" con un' offerta d'incentivi  economici  o possibilità di ricollocazione esterna. La dicitura "volontariamente" è un eufemismo perchè in realtà le persone contattate sono ricattate e pressate. Comunque da quello che si sà IBM riesce a raggiungere il suo obiettivo;
2) 149 persone, tutte del settore amministrativo e staff, vengono poste in lista di mobilità ovvero licenziamento coatto. A molte di queste persone l'inquadramento professionale era stato cambiato, al fine di giustificare il licenziamento, solo pochi giorni prima.

IBM Italia S.p.A. ha chiuso il bilancio 2012 con un'utile d'esercizio superiore ai 100 milioni di euro. L'azienda motiva questi provvedimenti per via del calo del margine operativo di profitto e con la necessità di far crescere il valore dell'azione.
La reazione dei sindacati è nulla. Per un mese e mezzo le OO.SS:e la maggioranza del coordinamento nazionale insistono su una linea di trattativa: della serie che se l'azienda ritirasse i licenziamenti si può accettare tutto o quasi compresi i contratti di solidarietà. Ma l'azienda finge di trattare ed il 25  giugno rompe le trattative.

Solo allora FIM FIOM UILM ed il Coordinamento Nazionale delle RSU IBM proclamano per venerdì 28 giugno uno sciopero nazionale aziendale di 8 ore. Lo sciopero è debole e viene scarsamente motivato. L'effetto è nullo! L'inizio dell'invio delle lettere di mobilità si avvicina: la data prevista è mercoledì 31 luglio. I primi 5 giorni di luglio trascorrono senza che vi sia la minima azione sindacale.

Attorno al 15 luglio il Ministero del Lavoro invia un fax alle parti con convocazione, semplicemente per un tentativo formale e burocratico, per mercoledì 24 luglio a Roma. Ma come per incanto incominciano a circolare tra i delegati strane voci e , guarda caso pochi giorni dopo, in via straordinaria per venerdì 19 luglio è convocato un coordinamento nazionale delle RSU IBM Italia. Si ventila 'ipotesi di un accordo..... un pessimo accordo.

La mattina della riunione i delegati sindacali trovano sul tavolo dell'incontro un'ipotesi di accordo siglata la notte precedente in Assolombarda tra FIOM FIM UILM e IBM Italia S.p.A. 'ordine è perentorio: approvare quel testo.! L'azienda potrà effettuare 142 licenziamenti con procedura di mobilità scegliendo tra le lavoratrici ed i lavoratori , sempre del settore amministrativo o staff, a cui mancano 3 o 4 anni per accedere alla pensione senza che questi abbiano delle garanzie in caso di modifica della legge per il raggiungimento dell'età
pensionabile.

Qualora l'azienda non riuscisse a raggiungere in questo modo la cifra dei 142 esuberi per il residuo potrà aprire dal 1 Ottobre una CIGS a 0 ore per 1 anno. Il testo è approvato dal coordinamento deelle RSU IBM con 17 voti a favore( tutti i delegati FIM e la gran parte dei delegati FIOM) e 3 contrari ( 2 delegati FIOM ossia io ed il delegato della RSU i Palermo ed il delegato dello SLAI COBAS)

Vi risparrmio le altre amenità. Tutto ciò è stato firmato anche dalla FIOM .Io no faccio parte del Comitato Centrale della FIOM ma ho intenzione in un modo o nell'altro di portare a conoscenza dell'accordo IBM tutto il Comitato Centrale della FIOM.

Questo tradimento delle lavoratrici e dei lavoratori non deve passare!
 

Renato Pomari
RSU IBM Vimercate
Direttivo FIOM Brianza


http://www.rete28aprile.it/ - 24/07/2013

 * * *

Sergio Bellavita: "Ibm: la Fiom firma i licenziamenti"

 L'accordo IBM siglato qualche giorno addietro segna il ritorno della Fiom ad una pratica che negli anni passati avevamo deciso di rigettare, (...)
quella della sottoscrizione dei licenziamenti. IBM potra' usufruire grazie all'accordo sindacale, in barba alla legge 223 del 1991 che e' ben pi' complessa sulla definizione dei criteri e su quale sia la platea di riferimento per gli esuberi, di un mix chiavi in mano per poter licenziare chi vuole lei o in alternativa piazzarlo per un anno in cassa integrazione a zero ore. Un accordo inaccettabile, la fiom deve ritirare la firma.
Il referendum che e' stato promosso e' illegittimo, non solo perche' si chiede a mille lavoratori di licenziare 142 colleghi, ma anche perch pone in votazione interpretazioni restrittive e strumentali della legge 223 del 91 allo scopo di consentire all'azienda di licenziare chi vuole.
Le aziende sanno bene che senza accordo sindacale non possono licenziare quelli che vorrebbero loro perchè incapperebbero in un contenzioso legale molto complicato.
Per queste ragioni sono sempre disponibili a ragionare della volontarietà incentivata. La crisi, l'aggravarsi della stessa,la controriforma Fornero delle pensioni rendono tuttavia sempre pi' difficile sottoscrivere accordi sulla volontarietà.
Quest'intesa realizza un gravissimo precedente perche' regala all'azienda proprio quella liberta' di licenziamento che rivendicano.
E' cosi che fronteggiamo la crisi?
Se questi sono gli accordi sulle crisi, a che servono le mobilitazioni di settore?


Sergio Bellavita, portavoce Rete 28 Aprile Fiom 
 
 http://www.rete28aprile.it/ - 24/07/2013

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qui  il testo dell'accordo IBM

lunedì 15 aprile 2013

Pensioni, l’allarme di Mastrapasqua: se lo Stato non paga, Inps a rischio

Non ci sono solo i debiti verso le imprese. Per molti anni, la pubblica amministrazione non ha versato i contributi previdenziali all'Inpdap, con un buco stimato in 30 miliardi. Che ora, dopo la fusione, si riversa sulla previdenza dei lavoratori del settore privato. La lettera del presidente ai ministri Fornero e Grilli.
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Guardate che l’Inps è messo male, fate qualcosa quanto prima. È il 22 marzo quando il presidente Antonio Mastrapasqua – certo, in termini più gentili – mette nero su bianco il concetto in una lettera ai ministri dell’Economia e del Lavoro, Vittorio Grilli e Elsa Fornero. La storia è in parte nota, ma l’allarme del pluripoltronato capo supremo del più grande ente previdenziale d’Europa testimonia che la situazione è persino più grave del previsto, tanto più che sia Mastrapasqua che Fornero hanno sempre sostenuto in questi mesi che i conti dell’Inps non destano alcuna preoccupazione.
*

Invece, il nostro comincia la sua missiva – di cui Il Fatto quotidiano è in possesso – riportando alcuni passaggi della relazione della Corte dei Conti sul bilancio preventivo 2012 in cui si sostiene quanto segue: l’inglobamento di Inpdap ed Enpals (rispettivamente l’ente che si occupa degli statali, in perdita per miliardi, e quello che serve i lavoratori dello spettacolo) sta affossando i conti dell’Inps: “Il patrimonio netto… è sufficiente a sostenere una perdita per non oltre tre esercizi” (fino al 2015, per capirci) e il governo continua a tagliare i trasferimenti; se le amministrazioni dello Stato rallentano ancora un po’ i pagamenti avremo “ulteriori problemi di liquidità con incidenza sulla stessa correntezza (sic) delle prestazioni”. Tradotto: rischiamo a breve di non pagare le pensioni in tempo. Conclude Mastrapasqua: “Minori trasferimenti, riduzione dell’avanzo patrimoniale, strutturale contrazione delle entrate contributive della gestione pubblica (ex Inpdap)” stanno mettendo a rischio “la più grande operazione di razionalizzazione del sistema previdenziale pubblico”.

Volendo, si può tradurre l’allarme del presidente Inps nei numeri impietosi – e per di più destinati a peggiorare – del bilancio di previsione 2013 approvato a fine febbraio dal Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ) dell’Inps: 10,7 miliardi il disavanzo di competenza; 23,7 miliardi il disavanzo patrimoniale complessivo dell’ex Inpdap; un patrimonio netto sceso dai 41 miliardi del 2011 ai 15,4 previsti per quest’anno; 265,8 miliardi le prestazioni previdenziali da erogare contro un incasso in contributi stimato in 213,7 miliardi (ovviamente al netto delle compensazioni statali). Numeri che, peraltro, dovranno essere rivisti in peggio visto che sono stati calcolati sul Def di settembre, quello che prevedeva una recessione per il 2013 solo dello 0,2%, mentre su quello nuovo c’è scritto -1,3.

Com’è stato possibile tutto questo? Le magagne più grosse, come si sarà capito, sono nel bilancio dell’ex ente degli statali e sono dovute a una sorta di paradosso italiano: la Pubblica amministrazione (tanto locale, quanto centrale) per lunghi anni – e in parte ancora adesso – non ha pagato i contributi previdenziali per i suoi dipendenti. Oltre ai debiti fantasma nei confronti dei fornitori, insomma, ci sono anche quelli dello Stato nei confronti di se stesso: stime non confermate parlano di un buco di almeno trenta miliardi di euro che si riversa di anno in anno, man mano che i lavoratori vanno in pensione, dentro i bilanci ufficiali del nuovo SuperInps.

Roba nota, che però ora interagisce con un nuovo contesto e sta creando una voragine nel sistema previdenziale pubblico italiano. Ecco perché: gli ultimi governi non si sono limitati a tagliare i trasferimenti agli enti, ma tra blocco del turn over e prepensionamenti hanno tagliato anche il numero dei dipendenti statali, cioè di chi – coi contributi – paga l’assegno di chi è già in pensione. Per questo Mastrapasqua chiede a Grilli e Fornero di darsi una mossa, ovvero nel suo linguaggio che “sia opportunamente approfondita e valutata ogni più utile iniziativa”.

“Noi ci eravamo opposti fin da subito all’integrazione tra i due maggiori enti previdenziali”, dicono i sindacalisti dell’Usb, “perché è funzionale al disegno di smantellamento del sistema previdenziale pubblico, avviato con la riforma Dini del 1995 e perfezionato nel tempo, da ultimo con la riforma delle pensioni targata Monti-Fornero”. Per l’Unione sindacale di base, che sta pensando a uno sciopero per denunciare la situazione drammatica dell’ente previdenziale, la faccenda è molto semplice: “La fusione Inps-Inpdap non è utile a rilanciare la previdenza pubblica, ma ad affossarla: hanno semplicemente voluto scaricare sull’Inps (che gestisce i contributi dei lavoratori del privato, ndr) i debiti delle amministrazioni statali”. Chissà se stavolta il ministro Fornero potrà ripetere la secca risposta che diede a ottobre: “La fusione non determina nessun problema sui conti Inps. I dati erano conosciuti”.

M Palombi - /14/04/2013 


Da Il Fatto Quotidiano del 13 aprile 2013

venerdì 19 ottobre 2012

I numeri del disastroso Governo Monti

Monti non ha ancora compiuto un anno di governo, essendo in carica dal 16 novembre, ma le cifre parlano chiaro: un assoluto disastro!
Il Supplemento al Bollettino Statistico "Finanza pubblica, fabbisogno e debito" n. 52 del 15/10/2012, pubblicato dalla Banca d’Italia, evidenzia chiaramente le cifre del disastro. Con la pubblicazione odierna, si rendono pubblici i dati aggiornati al 31 agosto.  Il debito pubblico continua a crescere, ma con l’avvento di Monti la crescita è stata superiore agli anteriori governi. Il debito pubblico italiano al 31 agosto 2012 era 1.975, 63 miliardi di Euro.

Il debito pubblico nel 2011 (fra il 31/12/2010 ed 31/12/2011) è cresciuto del 3,00%; se consideriamo gli ultimi dodici mesi del governo Berlusconi (31/10/2010-31/10/2011) il debito è cresciuto del 2,38%. Negli ultimi 12 mesi (31/08/2011-31/08/2012) la crescita del debito è stata del 3,51%; Se consideriamo solamente il periodo del Governo Monti (31/10/2011-31/08/2012) la crescita del debito è stata del 3,09% e se ci soffermiamo ad analizzare i dati dell’anno in corso (31/12/2011-31/08/2012) il debito cresce ancora di più: 3,61%. L’azione del Governo Monti sta, inequivocabilmente, facendo crescere il debito più che il suo predecessore.
Se poi consideriamo il debito in relazione al PIL, il disastro del governo Monti appare ancora più evidente. Nel 2008 il debito pubblico italiano era il 106,1% del PIL; nel 2009 sale al 116,4%; nel 2010 arriva al 119,2%, nel 2011 supera il 120%, arivando al 120,7%; nel 2012 sarà sicuramente superiore al 125%, massimo assoluto dal 1970. Secondo calcoli pessimistici potrebbe arrivare perfino al 130% o ad una cifra molto vicina: se il debito negli ultimi 4 mesi dell’anno dovesse crescere di altri 25 miliardi e quindi arrivare in prossimità dei 2.000 miliardi e se si dovesse confermare una riduzione del PIL del 2,6%; in questo caso l’Italia si rrtroverebbe un debito vicino al 130%.
Le cifre del Governo Monti sono ancora più disastrose, se si considera che il debito continua ad aumentare pur in presenza di un aumento delle entrate. Nel 2012, grazie all’aumento delle imposte e delle tasse, il Governo Monti per il 2012, stando agli ultimi dati pubblicati dal FMI lo scorso 9 ottobre, usufruirà di entrate non inferiori a 755 miliardi di Euro, il 48,3% del PIL a fronte di ingressi pari al 46,1% del 2011. Ovviamente l’aumento delle imposte e delle tasse continua ad essere un punto all’ordine del giorno del governo Monti, che contribuisce a deprimire la domanda, per cui è facile aspettarsi un peggioramento della situazione. La disoccupazione, ad esempio, sempre secondo i dati pubblicati dal FMI lo scorso 9 ottobre passa dall’ 8,4 del 2011 al 10,5 nel 2012 e constinuerà a crescere per il 2013.
Il disastro del Governo Monti va ben oltre queste cifre: l’aspetto peggiore è l’aumenta del debito a breve, quello da pagare a meno di un anno. Al 31 di ottobre 2011, ultimo bilancio disponibile per il Governo Berlusconi, il debito totale ammontava a 1.916,40 miliardi di Euro e di questo il 26,07%, ossia 499,58 miliardi erano debiti in scadenza nei successivi 12 mesi.
Oggi (dati al 31/08/2012), con il Governo Monti il debito è a 1.975,63 miliardi di Euro, ma la quota da pagare a breve, entro i successivi 12 è salita a 546,64 miliardi, il 27,67% di tutto il debito. In solo 8 mesi (dal 31/10/2011 al 31/08/2012) di Governo Monti, il debito da pagare a breve ha avuto un rialzo netto del 1,6%. Anche il debito a medio termine, quello in scadenza tra 12 e 60 mesi è in aumento, essendo passato da 554,85 miliardi del 31/10/2011, il 28,95% del totale, a 579,76 il 29,35% del totale; ovviamente diminuisce il debito in scadenza oltre i 60 mesi.
Perchè consideriamo che questo sia l’aspetto peggiore del Governo Monti? Aumentando il debito a breve, significa aver bisogno di maggiori entrate nel breve periodo per coprire le rate in scadenza ed ovviamente si contnuerà a spremere i contribuenti, il popolo Italiano e le imprese, con la conseguenza di deprimere ancora di più la domanda e quindi il panorama economico.
Certamente Monti, come previsto, continuerà a vendere, o per essere più esatti a svendere il patrimonio nazionale, con la conseguenza che nel breve periodo si ritroverà con un debito inferiore di qualche miliarduccio, ma nel lungo periodo aumenterà perchè da un lato continua a spendere (pur aumentando le entrate, se il debito aumenta è perchè aumentano le spese) e dall’altro veranno a mancare gli introiti derivanti dagli utili del patrimonio ormai venduto.
A quanto pare, Monti sta tagliando solo ed esclusivamente gli investimenti sociali, da lui considerati non una grande risorsa del paese, ma uno spreco. Fra qualche tempo, in virtù di questi tagli si ritroverà con un popolo affamato, malcurato ed ammalato, ignorante, con le inevitabili esplosioni sociali ed il ricorso alla repressione ed il conseguente incremento delle spese nel settore dell’ordine pubblico. Bella prospetiva per l’Italia!
L’aumento del debito a breve termine, rende sempre più evidente il ricorso al FMI ed anche se al momento tale ricorso viene negato, la realtà dei numeri indica il contrario. Come si pagano i debiti, se ormai gli italiani, popolo ed imprese, sono già spremuti al massimo?
Nella logica di Monti, si continuerà ad aumentare l’IVA, l’IMU/ICI, le altre imposte e tasse, a ridurre le pensioni, gli stipendi, ecc… ma tutto questo farà ulteriormente diminuire la domanda (i consumatori disporanno di sempre meno soldi da spendere) e per conseguenza le imprese reagiranno riducendo l’offerta, ossia licenciando e spostando all’estero i propri stabilimenti (almeno le grandi imprese; mentre le piccole chiuderanno).
Monti è stato chiamato a diminuire il debito pubblico e a far ripartire l’economia italiana, ma i dati ufficiali indicano esattamente il contrario.

A.Folliero - 15/10/2012
http://umbvrei.blogspot.it/

giovedì 12 luglio 2012

Vivi e lascia morire

Il principio fondamentale del capitalismo tradotto in spending review.
Come al solito, con questo governo di "tre-cartisti" laureati, stiamo qui a discutere di qualcosa che nessuno conosce nei dettagli. Quel che tutti hanno in mano sono le dichiarazioni rilasciate all'uscita dell'incontro con il governo da rappresentanti degli enti locali, di Confindustria e dei sindacati “complici”. E se si dovesse ascoltare soltanto questi ultimi non si capirebbe assolutamente nulla, stretti come sono tra l'esigenza di fare il viso delle armi (senza intanto muovere un dito) e la necessità vitale di attenuare la gravità delle mosse dell'esecutivo (che richiederebbero non uno sciopero generale, ma un blocco prolungato dell'intero paese).
Il governo, sostenuto da tre partiti in via di estinzione e da una stampa mainstream ben oltre i limiti dei fogli di regime, prosegue nel gioco retorico, che fin qui è riuscito benissimo, da un paio di decenni a questa parte. Si mettono giovani contro anziani, dipendenti pubblici contro privati, precari contro stabili, esodati contro pensionati, e alla fine si tira fuori il jolly che peggiora le condizioni di vita di tutti. Equamente...
Il gioco è ancora più semplice in questo caso, perché sotto tiro finiscono i dipendenti pubblici, contro cui è stato costruita una mostrificazione di luoghi comuni, spesso purtroppo avallata da alcuni comportamenti autolesionistici della categoria.
Al di là dei comportamenti, dunque, bisogna individuare il “disegno” di riorganizzazione della macchina pubblica che emerge nettamente dall'insieme delle misure pur confusamente descritte dagli interlocutori del governo ieri. È una macchina indebolita in ogni settore meno che in quelli militari e di polizia. Persino la magistratura (e la parte amministrativa degli uffici relativi) viene pesantemente “tagliata”, eliminando tribunali, uffici, sedi. Anche i processi, in un sistema costituzionale ristretto al solo potere esecutivo, diventano un lusso di cui si può fare agevolmente a meno. Un po' perché alcuni magistrati s'erano fissati nell'inquisire uomini di potere; un po' perché per "il volgo" basta il fermo o l'omicidio di polizia-
Di fatto si punta a una struttura in grado di fornire soltanto i servizi burocratici minimi, quelli indispensabili a mantenere monitorata la popolazione, i suoi redditi, i suoi consumi e i comportamenti sindacal-politici. Ma non più in grado di fornire servizi sociali.
Il welfare è già stato praticamente cancellato (e ancor peggio andrà dal 2016, quando andrà completamente a regime la controriforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali); la sanità pubblica viene drasticamente amputata di parti essenziali per favorire al massimo la migrazione della domanda verso quella privata (che mantiene il vantaggiosissimo, per lei, sistema delle “convenzioni”). Idem per l'istruzione o l'università, la ricerca.
È un disegno di privatizzazione generale, che lascia i singoli – e ovviamente soprattutto i meno abbienti, a cominciare dai lavoratori dipendenti – praticamente esclusi dai servizi necessari. In una macchina statale così ridotta, il cittadino diventa un “nemico” portatore di istanze e bisogni irrisolvibili. Potenzialmente ostile proprio nella misura in cui la sua domanda è destinata a rimanere inevasa. Per questo gli “enti della sorveglianza” debbono rimanere solidi, ben nutriti, approvvigionati, tutelati. Meno welfare, da sempre, significa più bastonate, prigione, spionaggio nei luoghi del malessere sociale e dell'organizzazione sindacale e politica. “Repressione” in senso lato (quella che si usa chiamare “prevenzione”) e all'occorrenza più “fisica”. Del resto, come hanno insegnato i democristiani, la “mediazione sociale” si fa spendendo; se si tagliano le spese, salta la mediazione. E se questa non è più prevista...
Ci sembra perciò indispensabile evidenziare quel che Il Sole 24 Ore mette in un angolo, come un dettaglio insignificante:
"Revisione degli organici e individuazione degli esuberi, del resto, era esattamente quello che tutte le Pubbliche amministrazioni avrebbero dovuto fare nei primi sei mesi di quest'anno, come imposto (in teoria) dalla legge di stabilità votata a novembre come atto finale del Governo Berlusconi (legge 183/2011). La legge pensava anche a come trattare le eccedenze, introducendo un meccanismo (già provato in Grecia nel primo pacchetto di misure anti-crisi) con una mobilità di due anni all'80% dello stipendio prima dell'uscita definitiva dall'amministrazione. Lo stesso strumento che ora torna in auge con la spendig review: sempre che il secondo tentativo sia più fortunato del primo".
Come si vede, non c'è nulla di “originale” nella linea del governo Monti. 
Fa esattamente le stesse cose che ha fatto il governo greco, seguito da quelli del Portogallo e della Spagna. C'è una linea europea che non riguarda soltanto i “conti pubblici”, ma che deve rivoltare come un guanto gli assetti sociali, gli equilibri tra le classi, le caratteristiche dei sistemi politici.
La differenza sta nel comportamento dei sindacati “ufficiali”. In Grecia, con tutti i limiti delle divisioni esistenti anche all'interno di quel paese e di quella sinistra (in senso molto lato), è stata messa in campo una resistenza di massa forte, potente, consapevole di sé e dei propri diritti, della necessità di opporsi subito, in tempo reale, a quel che stava avvenendo.
Qui abbiamo un trio di mezze calzette, “complici” soggettivamente e scientificamente di un potere criminale che non prevede - marchionnescamente – opposizione legittima. Tre figuranti che recitano malamente il ruolo di “sindacalisti” e che, proprio facendolo, delegittimano la funzione e la presenza del sindacato. Lo rendono impresentabile al punto che, probabilmente, nel prossimo futuro, chiunque voglia svolgere la stessa funzione sociale dovrà probabilmente adottare un altro nome. Così come dovrà fare chiunque voglia svolgere un ruolo “da partito”.
Non stiamo dunque parlando solo della mattanza dei dipendenti pubblici, che sarà ampia, sanguinosa (molta gente resterà senza stipendio per anni, magari dopo aver superato i 50 anni ed essere perciò assolutamente “non ricollocabile”), condotta con metodi intimidatori. Stiamo parlando di un modello sociale che viene rovesciato con metodi di guerra, in assenza di guerra e in preparazione di altre guerre.
È la logica della “competitività”. Quando si scopre che azzerare i propri lavoratori (in tutta l'Europa) non basta ad avere un mercato che assorba la propria produzione, la “competizione” da economica si trasforma in militare.
Si può fermare quest'opera di distruzione? Sì, certamente. Ma bisogna mettere il proprio cervello all'altezza di questa sfida. Battersi nel “locale” è sacrosanto. Ma bisogna unire le soggettività, superare la logica dei piccoli cortili, riconoscere e allontanare gli infiltrati e i seminatori di zizzania, parlare alla gente reale invece di considerare “l'avanguardia del cortile accanto” come un possibile “seguace” di un manipolo che non diventerà mai esercito...
Questo ed altro, bisogna fare nel micro-universo dell'antagonismo. Diventare adulti, insomma, davanti a un futuro a tinte fosche.

D.Barontini - 04/07/2012
http://www.contropiano.org

 

venerdì 29 giugno 2012

La riforma è servita : addio all'articolo 18 e senza ammortizzatori sociali

Quel che c'è nella controriforma del mercato del lavoro è ormai abbastanza noto. E i mal di pancia delle parti sociali vengono plasticamente rappresentati dai partiti che sostengono faticosamente il governo Monti. Il Pdl - con Confindustria e le altre associazioni minori delle imprese - pretende con molta durezza che siano allargate ancora di più le maglie della precarietà contrattuale, eufemisticamente chiamata «flessibilità in entrata». Lamentando - oltre il livello della vergogna - che in fondo sulla «flessibilità in uscita» (la libertà di licenziare, smantellando l'articolo 18) il governo si è limitato a «una modifica pro forma».
È falso, naturalmente, come hanno ben spiegato Piergiovanni Alleva e molti altri su questo giornale; ma non fa niente. «Mentite, mentite, qualcosa resterà», raccomandava a suo tempo Goebbels. Ora il gioco è più raffinato e coinvolge media meno dozzinali. Perciò il relatore del Pdl alla legge, Giuliano Cazzola, già annuncia «interventi correttivi concordati col governo» sulla detassazione dei premi di produttività, l'eliminazione del vincolo di 36 mesi oltre il quale il contratto a termine deve obbligatoriamente diventare a tempo indeterminato, e varie altre cosette che mirano a rendere il «giovane lavoratore» pura plastilina nelle mani dell'azienda.
Sul «fronte opposto», si fa per dire, il Pd prova sommessamente a ricavare qualche provvedimento per gli «esodati». Ma senza estremismi: «noi non facciamo numeri, individuiamo criteri per un rapida soluzione». Stesso discorso anche «per i giovani», destinatari di una mini-Aspi (indennità di disoccupazione) quasi impossibile da ottenere.
Tra le poche novità, l'indicazione vaga di un minimo contrattuale per i collaboratori a progetto («il corrispettivo non deve essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività e in ogni caso sulla base dei minimi salariali». Ma non è chiaro in qual modo i singoli lavoratori co.co.pro. - notoriamente poco rappresentati sindacalmente - possano far valere questo loro diritto nascente; almeno senza subire ritorsioni da parte del datore di lavoro.
L'«equità» e le «pari opportunità» erano due parole spesso pronunciate dal ministro del lavoro, Elsa Fornero. E in effetti il ddl ora legge prevede che gravidanza, infortunio e malattia non siano più cause di risoluzione del rapporto di lavoro precario. Con una piccola ma importante postilla: il «posto» deve essere conservato, ma di salario - per tutto il periodo della malattia o della maternità - non è «naturalmente» neppure il caso di parlare...
Seppellito l'art. 18 con la sola opposizione dei sindacati «conflittuali» (la Fiom e quelli di base), il punto su cui probabilmente si dovrà reintervenire è quello degli ammortizzatori sociali. Il testo uscito dalla Camera pesa come una mannaia su quanti perderanno il posto di lavoro nei prossimi mesi. Per i licenziati dal 1 gennaio prossimo fino alla fine del 2015, infatti, c'è solo «l'indennità di disoccupazione non agricola» prevista dal «regio decreto» del '39; con durata tra gli 8 e i 16 mesi a seconda dell'anno in cui avviene il licenziamento e dell'età del lavoratore.
Dal 1 gennaio 2016 scompare definitivamente anche la cassa integrazione straordinaria per le aziende che fallliscono o vanno in liquidazione coatta amministrativa (come il manifesto, insomma). Per quanto riguarda la «transizione» al nuovo regime (fino al 2016), invece, restano le cig «in deroga», ma della durata massima di 12 mesi (prorogabili), su decisione del governo ed «entro i limiti delle disponibilità del Fondo sociale per occupazione e formazione (1 miliardo per ciascuno dei prossimi due anni, poi 700 e 400 milioni). Ogni proroga, comunque, comporterà una riduzione crescente dell'assegno di cig. Degli 850 euro di massimale attuale, insomma, si perderebbe il 10% alla prima proroga, il 30% alla seconda e il 40 alla terza. In pratica, al terzo anno ci si ritrova con circa 500 euro mensili; come la pensione minima, ma per un anno solo. Poi basta.
L'enfasi sulla frequenza obbligatoria di «specifici programmi di reimpiego», infatti, non ci sembra in grado di risolvere alcun problema effettivo. Lavoratori che le imprese considerano «troppo vecchi» (diciamo dai 50 anni in su, senza voler esagerare) per restare in azienda, molto difficilmente potranno essere riassunti altrove solo perché nel frattempo hanno frequentato qualche lezione «di aggiornamento perenne».
La «struttura» che sembra tenere insieme le varie norme contenute nella «controriforma» è, a conti fatti, più ideologica che reale. Persino Confindustria, in una delle poche critiche sensate rivolte al decreto, ha dovuto constatare la completa assenza di «politiche attive» per il reimpiego dei licenziati. E non basta davvero un pistolotto sulla «scommessa per far cambiare mentalità agli italiani» per riempire un vuoto così vistoso. È sufficiente parlare con un francese qualsiasi, per accorgersi della differenza vitale esistente con i nostri «concorrenti europei». 

F.Piccioni - 28/06/2012
il Manifesto
 

lunedì 28 maggio 2012

Senza che si senta un belato

L’assemblea nazionale autoconvocata da delegati Rsu, attivisti sindacali e semplici lavoratori svoltasi al teatro Ambra Jovinelli per tentare di mettere in campo mobilitazione adeguate a contrastare l’attacco gravissimo all’art.18 e, più in generale, a tutte le politiche antisociali del governo Monti-Napolitano, è stata un buon inizio.
Tanti lavoratori appartenenti alla Fiom, alla Cgil e ai sindacati di base, Usb in primis, superando le rispettive sigle sindacali si sono confrontati e hanno discusso di come sia possibile rilanciare, insieme, il conflitto sociale: tutti gli interventi che si sono susseguiti miravano a capire come costruire iniziative realmente includenti e fornire una risposta “complessiva e duratura”, alle “cure anti-crisi” imposte dalla Bce e attuate dal governo “tecnico”. Significativamente la platea era sovrastata da un grande striscione: “via il governo Monti!”.
Tanta la rabbia tra i lavoratori presenti, ma anche la convinzione che se si torna a lottare con determinazione tutti insieme si può aprire uno spiraglio di speranza. Unanime il desiderio di superare sia la subalternità dell’attuale segreteria Cgil al PD e alle pratiche sindacali “complici” di Cisl, Uil e Ugl, sia la debolezza e la frammentazione del sindacalismo di base
Tra i primi a prendere la parola Dante De Angelis, rappresentante dei ferrovieri per la sicurezza, reintegrato per ben due volte sul posto di lavoro proprio grazie all’articolo 18. La sua storia testimonia in modo inequivocabile l’importanza delle tutele contro i licenziamenti discriminatori. Tutele conquistate dopo anni di lotte culminate nell’autunno caldo del 1969 e sancite dallo statuto dei lavoratori del 1970 e che sono messe pesantemente in discussione dalla controriforma del ministro Fornero.
Francesco Staccioli, cassintegrato e responsabile assistenti di volo Usb, porta l’esempio della sua esperienza in Alitalia, azienda paradigmatica di quanti non hanno potuto usufruire delle tutele previste dall’art. 18: in cinquemila hanno subito un’ingiustizia che ha fatto da apripista alla libertà totale delle aziende di prendersi tutto “senza che si senta un belato”.
Pierpaolo Pollini, Rsu-Fiom Cgil della Fincantieri di Ancona, prima di intervenire è già sul palco ed è arrabbiato. Manifesta assoluta distanza dal moderatismo del linguaggio sindacale comune, delle cose dette e non dette. A suo avviso, buona parte delle colpe della fine di ogni tutela e diritto risiede anche tra quelle burocrazie sindacali che sostengono che gli scioperi generali non servano a nulla: la Grecia invece sta lì a dimostrare che se fatti con la dovuta convinzione e radicalità gli scioperi generali servono, “là ne hanno fatti tanti ed a qualcosa hanno portato: abbiamo visto i risultati delle recenti elezioni”.
Poi senza mezzi termini accusa di corruzione tutte quelle forze che sostengono questo governo in parlamento, ed invita gli altri delegati a farsi promotori di lotte ad oltranza: “alla Fincantieri siamo stati lasciati soli, in tanti ci hanno detto che non c’era alternativa, ma noi abbiamo risposto che non era vero che non potevamo fare nulla, che avremmo deciso noi. Quando ci hanno detto che non ci avrebbero dato lavoro, che non ci avrebbero dato la fabbrica, noi ce la siamo presa, l’abbiamo occupata. Non è vero che non possiamo fare niente.” E finisce il suo intervento, applauditissimo, con un invito che è già un programma: “ora non è più tempo di suicidi ma di ribellione”.
Paolo di Vetta, responsabile AS.I.A. Usb, da sempre in prima fila nelle lotte del movimento per la casa, sostiene che “il vero bene comune è la rivolta, e si tratta del terreno da costruire in sinergia tra i conflitti nel mondo del lavoro e quelli che riguardano il territorio.”
Sergio Bellavita, della segreteria nazionale Fiom, sostiene che la Cgil, per non aver dichiarato battaglia in difesa dei lavoratori, porta con sé una responsabilità enorme: il sindacato è attraversato da una grossa crisi perché i lavoratori capiscono che non basta uno sciopero di 4 ore, né uno di 8, così come lo sciopero generale non sarà di per sé sufficiente. Ma per aprire qualunque prospettiva, “l’elemento decisivo è non rassegnarsi e dare battaglia”.
Secondo Giorgio Cremaschi “c’è un palazzo politico, ed uno sindacale, che è quello che farà l’inutile manifestazione del 2 giugno, e poi ci siamo noi, che non siamo un palazzo, siamo il sindacato vero.” Ascoltando le dichiarazioni di Monti nella trasmissione Piazza Pulita abbiamo avuto esempio del politichese bocconiano, per Cremaschi, in cui tra tante “formulette” e frasi fatte, l’unico punto chiaro era quello sulla Grecia: Monti infatti ha detto che alle prossime elezioni si augura non vincano i partiti “estremi”, perché se così dovesse essere potrebbe verificarsi un contagio alla Spagna, al Portogallo. Non ha citato l’Italia.
“Ma noi la lotta di liberazione del popolo greco dobbiamo trasportarla qui. Dobbiamo dirci che sull’art.18 il movimento c’è stato ma si è fermato perché non è stato fatto proprio dalla dirigenza della Cgil”, la quale ha dimostrato “un coraggio politico inferiore a quello di Cofferati” capace di mantenere una difesa intransigente dello Statuto dei lavoratori. Oggi, invece, la classe dirigente del principale sindacato italiano, rinunciando a qualunque iniziativa efficace si è coperta di “una macchia indelebile”.
Pertanto la convinzione di Cremaschi è che “se anche non dovessimo riuscire a fermarli, dovremo almeno far loro pagare il prezzo più alto. Diamo pure la colpa a Cgil, Cisl e Uil per tutto quello che gli spetta, ma assumiamoci la responsabilità di fare, di spenderci.” Questa è una assemblea di rottura.” Nel rivendicare il suo diritto all’unità trasversale con chi lotta, Cremaschi ha denunciato “pressioni sui compagni della Cgil per non farli venire in questa assemblea”.
Riprendendo lo stesso concetto Paolo Leonardi, coordinatore Usb, sostiene che “bisogna rompere con l’apartheid sindacale per cui le lotte si fanno fuori dalla Cgil o al suo interno”, è tempo dell’unità di tutto il sindacalismo conflittuale. A suo avviso, si tratta di una fase difficile perché è forte la rassegnazione, infatti anche tra i lavoratori sta passando il messaggio che non è possibile fare nulla per fermare l’attacco feroce del padronato e del governo Monti. Pertanto “oggi non dobbiamo vivere nell’autoreferenzialità di quanto costruito sino ad oggi. Se fino a ieri si marciava divisi per colpire uniti, oggi bisogna anche saper marciare uniti per colpire uniti”.
Luigi Sorge, operaio Fiat di Cassino, critica la strategia di Landini, a suo avviso sbagliata perché inadeguata alla portata dello scontro attuale. “ Dobbiamo costruire uno sciopero generale vero che porti la Grecia in Italia”, è l’invito di Luigi, perché “il nostro obiettivo è cacciare Monti, ma non per avere un Governo Bersani   magari supportato da Ferrero ma per aprire la strada ad una autentica prospettiva anticapitalista.”
Dopo di lui, prende la parola un delegato Fiom di Filippi srl, azienda in provincia di Padova che produce elettrodomestici ma ha deciso di chiudere lasciando a casa 234 dipendenti: “o alziamo il livello dello scontro o non ne veniamo fuori: la Fiom, senz’altro sindacato conflittuale, può essere un cimitero di buone intenzioni se la lotta nelle singole fabbriche non si coordina e non si generalizza a tutto il mondo del lavoro”.
L’assemblea è terminata con una mozione conclusiva che, “tenendo conto dei diversi equilibri” tra le varie forze presenti, ha fissato per l’8 giugno, sotto Montecitorio, durante la discussione della controriforma del lavoro alla camera, una manifestazione per “assediare” il parlamento in contemporanea agli scioperi del settore dei trasporti e del pubblico impiego. In prospettiva l’obiettivo è quello di costruire nella lotta “un progetto sindacale complessivo per di difendere il mondo del lavoro ed elaborare una piattaforma unificante in grado di ricomporre le lotte dei lavoratori con le lotte per i beni comuni”.

Anna Lami - 27/05/2012
www.megachip.info

domenica 22 aprile 2012

Direttivo Cgil - Documento finale

20/04/2012

Passa il sì sul 18 con ampio dissenso.Con 90 si 35 no e 6 astenuti il Direttivo della Cgil ha approvato la linea della maggioranza della segreteria sull'articolo 18. Il documento approvato esprime un giudizio positivo sul progetto del governo considerandolo un primo risultato. Contro questo giudizio si sono pronunciati tra gli altri Nicolosi, Rinaldini, Redavid e Cremaschi. Pantaleo (Flc) e  Dettori (Fp) sono tra gli astenuti.
DOCUMENTO FINALE
Dopo oltre quattro anni di crisi, l’Italia è un Paese impoverito con tassi di disoccupazione crescenti. Le politiche scelte dall’Europa e tradotte dal nostro Paese determinano un ciclo recessivo che aggrava ulteriormente la situazione e non permette di vedere un’uscita dalla crisi.
Le politiche europee, esclusivamente legate al controllo dei debiti sovrani, sono l’opposto di una scelta di crescita. Decisioni per liberare risorse finalizzate agli investimenti (TTF Eurobond) sono improcrastinabili, in assenza di questo sono l’eurozona e la sua moneta ad essere sempre più in difficoltà.
I patti europei assunti dal Governo determinano una strada molto stretta e difficile per salvaguardare politiche di crescita, ma se non vengono intraprese la situazione del Paese diverrà intollerabile.
Il Governo, che si era presentato all’insegna di rigore, crescita, equità, ha invece realizzato provvedimenti non equi e senza crescita, che hanno determinato un peggioramento delle condizioni di vita e di reddito dei lavoratori e dei pensionati generando un forte e crescente disagio sociale.
La stessa politica fiscale ha determinato un crescente prelievo sul lavoro, sulle pensioni e sulle famiglie senza alcuna equità distributiva, mentre bisognerebbe agire sulle rendite e sulle grandi ricchezze.
Le politiche di nuovo riproposte nel DEF e nel PNR, che indicano nelle riforme strutturali la fonte della futura crescita, non determinano nessuna inversione di tendenza e negano l’obiettivo principale ovvero creare lavoro.
Cambiare questa politica è l’obiettivo fondamentale per la CGIL. Redistribuzione fiscale, contrasto all’evasione e al sommerso, lotta alla corruzione, piano per il Lavoro, nuovo welfare in funzione dello sviluppo e allentamento del Patto di Stabilità sono le proposte necessarie ed urgenti per determinare una prospettiva di uscita dalla crisi.
A tal proposito è positivo che CISL e UIL, nei loro rispettivi organismi, abbiano discusso di una mobilitazione unitaria con questi obiettivi.
La segreteria della CGIL, su mandato del CD, proporrà a CISL e UIL di riunire le segreterie unitarie per concretizzare una piattaforma e le conseguenti iniziative di mobilitazione.
Le scelta del Governo di abbandonare il confronto con le parti sociali sul mercato del lavoro, per ripetere lo schema della riforma pensionistica con l’aggravante della volontà, fallita, di isolare la CGIL, è una scelta sbagliata che si dimostra di giorno in giorno più miope.
Il Governo, dopo essersi presentato come il paladino dei giovani, della riduzione della precarietà e dell’universalità degli ammortizzatori sociali, produce un disegno di legge che tradisce quegli obiettivi.
L’enfasi del Governo sull’art. 18, ovvero sui licenziamenti facili, si è invece tradotta nel primo vero passo indietro del Governo stesso.
L’iniziativa della CGIL, la forte mobilitazione di lavoratori, lavoratrici e pensionati, ha costruito le condizioni per una mediazione politica che ha reintrodotto il reintegro per i licenziamenti economici individuali e collettivi, ricostruendo l’effettuo di deterrenza e ripristinando un principio di civiltà giuridica.
Il mantenimento dell’onere della prova in capo alle aziende e la definizione della procedura di conciliazione che può determinare un effettivo ruolo della rappresentanza sindacale, insieme al reintegro, rappresentano un primo importante risultato, come già indicato nel documento della Segreteria.
E’ essenziale oggi, che lo squilibrio sulla precarietà e sugli ammortizzatori non si traduca nella riproposizione della presunta contrapposizione di una CGIL impegnata a difendere una parte e disattenta ai giovani e precari.
Abbiamo detto che avremmo giudicato l’equilibrio del ddl se si fosse invertita la pratica della moltiplicazione delle forme di ingresso e si fossero indirizzati gli ammortizzatori alla universalità, se si fosse aperto un vero confronto per l’attuazione del contrasto alla precarietà nei settori pubblici, per i quali si propone invece una inaccettabile e generica mobilità, presupponendo esuberi mai dimostrati. Questa ipotesi è tanto più inaccettabile mentre è ancora del tutto oscuro come il Ministro per la Pubblica Amministrazione intenda esercitare la delega contenuta nell’art.2 del DDL sul Mercato del Lavoro. La scelta del Governo va respinta con ogni azione di contrasto fino allo sciopero generale del lavoro pubblico che sarà, ovviamente, proclamato dalle categorie. La CGIL conferma la propria volontà di aprire invece un negoziato sul lavoro pubblico come mezzo per riqualificare ed estendere il welfare nel nostro Paese.
Insieme abbiamo sottolineato l’esigenza di mantenere l’istituto della mobilità con una particolare attenzione al Mezzogiorno.
In ragione di queste valutazioni, confermando il nostro giudizio sulla complessiva inadeguatezza del ddl presentato dal Governo, abbiamo proposto alla commissione lavoro del Senato emendamenti su tutti i capitoli del ddl stesso, per segnare un cambiamento sulla precarietà, rafforzare gli ammortizzatori, rendere più lineare l’interpretazione dell’art. 18 e determinare un effettivo contrasto alle dimissioni in bianco.
La CGIL con le mobilitazioni in corso, quelle programmate e con la scelta di una giornata nazionale di iniziativa dei e con i giovani sulla precarietà il 10 maggio, continuerà a caratterizzare la sua iniziativa per la discussione in Parlamento. Il CD, dando il mandato alla Segreteria di definire la data dello sciopero generale in rapporto all’andamento dell’iter parlamentare del ddl, impegna tutte le strutture ad articolare la loro iniziativa anche sui temi del Piano per il Lavoro, del fisco, della crescita e del welfare.
Questo percorso è reso ancor più necessario dalla offensiva del sistema delle imprese che, mancato l’obiettivo della libertà di licenziamento, propone uno stravolgimento negativo ed ulteriormente peggiorativo di tutto il ddl confermando la scelta di una via basata sul lavoro debole e povero e non sulla qualità, sulla formazione e sull’innovazione.
La stessa necessità del susseguirsi dei vertici politici e il nervosismo del Governo dimostrano quanto sbagliata sia la strada dell’esclusione del confronto con le parti sociali e della negazione degli accordi.
La CGIL è impegnata ad attuare l’intesa sulla rappresentanza del 28 giugno 2011, iniziativa che va collegata alla riapertura di una campagna per la democrazia e la modifica dell’art. 19, ed aprendo su questo un confronto con CISL e UIL.
Infine, la mobilitazione unitaria del 13 aprile sulle pensioni ha visto una grande partecipazione e reso evidente a tutto il Paese i guai prodotti da una riforma sbagliata, priva anche delle tradizionali clausole di garanzia.
Con il mondo variegato dei lavoratori in mobilità, in esodo volontario, in ricongiunzione e con i licenziati abbiamo preso l’impegno di attivare un confronto con il Governo, che nuovamente sollecitiamo , e della prosecuzione della mobilitazione.
Servono risposte non solo per dare soluzione alle tante domande individuali ed alle tante preoccupazioni, ma anche per riaprire il tema della riforma delle pensioni che produce tante ingiustizie ai lavoratori ed ai pensionati.
Le risorse per affrontare il problema si devono trovare, a partire dal pagare in titoli di Stato retribuzioni e pensioni d’oro che ad oggi contribuiscono alla solidarietà proporzionalmente meno dei pensionati a cui è stata bloccata la rivalutazione. 

Il guaio è la subalternità al Partito democratico

di Giorgio Cremaschi - 20/04/2012
Nel direttivo della Cgil non si sono solo scontrati due opposti giudizi sulla controriforma del lavoro ma si sono anche confrontati due diversi modi di concepire il rapporto con il governo e la politica nella crisi attuale.
Sul piano del merito la differenza è evidentissima. Da un lato, la maggioranza con i suoi 90 voti, ha affermato che sull’articolo 18 si è ottenuto un primo risultato e che sostanzialmente si è difesa la tutela contenuta in quell’articolo dello Statuto dei lavoratori.

Chi ha votato contro (35 con 6 astenuti, della Fiom, della conoscenza e della Funzione pubblica, della minoranza congressuale, di Lavoro società), ha invece sostenuto l’esatto contrario. Cioè che la controriforma del lavoro avviene prima di tutto sull’articolo 18, con il passaggio dalla reintegra all’indennizzo anche nel caso di licenziamento riconosciuto ingiusto da parte del giudice. Ci si scontra quindi non solo sul bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, com’è nella tradizione sindacale, ma proprio sul senso del risultato. Per chi ha votato contro il risultato è completamente negativo, per chi ha votato a favore invece è un passo avanti. E’ difficile trovare nella storia recente della Cgil una contrapposizione così netta e così inconciliabile. Se nel 1984 la maggioranza della Cgil invece che respingere il decreto Craxi che tagliava la scala mobile lo avesse approvato, forse avremmo un precedente. Oggi purtroppo si ha la sensazione che le posizioni e le maggioranze siano esattamente ribaltate rispetto a quel momento.
E questo perché la maggioranza della Cgil oggi è strettamente connessa alle scelte, alle sofferenze, alle difficoltà e alle contraddizioni del Partito democratico. Il documento finale finisce con una sorta di ringraziamento a quelle forze politiche che hanno permesso i primi risultati. In realtà dovrebbe essere il Pd a ringraziare la Cgil, perché l’accettazione da parte di questa organizzazione dell’accordo sul lavoro tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, suona soprattutto come copertura nei confronti di questo partito. Di un partito che deve sostenere una delle politiche più antipopolari e antisociali della storia della Repubblica. Se fosse stato al governo Berlusconi la Cgil non si sarebbe minimamente sognata di  accettare una manomissione dell’art. 18. Lo fa oggi unicamente perché il suo gruppo dirigente pensa che non si possa andare allo scontro frontale con questo governo. E qui c’è il nodo di tutto.
Nel dibattito del direttivo le critiche, l’insofferenza, l’ostilità verso il governo sono stati enormi, eppure sono sembrati più segno di frustrazione e impotenza che di reale volontà politica. Nella Cgil la maggioranza si lamenta di quanto sia di destra questo governo, ma poi non riesce a sottrarsi al vincolo del quadro di unità nazionale che lo sostiene. In questo modo anche la polemica con l’antipolitica diventa profondamente ambigua. E’ il governo di unità nazionale che taglia le pensioni e tutti i diritti, sostenuto anche dal Pd, che costruisce l’antipolitica. L’antipolitica è prima di tutto l’ABC.
Così si depotenziano anche le lotte e gli scioperi. Dopo la sconfitta drammatica sulle pensioni e mentre sull’art. 18 sono minacciati diritti fondamentali dei lavoratori, la Cgil lancia un appello a Cisl e Uil per una lotta comune sul fisco e sul lavoro. Si cambiano continuamente le carte in tavola, sperando di non perdere la mano, ma così si va solo sempre più a fondo. Oggi i lavoratori stanno mostrando una generosità incredibile nell’effettuare scioperi e lotte in tutta Italia. Ma se chi deve rappresentare queste lotte manda segnali confusi e contraddittori a coloro contro i quali esse sono indirizzate, le depotenzia nello stesso momento in cui le proclama.
Gli scioperi devono avere un obiettivo chiaro: il no alle controriforme e al governo che le sostiene, altro che equilibrismi.
La situazione è troppo grave perché si possa andare avanti così. Quasi il 30% della Cgil nel direttivo ha detto di no alla segreteria. Occorre trasformare questa scelta in azione. Occorre che il popolo della Cgil sappia che una parte dell’organizzazione non è d’accordo con questa linea di tira e molla e perdi. Per quanto ci riguarda faremo tutto il possibile perché si organizzi un opposizione di massa in Cgil e perché cresca nel paese quel movimento unitario di lotta contro il governo che, unendo forze e movimenti e sindacati diversi, ha avuto un suo primo importante successo il 31 marzo a Milano. Non ci sono voti di direttivo che tengano, quando sono in gioco i diritti fondamentali dei lavoratori si va avanti nel difenderli.


martedì 17 aprile 2012

Lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro

La letteratura economica fornisce una semplice spiegazione di quanto sta accadendo oggi in Italia. L’economia ci dice che lo scopo (inconfessato) della riforma del mercato del lavoro deve essere quello di causare un incremento della disoccupazione. Un (ulteriore) incremento del tasso di disoccupazione si rende necessario per un motivo molto semplice: la curva di Phillips. La curva di Phillips stabilisce che la crescita dei salari è in relazione inversa rispetto al tasso di disoccupazione, una relazione individuata da A.W. Phillips nel 1958.
Questa relazione non è mai stata posta seriamente in discussione nella letteratura empirica, come ci ricorda Jeffrey Fuhrer. Non sorprende quindi che gli economisti ne facciano tuttora uso per prevedere l’inflazione (Fendel, Lis e Rulke), ed è assolutamente evidente che il governo italiano sta facendo altrettanto.
In tutta evidenza, i fautori della riforma si aspettano che un innalzamento del tasso di disoccupazione moderi la crescita dei salari e quindi il tasso di inflazione. Ciò contribuirebbe a ristabilire la competitività di prezzo dei prodotti italiani e quindi a riequilibrare gli sbilanci esterni che sono alla radice della crisi dell’eurozona, come spiega ad esempio Martin Wolf. Tra l’altro, questo è uno dei motivi per i quali i mercati finanziari, che credono in questo meccanismo (come ci ricordano Fendel et al. in un altro lavoro), potrebbero accogliere con favore un innalzamento della disoccupazione in Italia.
L’unico piccolo problema con questo approccio è di natura politica, non economica. Il ragionamento del governo è impeccabile da un punto di vista economico. Il suo unico (trascurabile?) difetto è che nessun membro del governo sta dicendo la verità, ovvero che lo scopo immediato e inconfessabile di una riforma altrimenti insensata è quello di far aumentare la disoccupazione.

Alberto Bagnai,professore associato di politica economica
Dipartimento di Economia - Università G. d'Annunzio, Chieti-Pescara
12/04/2012
http://goofynomics.blogspot.it/

lunedì 16 aprile 2012

Ministro Fornero, gli esodati li ha creati lei


Sarebbe l’ora che il Ministro Fornero la smettesse di giocare con le parole e di prendersi così gioco del buon senso e delle capacità di ragionamento dei cittadini.

Dopo le uscite assai sgradevoli circa la distribuzione delle caramelle e la propensione italica a sedersi al sole con un piatto di maccheroni al pomodoro invece di lavorare, il Ministro se ne è uscito con la dichiarazione che “(Gli esodati) li creano le imprese che mandano fuori i dipendenti a carico del sistema pensionistico pubblico e della collettività; non le riforme e neppure il Governo”.

Eh no, caro Ministro, come spesso accade quando lei apre bocca, non ci siamo; il giochino maldestro consiste in questo caso nel confondere il “licenziato” con quello che l’orrido neologismo “esodato” significa nel sentire comune. Infatti se è vero che sono le aziende a licenziare in caso di necessità, come hanno sempre fatto da quando fu varata la legge 223 in tema di mobilità, nella stragrande maggioranza dei casi i “licenziati” entravano in un programma di ammortizzatori sociali che li accompagnava alla pensione. Nessuno ha mai parlato per anni di esodati, né sussistevano le condizioni per le quali fosse necessario coniare una parola per definire sinteticamente coloro che estromessi dal lavoro ma vicini ai requisiti pensionistici, al raggiungimento degli stessi fossero stati collocati anziché in pensione in un limbo che però assomiglia di più a un girone infernale; perché, egregio Ministro, il termine “esodati“ questo descrive.

Ma, essendo questa la situazione, bisogna ricordarsi che questo limbo esiste da quando il Ministro (questo Ministro) ha pensato bene di prendere ad accettate il sistema previdenziale in una notte innalzando muri dal niente, trasformando i licenziati appunto in esodati e fregandosene altamente di coloro che si sono addormentati la sera come pensionandi e si sono svegliati al mattino come relitti.

Quindi, Ministro, gli “esodati” li ha creati lei e girare la responsabilità sulle aziende è un giochino un po’ sporco ma che ha le gambe cortissime.

Peraltro un lettore che per la prima volta leggesse le sue dichiarazioni (bei tempi quelli in cui di lei la stragrande maggior parte dei cittadini ignorava persino l’esistenza) sarebbe portato a interpretare questa sua ultima chicca come il lamento di un Ministro che protesta contro la bieca manovra delle industrie che scaricano sulla collettività i propri lavoratori licenziandoli. “Perbacco”, direbbe il lettore alle prime armi, “il Ministro ha a cuore i licenziati ma vorrebbe evitare di dover spendere i soldi della collettività per proteggerli”. Peccato che invece lei, come Ministro del lavoro, stia anche proponendo una legge che facilita i licenziamenti per motivi economici e cioè proprio quelli che portavano alle procedure di mobilità.  Siamo di fronte a uno sdoppiamento della personalità? Da un lato agevola le aziende nel licenziare e dall’altro le bastona perché lo fanno?

Insomma, la misura è abbastanza colma e anche imputando l’ultima uscita a una malcelata e rancorosa irritazione del Ministro nei confronti delle aziende a causa delle critiche fatte alla sua riforma del lavoro, non si può passare sotto silenzio questo ultimo escamotage verbale teso a deflettere le critiche e a sfuggire la responsabilità.

Mi pare che il paese cominci ad averne abbastanza di un Ministro che risponde a sollecitazioni sulle problematiche della disoccupazione con battute di spirito di dubbio gusto, che reagisce stizzita a qualsiasi critica venga fatta ai suoi disegni di legge e che crede che i cittadini si bevano tranquillamente teorie bislacche quali questa ultima circa le responsabilità della creazione degli “esodati”.

Il ministro sappia che non viviamo più ai tempi del feudalesimo e che se il Re è nudo, si dirà che è nudo e se racconta cose che non hanno fondamento e sono in contrasto con i fatti sotto gli occhi di tutti le verrà puntualmente contestato; fino a quando anche quei residui di ciò che una volta erano i partiti, con princìpi da sostenere si convinceranno a chiederne, anzi pretenderne, le dimissioni.

Auspicabilmente per sostituirla poi con qualcuno che si renda conto della sensibilità sociale delle materie che tratta, che nelle risposte si attenga al tema delle domande, che non consideri i suoi cittadini come fannulloni in cerca di pasti gratis, che dialoghi con le parti sociali da un piano di parità intellettuale e non pensando che “concordare” significa che gli altri si appiattiscono sulle sue idee e che si assuma la responsabilità, tutta la responsabilità, di quanto di buono o di cattivo nasce dalle sue azioni.

M. Carugi - 15/04/2012

il Fatto Quotidiano

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Esodati, i primi numeri veri

Sono 330mila gli esodati fino al 2015.
I 65mila annunciati da Fornero sono solo quelli a scadenza 2012.
Nel 2013 ce ne saranno altri 100mila, 90 mila nel 2014 e 70mila nel 2015...
 Dati non ufficiali INPS

Rete28Aprile - 16/04/2012
(FIOM)