Intervista all'ex segretario generale della Cgil che 10 anni fa era  riuscito a sventare l'assalto berlusconiano alla prima delle tutele per  ogni lavoratore: "Un accordo sui diritti va sottoposto al voto". 
Il «confronto» in atto tra le parti sociali  sta maturando un risultato pericoloso. A cominciare dall'art. 18. Parla  Sergio Cofferati, il segretario generale della Cgil che 10 anni fa era  riuscito a sventare l'assalto berlusconiano alla prima delle tutele per  ogni lavoratore. 
Come vedi questa trattativa sulla riforma del mercato del lavoro? 
Mi pare che sia stata caricata di significati  politici impropri, come quelli che riguardano la vita futura del  governo e che sia anche avvolta ancora da un po' di nebbia. Nel corso  degli ultimi giorni siamo passati da momenti di ottimismo ad  arretramenti pesanti nell'umore dei negoziatori; ora è tornato  l'ottimismo. Ovviamente un accordo avrebbe senso, ma deve rispettare i  diritti fondamentali delle persone e rafforzare i sistemi di protezione.  Sono le due condizioni perché abbia senso: non so se sono a portata di  mano dei negoziatori. C'è un'anomalia di partenza: oggi la priorità non è  la riforma del mercato del lavoro, ma la mancanza di lavoro; e di  conseguenza la crescita. Discutere a lungo su come organizzare una cosa  che non c'è è perlomeno singolare.  
Questo riguarda tutta Europa... 
Politiche di crescita non ci sono in Europa  né in Italia. C'è questa idea - sbagliata - che basti assicurare  stabilità e controllare il debito per avere effetti positivi. Sono due  elementi importanti, ma da soli non risolvono nulla. E non durano nel  tempo, se non sono figli di una crescita economica. Se sono l'effetto di  azioni di contemento molto dure - come quelle messe in atto in molti  paesi europei - il rischio evidente è che non solo non ci sia un approdo  duraturo per quanto concerne la stabilità, ma che ci siano fortissime  tensioni sociali a causa del contenimento senza crescita. L'aumento  della disoccupazione e della povertà sono purtroppo dati comuni in  Europa e in Italia; e sono segnali robustissimi, che dovrebbero far  riflettere di più non solo le istituzioni europee, ma anche i governi  nazionali. 
Hai visto le proposte di riforma degli ammortizzatori sociali? 
Una soluzione che riduca gli effetti delle  protezioni perché ne contrae la durata e ne abbassa il valore sarebbe  una soluzione non solo sbagliata perché punitiva, ma anche - ancora una  volta - negativa sul piano della crescita possibile. Noi abbiamo già  avuto un effetto depressivo, che stiamo misurando adesso, con la manovra  iniziale del governo; soprattutto per la parte riguardante la riduzione  del valore delle pensioni. Se a questo si dovesse aggiungere un effetto  ulteriormente depressivo, perché riduce la capacità di spesa delle  famiglie, invece di uscire dal vicolo nel quale siamo e rovesciare una  tendenza, questa si accentuerebbe. Con conseguenze sociali difficili da  prevedere. 
Le misure presentate come «riduzione della precarietà» sono efficaci? 
Noi abbiamo bisogno di una riduzione forte  delle tipologie contrattuali, non della manutenzione di ogni singola  tipologia. Siamo il paese che ha il numero maggiore di contratti possibile - 46 - dunque lo sfoltimento necessario e possibile è molto consistente. E di questo non c'è traccia.
E  per quanto riguarda l'art. 18? 
L'ipotesi che prospetta il governo  svuoterebbe l'art. 18 così com'è arrivato fino a noi. Introdurre la  divisione, già in partenza, tra la discriminazione e la ragione  economica ha una ricaduta negativa. Non ho mai conosciuto un  imprenditore che abbia licenziato qualcuno dicendo che lo allontava per  una ragione politica o sindacale. Se c'è un'altra forma per argomentare  il licenziamento, e questa è addirittura prevista dalla legge, è chiaro  che tutti utilizzeranno quell'argomento. Credo poi che si sbagliato -  anche sul piano dei valori - introdurre la possibilità di un  risarcimento a fronte di una mancanza di giustificazione da parte  dell'impresa.  
Ma è possibile fare sindacato senza che i  singoli lavoratori abbiano una relativa autonomia e libertà di giudizio  rispetto alle pretese dell'azienda?  
Calerebbe nel tempo, oggettivamente,  l'autonomia del sindacato. Per autonomia intendo la capacità di  rappresentare un punto di vista diverso da quello delle imprese. Il  rischio di una china è evidente. Per questo la trattativa è molto  delicata; per tutte le implicazioni che ha anche sul futuro della  forma-sindacato e delle funzioni del sindacato. 
Anche delle modalità di conflitto?  
Certo, meno autonomia hai nel rappresentare i  bisogni e punti di vista delle persone, più difficile diventa  l'attività contrattuale.
Da ex segretario, avresti un consiglio da dare alla Cgil?
No,  per carità... Sono loro a sapere com'è la trattativa. Spero solo che,  se ci sarà un accordo, questo venga anche accompagnato da un giudizio  dei lavoratori. In un accordo su queste materie, quando ci sono diritti  in discussione, si impone quel giudizio.
È la fine del «modello europeo»? 
C'è una tendenza a mettere in  discussione il valore del modello sociale europeo. Secondo me, invece,  alla luce proprio alla luce dei mutamenti più rilevanti nella società,  ha ancora un ragion d'essere. Siamo al paradosso che negli USA Obama  pensa a forme di welfare, per proteggere i suoi cittadi, mentre l'Europa  mette in discussione i fondamenti del suo welfare. Servirebbe un grammo  di saggezza, non molta.
F. Piccioni - 16/03/2012
il Manifesto
 
 
 
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