Con la “riforma del mercato del lavoro” si chiude la pagina gloriosa del movimento operaio del '900.
Nulla di quello che era stato conquistato resta in piedi.
In meno di due anni l'offensiva padronale e liberista ha raggiunto obiettivi che sembravano irraggiungibili, se non dopo altri decenni di logoramento delle controparti.
Era scritto nel “modello Pomigliano”, dove per la prima volta il primato dell'impresa sul lavoro veniva esposto e strutturato senza più alcuna mediazione. Chi ha continuato a guardare all'indietro - sul piano storico e strategico - magari conducendo un'onesta battaglia in difesa dei “diritti”, è oggi completamente fuorigioco. Parliamo della Fiom, il più radicato e consistente dei soggetti conflittuali di questi anni, contro cui è lecito attendersi a breve un'operazione camussiana tesa al “commissariamento”. L'esclusione della minoranza dalla discussione in Cgil su “come giudicare” la riforma è più di un segnale: una dichiarazione di guerra senza quartiere, in cui non verranno fatti prigionieri.
Il lavoro non deve avere più diritti né rappresentanza.
Questo ci dice l'”accordo” raggiunto al tavolo tra il ministro Fornero e le “parti sociali”, che chiude un'epoca e cancella tre sindacati confederali cambiandone per sempre funzione e ruolo. Per come è strutturata la prassi produttiva in Italia, lo svuotamento dell'articolo 18 – come riconosce anche Sergio Cofferati in un'intervista a il manifesto (“meno autonomia hai nel rappresentare i bisogni e punti di vista delle persone, più difficile diventa l'attività contrattuale”) - distrugge la possibilità del singolo lavoratore di metter bocca su quanto avviene sul posto di lavoro. L'unica attività “sindacale” possibile diventa perciò quella di “servizio d'assistenza”, anello di congiunzione tra le disposizioni dell'ufficio del personale e i minuti bisogni individuali (turni, straordinari, ferie, fisco, ecc).
Non sorprende che questo capitolo sia stato il meno “doloroso” nella cena tra Monti e i tre segretari di partito che lo sostengono: l'adesione ai principi del mercato liberista – o più brutalmente agli interessi dei grandi gruppi multinazionali, banche in prima fila - è tale che certe istanze semplicemente non vengono più considerate, nemmeno strumentalmente, dal punto di vista elettorale futuro. Ai berlusconiani interessava soltanto il completamento del “salvacondotto” già concesso al Cavaliere, con una revisione del reato di concussione che gli permettere di sfangare anche il “caso Ruby”; e di tamponare l'adeguamento “europeo” delle norme contro la corruzione. Al Pd, invece, interessava solo di non essere estromesso defintivamente dalla Rai. A questo è ridotta la “visione strategica” dei più grandi partiti.
Non deve dunque sfuggire la forza costrittiva della “cornice europea”, che detta trasformazioni e riposizionamenti con la brutale evidenza di una “mancanza di alternative”. Bce, Ue e Fmi pilotano le mosse del governo, è vero. Ma sono enormemente facilitati nel compito dal nanismo degli interessi particolari attorno a cui sono aggregati quei tumori impropriamente chiamati “partiti” presenti in Parlamento.
È illuminante come il Corsera sintetizzi il punto: “Le esigenze europee dettano ai tre leader un percorso obbligato”. Europa, diktat, direzione, obbedienza.
Si ammette qui apertamente che, nell'ordine nuovo europeo, il centro di comando è spostato altrove. E ai “leader” politici nazionali è riservato lo spazio e la funzione di un Quisling, un Karzaj, un Jalil: amministratori locali conto terzi.
Come se ne esce?
Non è tempo di parole grosse sparate con leggerezza.
Va reso merito alla Fiom di avere imposto, sui media mainstream, il discorso sulla necessità di un “nuovo modello di sviluppo”, che fin qui era stato patrimonio solo di soggetti politici e sindacali (vedi l'Usb) accuratamente emarginati dal circuito mediatico dominante. Ma questo è un discorso radicale, che rovescia giustamente l'ordine delle priorità imposte come senso comune. È un discorso che richiede l'elaborazione di una prospettiva di cambiamento radicale, l'articolazione di un programma di rivendicazioni sociali tale da sollevare, strutturare e orientare momento per momento un movimento politico di massa di lunga durata. Non deve e non può restare una suggestione con cui valorizzare una prassi sindacale – per quanto buona – condannata al confinamento o all'asfissia sul piano strategico.
Il movimento No Debito è solo un primo passo su questa strada. Guai a montarsi la testa e a sopravvalutarne l'influenza, ma è un passo nella direzione giusta.
Non dubitiamo che, in questo contesto sociale e politico, troveremo molti compagni di strada disposti a lavorare.
Un primo appuntamento è la manifestazione nazionale del 31 marzo a Milano. Ma troveremo anche l'attenzione malevola del potere, come si è visto davanti al Cipe e nei tentativi di sgombero delle occupazioni di case successivi.
Dante Barontini - 16/03/2012
contropiano
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