giovedì 30 maggio 2013

L'operazione è tecnicamente riuscita, ma il paziente...

Nello stesso giorno in cui il palazzo festeggia l'annuncio del ritiro da parte della Commissione Europea della procedura di infrazione per eccesso di deficit, l'OCSE rivede in peggio le previsioni sulla disoccupazione ufficiale. 
Che continuerà a crescere per tutto quest'anno e per quello prossimo, fino a superare il 12%,un livello da anni trenta del secolo scorso.Se davvero la questione sociale fosse al centro delle preoccupazioni, il secondo dato avrebbe la precedenza sul primo. Ma naturalmente non è così.(...)

Con le politiche di austerità la classe dirigente del paese ha scelto consapevolmente di pagare le riduzione dello spread finanziario con la più che proporzionale crescita dello spread sociale, il resto sono solo lacrime di coccodrillo e ipocrisia elettorale.

Il Presidente della Corte dei Conti ha calcolato in 230 miliardi di euro il mancato prodotto dovuto alle politiche di austerità. Se nel 2014 sarà possibile davvero, come sostiene il governo, recuperare 10 miliardi per investimenti, sarà un ventitreesimo di ciò che si è perso. 

La crisi e la recessione, con i loro costi sociali sempre più alti, continueranno non  malgrado, ma proprio a causa di quella scelta prioritaria di riduzione del deficit per cui oggi Monti e Letta sono premiati in Europa. 

Come si dice nei più falsi comunicati medici, l'operazione è tecnicamente riuscita, ma il paziente....

Immagino a questo punto la solita obiezione scandalizzata: ma la riduzione del debito pubblico è una priorità assoluta, chi la rifiuta è nemico della buona economia e delle nuove generazioni, a cui quelle vecchie spendaccione lasciano da pagare i conti delle loro dissipatezze.

Per mostrare il carattere assolutamente ideologico e in malafede di questa affermazione basterebbe un dato di fatto. Cioè l'aumento dell'ammontare del debito pubblico. 

Da quando Berlusconi, Monti e ora Letta hanno adottato l'austerità, lo stock del debito è aumentato di quasi 200 miliardi. Quindi le politiche del rigore lasciano alle nuove generazioni più debito da pagare di quelle della "spesa facile".

Se però consideriamo troppo volgare misurarci con la brutalità di questi dati di fatto, allora andiamo alla idea di fondo.

Cosa lasciano le generazioni precedenti a quelle future? Quello che hanno ereditato dal passato, dal Colosseo alle strade agli ospedali alle scuole, e quello che hanno speso per mantenere e migliorare i beni ricevuti. Il debito non è dunque male in sé,  lo diventa   in base a quello che finanzia.

Se si spende per migliorare la vita, l'ambiente,  la cultura, si lascia un debito che le generazioni  future non potranno che positivamente condividere. 

Se il debito serve a pagare i profitti delle banche e della finanza, la corruzione, gli F35 e la Tav in Vallesusa, allora è giusto che sia messo in discussione. 

Il paradosso è che le politiche di taglio del debito nel nome delle nuove generazioni lasciano sostanzialmente inalterate le spese cattive, e massacrano quelle buone. Questa è la sostanza della austerità, che altro non è che il tentativo di continuare le politiche economiche liberiste in crisi, facendone pagare tutti i costi non genericamente a questa o a quella generazione, ma a tutte le persone più povere di tutte le generazioni e a ogni età del mondo del lavoro.

Perché da noi non ci si divide aspramente su questo? Perché la politica ufficiale si scontra spesso sul nulla e mai  sul debito, sull'austerità e sui patti europei che la impongono?

Il conformismo delle classi dirigenti e l'assenza di uno scontro tra alternative reali, che ha come primo effetto l'astensionismo di massa, non è però solo colpa della casta politica o sindacale.

Anche gli intellettuali e il mondo della informazione hanno la loro quota di responsabilità. Negli Stati Uniti il premio Nobel Paul Krugman è arrivato agli insulti con i teorici liberisti della austerità  Rogoff e Rheinart. In Italia gli esperti  economici ufficiali di destra e sinistra quando vanno in tv si danno sempre ragione gli uni con gli altri. E infatti è stato ancora una volta l'americano Krugman ad attaccare Alberto Alesina e la Bocconi per i danni che le loro teorie economiche stanno combinando in Italia e  in Europa. In Italia silenzio.

È di questo che muore il paese, di cure sbagliate propalate e accettate da gran parte della classe dirigente politica e intellettuale per malafede, conformismo, opportunismo. 

Da noi più che mai la crisi economica è crisi intellettuale e morale.


G.Cremaschi - 29/05/2013
Rete 28 Aprile 

lunedì 27 maggio 2013

Dalla Fiom via libera al patto sociale

Non sappiamo come si concluderà la cosiddetta trattativa su rappresentanza e democrazia avviata semiclandestinamente tra i vertici di Cgil Cisl Uil e Confindustria. Trattativa che pareva fino a pochi giorni fa  in dirittura d'arrivo ed oggi e' nuovamente scomparsa nel mellifluo pantano della difficile composizione dei diversi e sostanziosi interessi padronali,politici e sindacali in gioco. Non conosciamo ovviamente i dettagli dell'accordo che verrà, ne' il livello di asprezza del sistema sanzionatorio che accompagnerà il nuovo modello di relazioni. Cosi come non sappiamo quale giudizio particolareggiato esprimerà il comitato centrale della fiom sull'accordo stesso. 
 
Quello che sappiamo con certezza è (...) che si prefigura un sistema corporativo, liberticida e autoritario in cui il voto dei lavoratori diventa, non già la conquista del diritto democratico a decidere sui contratti che li riguardano, ma esattamente  lo strumento per accompagnare la contrattazione di ricatto, di restituzione e per impedire infine l'esercizio dell'opposizione sindacale. Così come sappiamo purtroppo, che la maggioranza del gruppo dirigente Fiom ha dato via libera proprio a quel patto sociale. Lo ha fatto in maniera esplicita, senza tentennamenti ne' infingimenti. 
 
ll massimo organismo Fiom riunito giovedì 23 maggio era infatti chiamato a esprimere un giudizio compiuto  sui contenuti della trattativa a livello confederale. La seduta cadeva dopo gli esecutivi unitari del 30 aprile scorso che hanno licenziato l'intesa Cgil Cisl Uil su rappresentanza e democrazia che è oggi oggetto della trattativa con Confindustria.  In relazione Landini ha presentato l'accordo interno a  Cgil Cisl Uil come una sostanziale affermazione delle battaglie della Fiom per il diritto democratico dei lavoratori di decidere sui contratti che li riguardano. Un giudizio che non condividiamo ed anzi riteniamo reticente rispetto alla vera natura del patto che si profila. 
 
Per questa ragione abbiamo provato a ragionare su un solo punto, il tema dell'esigibilità degli accordi. Proponendo di riconfermare quella che pareva un'ovvietà: la contrarietà Fiom al modello Marchionne che esclude i sindacati non firmatari cancellandone la rappresentanza interna e che per questa ragione impedisce il diritto dei lavoratori ad opporsi ad accordi capestro. Il modello, per capirci, che ancora oggi tiene la Fiom e i suoi delegati fuori dai cancelli e senza agibilità. 
Eppure quella che doveva essere un'ovvietà, è stata considerata addirittura alternativa al giudizio positivo sull'intesa Cgil Cisl Uil espresso nell'ordine del giorno finale della segreteria nazionale e posta in votazione contrapposta. L'ennesimo voto di fiducia al segretario che impedisce, ormai da anni, la libera discussione del Comitato Centrale. 
 
Una scelta grave che conferma la linea del progressivo rientro, dopo aver abbandonato ogni volontà conflittuale, negli angusti spazi del sindacalismo complice, ne più ne meno di quello che da tempo fanno le altre categorie della Cgil, della Cisl e della Uil. Con la sostanziale differenza che chi pagherà il prezzo più alto per questo rientro sono esattamente i delegati e le delegate Fiom che in questi anni hanno lottato, resistito e creduto nel loro sindacato. 
 
Non abbiamo detto no a Marchionne perché mancava un posto a tavola, ma esattamente perché volevamo rovesciare quel tavolo imbandito a spese dei lavoratori. 
La nostra battaglia riparte da qui.
 
 
Sergio Bellavita
portavoce Rete 28Aprile Fiom
http://www.rete28aprile.it - 24/05/2013

lunedì 20 maggio 2013

cose che non vanno

Di ritorno da Roma


Cari compagni della FIOM,
tornati a casa dopo la tour di 24 ore di ieri, anche voi vi porrete sicuramente la domanda su come è andata,(...)

farete anche voi nelle strutture direttive del sindacato i vostri bilanci. Io per conto mio ho fatto qualche pensata che vorrei trasmettervi. Riflessioni che non possono essere che parziali in quanto mi posso solamente riferire a quanto ho visto e sentito personalmente. Coinvolgo nella distribuzione di questo testo (c/c) compagni di lotta sindacale e politica con i quali sono in discussione.
Partirete sicuramente anche voi dalla questione partecipazione. Ho fatto il viaggio con il pulman da Sesto, e vi devo dire che sono rimasto spaventato. Il pulman di Sesto non era pieno neanche a metà. Se negli altri due pulman da Milano è stato simile, siamo stato neanche in cento a venire a Roma. Dei quali tanti non-metalmeccanici. Che da un lato è un buon segno, perché la FIOM coinvolge, però rimane la domanda: dove erano i metalmeccanici milanesi quel giorno? Sul pulman di Sesto i delegati, quelli che conosco, erano praticamente assenti. A Roma non ho visto neanche un segno delle nostre fabbriche in lotta: la Marcegaglia per esempio che proprio in questi giorni annuncia esuberi in tutta Italia, dove era? La Nokia Siemens di Cassina? Eccetera. Parlando con uno di voi mi avete parlato di “difficoltà” riscontrate durante la assemblee. Anch’io credo, un problema c’è. Viviamo in un periodo di attacchi del capitalismo alle condizioni di lavoro e di vita mai visti, e per cui il bisogno oggettivo di sindacato è molto forte. Per quale motivo gli operai e i lavoratori delle nostra fabbriche si assentono dall’iniziativa sindacale? Quando il viaggio è pure gratis. Cosa dicono i delegati? Quali sono state le voci durante gli attivi? Cosa dicono i lavoratori delle aziende? Cosa si aspettano dal sindacato in questo periodo? Nell’analisi delle risposte a queste domande si potrebbe trovare forse qualcosa sulle cause delle difficoltà.
Seconda la mia impressione il corteo era bello lungo e pieno, ben partecipato. Non ho avuto però l’impressione di un corteo incazzuto. I fischietti distribuiti all’arrivo a Roma non li ho praticamente sentiti. Sembrava piuttosto una tranquilla passeggiata romana. E la piazza? Mi sono fermato per sentire tutti interventi. Quando ha iniziato parlare il segretario Landini me ne sono andato dopo neanche cinque minuti. Niente di nuovo, già tutto sentito. E credo che non solamente io mi trovavo in questo stato d’animo, visto che la piazza si stava lentamente svuotando per rimanere in non più di cinquemila. Mi posso sbagliare. In ogni caso credo che questo sia un altro problema, se non lo stesso di sopra. In decine di migliaia veniamo da tutta Italia nella capitale per manifestare … che cosa? In ogni caso, al momento clou della giornata, quando inizia il comizio che dovrebbe riassumere lo stato d’animo di tutti quelli che sono venuti e quando si dovrebbero ascoltare idee strategiche del sindacato su come difendersi, su come lottare con successo, i metalmeccanici se ne vanno, me compreso. Sicuramente anche voi avete fatto queste osservazioni, e mi interesserebbe conoscere le vostre conclusioni.
Tornato a casa mi sono fatto la banale domanda: ma perché sono andato a Roma? Riformulo: che cosa abbiamo voluto raggiungere con la manifestazione? “Non possiamo più aspettare” è stato il capello di tutta la iniziativa. Un motto che in sé è vuoto e già si gridava anni fa. Ammesso che sia adatto alla situazione di oggi, sorge la domanda: cosa vogliamo che venga fatto? Vorrei fare un passo indietro: Come stiamo? Quali sono i nostri problemi? Quello che elenco lo sapete anche voi. La nostra realtà si è trasformata in una macelleria di lavoro e sociale. Le fabbriche chiudono una dopo l’altra, la nostra Sesto purtroppo ne e bruttissimo esempio. I ruderi della ex-FALK, sempre lì come uno scheletro vivente, ci ne ricordano tutti i giorni. Nuove non ne aprono. Il sistema di produzione industriale di Italia viene fatto a pezzi. Con le pesantissime conseguenze sul tutto l’apparato produttivo della società in cui viviamo. E chi rimane dentro è costretto di lavorare di più per lo stesso salario (vedi ultimi rinnovi CCNL di alcune categorie) con sempre meno diritti. La precarietà di lavoro e di vita è diventata la norma. Con il sindacato che lascia fare, alcuni scioperini dimostrativi a parte. Viviamo in un mondo che, se vogliamo ribellarci con successo, richiederebbe una denuncia pesante, ma molto pesante. Tutta questa denuncia alla crisi del capitalismo e agli effetti della crisi sui lavoratori non c’è stata in Piazza San Giovanni. La vita dei lavoratori, della classi popolari non è stata nel centro nelle cose che sono state dette dai microfoni in piazza. A volte avevo la sensazione che il nostro problema principale fosse la costituzione, da salvare, da modificare, sia quello che sia. I dati che ciclicamente vengono pubblicati dall’ISTAT su PIL, disoccupazione, disoccupazione giovanile, caduta del reddito, da un certo punto di vista soddisfano più questa bisogno di denuncia che gli interventi sentiti ieri, salvo qualche eccezione. Denuncia non vuol dire che abbiamo qualche problema. La denuncia che il sindacato dovrebbe fare è lo smascherare di sfruttamento, precarietà e povertà e andare con questo fino alle ossa del sistema. Questa mancanza mi sembra caratteristica negativa principale di tutta l’iniziativa. Si rimane in superficie, si chiede una politica un po’ diversa. Senza sviluppare questa denuncia, senza porsi la domanda da dove viene la crisi e quali sono le sua cause, senza affrontare seriamente questa domanda, quale valore può avere quando il segretario l’ennesima volta apostrofa “ci vuole un nuovo modello di sistema politico-economico”. Sono domande e argomenti difficili, ma vanno affrontati. Se no, perché i lavoratori dovrebbero assumersi il sacrificio del tour di Roma? Un mio amico esodato è venuto a Roma con il cartello “Agire insieme contro la disoccupazione”. Credete che adesso sa come agire, collettivamente intendo?
In questi mesi nel sindacato sono successe della cose di cui voglio enunciare solamente alcune. Sappiamo che proprio ieri era previsto la conclusione di un nuovo patto su rappresentanza e democrazia tra sindacati e Confindustria. Sapete anche voi che la clausola dell’”esigibilità” prevede che chi non aderisce al CCNL non ha più diritto di protestare. Certo, chi firma, non ha neanche motivo. Ragionando fino in fondo, questo nuovo patto elimina il senso del sindacato. E’ anti-democrazia sindacale che grida vendetta. Ne avete sentito qualcosa dal palco? Davanti a questa situazione, quale valore, quale credibilità può avere la richiesta della legge per la rappresentanza? Si vuole trasformare il patto in legge? Invece abbiamo sentito N. Nicolosi per fare propaganda indiretta a questo scempio sindacale. Altro episodio che voglio nominare qui è l’estromissione del compagno Sergio Bellavita del direttivo del comitato centrale della FIOM. Bruttissimo esempio di pre-potenza sindacale. Annientare il pensiero dell’altro perché da fastidio. Da quando questo è pratica di democrazia sindacale? In ogni caso, non riesco a non collegare eventi di cui sopra con i problemi riscontrati per mobilitare alle manifestazione nazionale della FIOM.
Noto anche una difficoltà generale di fare discussione con voi compagni funzionari su argomenti critici. Quello che riscontro sono la difesa del sindacato e l’autocelebrazione. Sono venuto a Roma con il cartellone “Nazionalizzare le aziende in crisi”. Nazionalizzare perché la risposta che conosce il capitale privato sono licenziamenti, esternalizzazioni, riduzione dello stipendio. La FIAT è esempio scalzante, la FIAT che come tanti altri si è tirata su con i nostri soldi. Nazionalizzare per salvare i posti di lavoro e con esso il lavoro. Nazionalizzare per estrarre un bene fondamentale dal regno del capitale finanziario. Ma non per trasformarlo in capitale pubblico, per cui “La fabbriche sotto controllo operaio”, cioè di chi fa la produzione. Discorsi complessi, però indispensabili. Purtroppo, l’unica reazione che mi è giunta da parte vostra è stato un laconico deriso. Discussione chiusa. Non così con la piazza.
Sul viaggio di ritorno nel pulman FIOM è stato proiettato un film poliziesco, sicuramente scelto con l’idea di offrire un po’ di svago. Però: un film poliziesco e di inseguimento, un’americanata pura. Devo dirvi che mi sentivo peggio che sui viaggi di ritorno in pulman con lo ski-club. E’ questa la cultura che il sappiamo offrire alla gente? La non-cultura? Se è così, poveri noi. Ma non deve essere così.

Lutz, Milano 19 maggio ‘13
Rete28aprile


* * * * * * *

Un'inutile sfilata?


La Fiom di Landini sfila a Roma: molti slogan poche strategie.
Si è concluso nel primo pomeriggio di sabato quello che era stato preannunciato come un corteo con obiettivi ambiziosi: "diritto al lavoro, all'istruzione, alla salute, al reddito, alla cittadinanza, per la giustizia sociale e la democrazia".
"La priorità è il lavoro, non l'Imu" secondo Maurizio Landini. Per il segretario generale della Fiom i primi provvedimenti presi da Palazzo Chigi "non ci fanno uscire dall'emergenza, non ci fanno guardare al futuro". "Occorrono la riforma della cassa integrazione e il reddito di cittadinanza", ha quindi aggiunto il leader sindacale. Ottimi slogan certo. Ma con gli slogan non si otterranno posti di lavoro; per restituire centralità alle rivendicazioni delle classi lavoratrici, la Fiom dovrebbe attuare una strategia in netta discontinuità rispetto a quanto fatto in questi anni. Ma restando la strada maestra quella delle gite nella Capitale assolata, con le celebrity a fare discorsi edificanti dal palco, la richiesta di lavoro, magari decentemente retribuito, non troverà per molto tempo ancora orecchie ricettive. A maggior ragione se l'interlocutore è l'esecutivo di larghe intese Napolitano-Letta-Berlusconi: è come chiedere al lupo cattivo di non mangiare cappuccetto rosso.
La preoccupazione del Segretario Generale era quella di polemizzare con il Pd perché non presente ufficialmente in piazza: "Non capisco come si può essere al governo con Berlusconi ed avere paura di essere qui". Come se il Pd fosse ancora da considerare un interlocutore affidabile per il mondo del lavoro! Come se prima delle "larghe intese" con Berlusconi, non avesse appoggiato il Governo "tecnico" di Mario Monti, sempre in combutta con il Pdl. Come se ci fossero dubbi su quali siano gli interessi (di classe) che rappresenta il Pd.
La sfilata a cui abbiamo assistito era dunque niente più che una manifestazione di rito, a cui hanno preso parte (numeri reali) 25-30 mila persone. Significativo che una delle componenti più importanti fosse costituita dai pensionati dello Spi-Cgil, mentre il clima generale ricordava più una gita del dopo lavoro che un corteo combattivo in grado di rappresentare la rabbia e la sofferenza diffusa.
Viviamo in tempi dove questo genere di riti hanno sempre minor presa sociale. E si è visto fin troppo bene. Basti ricordare che il 16 ottobre 2010 la Fiom della lotta contro Marchionne, nella stessa piazza San Giovanni, aveva portato circa 500.000 manifestanti. Meno di tre anni hanno profondamente segnato la storia dell'organizzazione dei metalmeccanici, che si è tramutata nell'ombra del più antico e glorioso sindacato italiano. Piegato e svilito da una linea politica rinunciataria, passiva, perdente. Una linea che ha sostituito il conflitto sociale, unica strada, seppur difficile, per difendere veramente i diritti dei lavoratori, con le battaglie dei ricorsi in tribunale.
Addirittura Landini aveva preannunciato che l'iniziativa di ieri non sarebbe stata contro il governo. E contro chi allora? Contro nessuno? E per quale ragione i lavoratori dovrebbero partecipare ad un corteo contro nessuno? Come se nessuno fosse responsabile del massacro sociale, dell'austerità e dell'annientamento dei diritti. E se Landini dal palco ha precisato che "noi siamo qui perché non rinunciamo ad un'idea di fondo, quella di cambiare questo paese", ci sfugge come possa credere di cambiare questo paese temendo di chiamare per nome e per cognome gli avversari dei lavoratori che dovrebbe rappresentare. Senza spendere nemmeno una parola per denunciare l'abominevole matrimonio Cgil-Cisl-Uil con Confindustria, chiamato anche accordo sulla rappresentanza e democrazia, che riserva ai soli sindacati complici la possibilità di agire all'interno dell'ambito di lavoro. In pratica la generalizzazione del modello Marchionne.
Insomma l'impressione è che la Fiom di Landini non abbia più le risorse per offrire ai lavoratori una risposta all'altezza degli attacchi che subiscono quotidianamente.

A. Lami - 19/05/2013
http://megachip.globalist.it


sabato 18 maggio 2013

Fiorella e le altre: "Non lasciamo la speranza. Questa soddisfazione proprio non gliela diamo"


Lindsay è una ragazza americana di venti anni. Ha con se un drappo rosso della Fiom. La sua amica stringe un berretto con gli stessi simboli. Sono in un gruppetto di quattro capitato chissà come in mezzo al corteo della Fiom oggi a Roma. Hanno negli occhi una gioia incontenibile. E la vogliono raccontare. “Magnifico, molto interessante”, esclamano. “Si fanno sentire eh!”m dice Lindsay indicando il serpentone che intanto scende da Santa Maria Maggiore lungo via Merulana. “In America non è mai così forte la protesta”.
Silvia, operaia dell’Iribus, potrebbe essere la mamma di queste quattro fanciulle. Poco distante c’è una televisione che l’intervista. Silvia una figlia ce l’ha davvero. Studia all’università, ma dovrà lasciarla. “Non si vede una via d’uscita – racconta Silvia – Tra quattro/cinque mesi finisce la cassa integrazione e non sappiamo che fine faremo”. “Ci dovrebbero risarcire per i danni che ci hanno fatto. Noi vogliamo solo lavorare”. Urla quasi, Silvia. La giornalista non può far altro che lasciarla parlare senza interromperla. E’ un fiume di parole. “Veniamo a Roma. Li chiudiamo nel Parlamento fino a quando non escono con una soluzione giusta per tutti”.
Marianna è la portavoce degli esodati, anche loro in corteo oggi. A Roma ci rimarrebbe davvero se potesse, almeno fino a quando non riparano a questa grande ingiustizia che hanno commesso nei confronti di centinaia di migliaia di persone. “Ora si rimettono a contare di nuovo – dice – evidentemente non vogliono prendere atto della situazione. E meno male che il Pd ci aveva promesso attenzione. Ho versato quarant’anni di contributi ma se continua con questa storia andrò in pensione nel 2021”. Carla è una lavoratrice della Shelbox. Oggi fa la portavoce di un gruppone di lavoratori, circa una cinquantina, che è venuto a protestare contro la chiusura dell’azienda per fallimento. Costruiscono “case a moduli” e il motivo del fallimento proprio non si capisce. “La speranza è che qualcuno ci compri”.
Anche Nina fa l’operaia, a Mirafiori. Parla dal palco. La sua rabbia, quella della rappresentante sindacale che ne ha viste di cotte e di crude ed ha imparato a calibrare la sua analisi, non risparmia niente e nessuno. Butta lì una domanda come fosse una spadata: “Possibile che l’esigibilità degli accordi vale solo da una parte?”. Ce l’ha con Sergio Marchionne, ovviamente. Con i “nuovi reparti confino” travestiti da “classi di cassaintegrati, A-B-C”, con il silenzio della politica di fronte allo scempio dei diritti. “Siamo in tanti – dice – alla faccia di chi ci vuol male”.
Fiorella Mannoia, anche lei dal palco, fa un intervento molto accorato. Talmente accorato che per non lasciarsi fregare dall’emozione lo legge. Chiude dicendo. “Non voglio lasciare la speranza.
Non gliela do questa soddisfazione”.
 
fa. seba.  - 18/05/2013
http://www.controlacrisi.org

mercoledì 15 maggio 2013

Cremaschi: "sentenza Fiat-Fiom figlia della debolezza sindacale"

La sentenza del tribunale di Roma che, nel nome dell'accordo del 28 giugno 2011,dà torto alla FIOM sul contratto nazionale è sicuramente un brutto guaio per i diritti del lavoro.
Tuttavia essa conferma una volta di più la necessità di una legge che abbia come scopo la democrazia sindacale, intesa come diritto delle lavoratrici e dei lavoratori e non come garanzia per le organizzazioni.

La trattativa in corso sulla rappresentanza sindacale tra CGIL CISL UIL e Confindustria sta andando invece in tutt'altra direzione.

Lo scopo condiviso dalle "parti sociali" è infatti quello di far incontrare due esigenze. Quella delle imprese, che vogliono che l'accordo sia "esigibile", cioè che nessuno più contesti una volta che è firmato. Quella dei sindacati confederali, che vogliono essere presenti tutti al tavolo delle trattative, magari sulla base del peso effettivo delle proprie forze.

Esigibilità degli accordi e diritto alla rappresentanza ai tavoli sono le ragioni del patto, l'equilibrio probabilmente non è ancora stato trovato, ma alla fine si troverà. Ma cosa c è che non va?

Nel passato erano i lavoratori che rivendicavano la esigibilità degli accordi. Se si firmava un contratto la prima cosa che veniva detta nelle assemblee era: ma quanto dovremo ancora lottare per far applicare l'accordo?

Oggi sono i padroni che chiedono la garanzia che gli accordi siano applicati con rigore. La ragione è molto semplice. Gli accordi sindacali che ha in mente il mondo delle imprese sono tutti peggiorativi per il mondo del lavoro. Sono accordi che riducono i diritti, aumentano i carichi di lavoro e gli orari, tagliano i salari. Devono essere "esigibili" perché i lavoratori per primi sono interessati a non rispettarli. Gli accordi contrattuali che hanno in mente le imprese, e che in gran parte si fanno oggi, sono l'applicazione nei luoghi di lavoro delle politiche di austerità e rigore.

Per questo le imprese esigono un sistema contrattuale centralizzato e autoritario, ove una volta firmato l'accordo tutti coloro che vi sono sottoposti debbano solo obbedire. Per semplificare, il modello Marchionne.

Ma perché CGIL CISL UIL accettano di stare dentro questa gabbia, costruita proprio nel momento di maggiore debolezza di un mondo del lavoro ricattato dalla disoccupazione di massa? La risposta per la CGIL e la FIOM è che queste organizzazioni non reggono più gli accordi separati, non ce la fanno a contrastarli. Per CISL e UIL la risposta è che gli accordi separati non bastano per vivere.

Così la debolezza sindacale e il bisogno di legge e ordine di una Confindustria incapace di affrontare davvero la crisi economica, producono un accordo che è la negazione della democrazia sindacale.

Al tavolo di trattativa siederanno solo i sindacati che accettano preventivamente di obbedire alla esigibilità. Gli altri fuori.

Nei luoghi di lavoro potranno presentare liste per le rappresentanze aziendali solo i sindacati che preventivamente si impegnano a non contrastare gli accordi che non condividono.

Insomma i lavoratori non potranno scegliere liberamente chi li rappresenta, ma dovranno solo partecipare al sondaggio che misura il peso reciproco dei sindacati "esigibili". Sarà il tavolo a decidere chi rappresenta i lavoratori, e non questi ultimi scegliere chi li rappresenta al tavolo.

La politica di austerità diventa costituente anche per il sistema sindacale, essa diventa l'esigibilità della massima produttività del lavoro. E chi si oppone è fuori.

Non è accettabile che la politica delle larghe intese sindacali cancelli il diritto al dissenso e al conflitto. Per questo bisogna dire no all'accordo sulla rappresentanza e rivendicare una legge che realizzi il diritto costituzionale dei lavoratori alla democrazia sindacale.



G. Cremaschi - 14/05/2013
Rete28Aprile
fonte : http://www.contropiano.org

lunedì 13 maggio 2013

ACI Informatica : un'esperienza di lotta



Ultime notizie da una vertenza infinita e difficile, in cui i lavoratori hanno comunque scelto di giocare da protagonisti in prima persona e non da spettatori.
COMUNICATO 8 maggio 2013 - VERTENZA AUTORGANIZZATA ACI INFORMATICA

Il quadro:

·         Il 6/7/2012 il governo Monti vara il decreto legge 95 noto come spending review; all’interno di questo provvedimento è inserito l’articolo 4 con il quale si stabilisce che le società in house della Pubblica Amministrazione debbono essere cedute a privati entro il 30/6/2013 o chiuse entro il 31/12/2013: ACI Informatica è una società in house dell’ACI.

In risposta a questo provvedimento inizia da subito la mobilitazione di lavoratrici e lavoratori che avrà il suo momento di apice nel presidio permanente durato 6 giorni a Piazza delle 5 Lune, sotto la sede del Senato della Repubblica. Insieme alla mobilitazione le lavoratrici ed i lavoratori avviano una campagna di sensibilizzazione che investe varie altre società in house della Pubblica Amministrazione a Roma, in questo modo il presidio, tenuto vivo dalla costante presenza di centinaia di lavoratori di ACI Informatica, diventa momento di incontro con altre realtà di lavoratori tenute all’oscuro dalle Organizzazioni Sindacali di quanto stava accadendo.

La mobilitazione produce come primo risultato la modifica del provvedimento che perde “l’automatismo” di chiusura o privatizzazione e rinvia ai vari enti pubblici proprietari la decisione al riguardo. Rimane tuttavia il problema di uno strumento nelle mani delle Amministrazioni Pubbliche per colpire lavoratrici e lavoratori

A seguito della mobilitazione si costituisce un coordinamento di varie realtà in house della Pubblica Amministrazione che fondandosi sul metodo dell’autorganizzazione costruiscono varie mobilitazioni, tutt’ora in corso, di cui la manifestazione sotto il Ministero dell’Economia del 14/11/2012 rappresenta il momento più alto.

·         In questi ultimi anni il bilancio ACI ha chiuso più volte con pesanti perdite, da ultimo il bilancio 2012 segna una perdita di oltre 25 milioni di euro. Incalzati dal rischio di commissariamento i vertici dell’Ente decidono una serie di misure per riportare il bilancio in pareggio nel 2013. Fra queste misure va annoverato il taglio di circa 9 milioni di euro degli stanziamenti per le attività di ACI Informatica, che essendo società in house dell’ACI dipende per oltre il 90% dei propri ricavi dai servizi svolti per ACI. Il taglio è pesantissimo per ACI Informatica che già opera a prezzi significativamente inferiori a quelli di mercato. Le lavoratrici ed i lavoratori di ACI Informatica dimostreranno, attraverso puntuali dossier ancora in corso di pubblicazione, che le difficoltà del bilancio ACI non derivano da reali problemi di produzione ma dal combinato di tariffe ferme ai valori del 1994 e di una cattiva amministrazione che da una parte produce notevoli sperperi ed e dall’altra investe in “affari” disastrosi.

La cronaca

In questo contesto il 19/10/2012 l’azienda consegna alla RSU, ed invia alle OO.SS., la disdetta di tutti gli accordi integrativi aziendali in scadenza il 28/2/2013.

La storia degli accordi sindacali in ACI Informatica parte dal lontano 1976, accordi che contengono miglioramenti molto avanzati delle condizioni di vita e del lavoro. Per dare un’idea, la disdetta significherebbe per i lavoratori e le lavoratrici: la perdita di circa il 40% del salario annuale; l’allungamento da 36 a 40 ore settimanali dell’orario di lavoro; la cancellazione dell’inquadramento unico dei lavoratori; la riduzione dei giorni di ferie; la riduzione dei permessi retribuiti; la perdita di numerosi strumenti di welfare aziendale (navetta, mensa, rimborso parziale dell’abbonamento ai mezzi pubblici, rimborso parziale delle spese per l’asilo nido, ecc.); la perdita di numerosi strumenti per il sostegno alla maternità/paternità (integrazione salariale delle aspettative facoltative, permessi per l’inserimento dei figli a scuola, migliori condizioni per la fruizione delle assenze per malattia figlio, ecc.); la perdita di numerosi strumenti di tutela della salute (postazioni di lavoro, affollamento delle stanze, ecc.) e varie altre norme migliorative rispetto al CCNL.

A fronte di questo gravissimo attacco le lavoratrici ed i lavoratori decidono che non ci si può limitare ad una lotta difensiva e pertanto si avvia una fase di confronto e dibattito (intervallata da iniziative di lotta interne e mobilitazioni verso la proprietà ACI) per definire una piattaforma rivendicativa.

Tale fase si conclude con l’approvazione da parte dell’assemblea, il 20/11/2012, della piattaforma per il rinnovo del contratto integrativo aziendale.

La piattaforma viene presentata alla Direzione aziendale il 5/12/2012: la Direzione rifiuta di parlarne e continua a perseguire la strada della disdetta degli accordi. La risposta delle lavoratrici e dei lavoratori è immediata. Lo stesso giorno la Direzione, guidata dal Presidente De Vita (su cui torneremo), organizza una riunione con tutti i dirigenti ed i responsabili aziendali. Le lavoratrici ed i lavoratori fanno irruzione nella sala predisposta per la riunione distribuendo un volantino nel quale viene denunciato il ruolo di potere dello stesso De Vita (ottantaquattrenne “cresciuto” all’ombra della DC e presidente dell’unione petrolifera italiana, membro della giunta di Confindustria, uomo di comando all’ACI ecc.) ed impedendo fisicamente lo svolgimento della riunione.

E’ l’avvio di una fase durissima di scontro, con scioperi di reparto ad oltranza, cortei interni e per il quartiere, irruzioni nelle stanze di quei dirigenti che provano a sostituire i lavoratori in sciopero ecc.

L’articolazione delle mobilitazioni messe in campo merita un approfondimento.

È chiaro fin da subito che la vertenza sarà dura e di lunga durata, sia per la dura posizione aziendale sia perché  la disdetta produrrà i suoi effetti dal 1° marzo, cioè oltre quattro mesi dopo la comunicazione aziendale. Come affrontare una vertenza dai tempi così lunghi senza sfiancare i lavoratori? Si decide di intervenire su tre linee distinte.

Innanzi tutto viene indetto lo sciopero a tempo indeterminato delle lavorazioni straordinarie (sciopero degli straordinari, sciopero delle trasferte, sciopero della reperibilità).

In secondo luogo viene deciso di effettuare scioperi di singoli reparti a tempo indeterminato, finalizzati a bloccare specifiche linee produttive e che coinvolgono solo parte dei lavoratori. Il costo dello sciopero viene poi suddiviso fra tutti in modo da pesare il meno possibile su ogni singolo lavoratore. Cioè il massimo risultato con il minimo sforzo.

In terzo luogo vengono indette di volta in volta specifiche iniziative in azienda (corte, presidi, volantinaggi, assemblee informative, etc..).

L’articolato programma di mobilitazione è tenuto insieme dall’idea di fondo di rendere ingestibile l’azienda, attraverso iniziative di lotta proclamate a sorpresa (anche lo sciopero a tempo indeterminato viene indetto giorno per giorno), senza mai dare ai vertici aziendali la possibilità di sapere quello che sarebbe successo.

Il 18/12/2012 questa fase della vertenza si conclude con un accordo che sospende la disdetta degli accordi sindacali per il periodo necessario ad un confronto sulle problematiche economiche dell’azienda e sulla piattaforma rivendicativa presentata dalle lavoratrici e dai lavoratori.

Il 7 gennaio inizia questa nuova fase con un incontro nel quale la Direzione aziendale dichiara che, per far fronte alle difficoltà economiche, è necessario tagliare il costo del lavoro di 3 milioni di euro nel 2013 ed altrettanti nel 2014 (6 milioni di euro totali pari a oltre 9mila euro di salario in meno medio) e propone di realizzare tali tagli o con la cancellazione di alcuni istituti salariali derivanti dalla contrattazione aziendale o, in alternativa, dichiarando 67 esuberi e ricorrendo ai Contratti di Solidarietà. Inoltre chiede di rivedere alcuni istituti contrattuali in particolare: allungamento dell’orario di lavoro, cancellazione dell’inquadramento unico, eliminazione di alcune norme migliorative della legge 104.

La RSU per nome e per conto di lavoratrici e lavoratori risponde chiedendo di aprire il confronto anche sulla piattaforma integrativa, afferma di non accettare interventi peggiorativi sugli accordi sindacali in vigore e dichiara la volontà di presentare proposte di intervento sul bilancio di previsione 2013 dell’azienda alternative al taglio del costo del lavoro.

Se la fase di dicembre era stata caratterizzata dalle iniziative di lotta, nel periodo di gennaio e febbraio emerge la capacità di lavoratrici e lavoratori di conoscere perfettamente il processo produttivo e finanziario dell’azienda tanto da mettere la Direzione in un angolo (come si può evincere dai verbali degli incontri reperibili sul sito www.autorganizzati.org) incapace di rispondere alle proposte ed alle richieste presentate dalla RSU.

Questa incapacità porta la Direzione a cercare di forzare la vertenza con una serie di iniziative provocatorie: la dichiarazione di chiusura collettiva dell’azienda per 2 settimane ad agosto ed una a natale con conseguente obbligo di fruizione delle ferie senza riguardo per le necessità dei lavoratori, la dichiarazione che entro la fine di marzo dovevano essere chiuse le trattative (naturalmente accettando la richiesta aziendale di taglio del costo del lavoro per 3 milioni di euro nel 2013 ed altrettanti nel 2014 ed il resto degli interventi sugli istituti contrattuali) minacciando altrimenti di dare attuazione alla disdetta degli accordi sindacali.

Di fronte alle iniziative di lotta che iniziano a crescere e all’attenta conduzione del confronto da parte dei lavoratori, la Direzione si trova però in difficoltà e tenta di far saltare l’accordo del 18/12/2012.

Il primo tentativo è quello di spostare il confronto in sede di unione industriali con il fine di trovare OO.SS. territoriali compiacenti (l’invito è indirizzato a FIM/CISL e UILM/UIL addirittura non presenti in azienda e alla FIOM/CGIL) o quantomeno di dichiarare il mancato accordo e procedere alla disdetta.

Inizia così la fase conclusiva della vertenza.

A queste provocazioni si risponde ancora una volta coniugando la lotta con una gestione attenta sia della trattativa sindacale che delle relazioni istituzionali.

Iniziano ad essere messi in sciopero a tempo indeterminato gruppi di lavoratori che rivestono un ruolo chiave nella produzione, si da vita a cortei interni (per esempio per andare nelle stanze di tutti i dirigenti a consegnare una lettera in cui si invitano a non assumere iniziative contro i lavoratori), ci si mobilita in presidio davanti l’unione industriali per impedire porcherie (all’incontro si presenta un omuncolo della FIM/CISL che però è “caldamente” invitato ad andarsene cosa che fa rapidamente vista la mala parata).

Fallito il tentativo all’unione industriali l’azienda alza ulteriormente la posta sollecitando l’intervento del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. In risposta si ampia il fronte dei gruppi in sciopero a tempo indeterminato. Il 4 aprile si svolge il primo incontro al Ministero, ancora una volta la Direzione mantiene inalterate le sue richieste e cerca di far dichiarare dai funzionari ministeriali la chiusura delle trattative e la conseguente disdetta degli accordi sindacali; anche questa volta però la mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori (in oltre 300 sotto al ministero) unita ad una intelligente gestione del tavolo istituzionale vanificano il tentativo della Direzione: il ministero decide di riconvocare le parti e intanto si inaspriscono ulteriormente le iniziative di lotta.

Dopo altri 2 incontri al ministero la Direzione inizia a cedere ed il 19 aprile si apre una nuova fase di trattativa in azienda; contemporaneamente si iniziano a ridurre i gruppi in sciopero a tempo indeterminato.

Il 29 aprile sembra che si stia per giungere alla conclusione della vertenza quando improvvisamente la Direzione pone nuove condizioni al tavolo delle trattative, il 30 aprile le trattative sono rotte ed i lavoratori in assemblea decidono che dal 2 maggio avrebbero fatto fare un nuovo salto di qualità alle iniziative di lotta.

Il 2 maggio dalle 9 di mattina le lavoratrici ed i lavoratori occupano in assemblea permanente il cuore produttivo dell’azienda cacciando i dirigenti ed i pochi crumiri.

Inizia una giornata entusiasmante in cui si manifesta pienamente la forza dell’autorganizzazione: i delegati fanno la spola fra gli incontri con la Direzione e l’assemblea permanente per confrontarsi su tutti i passaggi della trattativa, i lavoratori mantengono l’occupazione e bloccano ogni attività produttiva ed i tentativi di crumiri e dirigenti di intervenire, verso le 17 l’azienda accetta le proposte della RSU, alle 18 viene interrotta l’assemblea permanente. Il giorno dopo 3 maggio si formalizza l’accordo che viene sottoposto al confronto ed al voto dell’assemblea lunedì 6 maggio.

Le lavoratrici ed i lavoratori approvano all’unanimità l’accordo: taglio del costo del lavoro ridotto al solo 2013 per 1,3 milioni di euro; conferma di tutti gli accordi sindacali presenti e passati; rinnovo della piattaforma integrativa aziendale con un aumento mensile di 80 euro al mese a partire dal 2015; pagamento di un una tantum complessiva di 200 mila euro; vari miglioramenti sul piano normativo e dell’informazione ai lavoratori; revoca delle chiusure collettive e dunque la fruizione delle ferie secondo le esigenze di ognuno. Inoltre, per evitare di trovarsi come in Telecom, dove vengono firmati i contratti di solidarietà e il management si spartisce gli utili, vengono previste limitazioni nelle elargizioni premiali per il periodo di taglio al salario dei lavoratori.

Il grande risultato di questa vertenza è stato reso possibile da un lungo lavoro di costruzione di autorganizzazione che in azienda si sviluppa da moltissimi anni, un lavoro che ha reso ogni lavoratrice ed ogni lavoratore consapevole della propria condizione, informato su tutto ciò che riguarda il lavoro, attento a mantenere la conoscenza ed il controllo del processo produttivo, determinato a non delegare nessuno a rappresentarlo, convinto che l’organizzazione autonoma dei propri bisogni sia l’unica strada percorribile per tutelare i propri interessi.

Diciamo questo perché in questa vicenda abbiamo potuto utilizzare un po’ tutti gli strumenti a disposizione delle lavoratrici e dei lavoratori: in primo luogo il confronto continuo fra lavoratrici e lavoratori in assemblee anche spontanee; la solidarietà che ha permesso di suddividere fra tutte le lavoratrici ed i lavoratori il costo degli scioperi a oltranza dei gruppi strategici; lo sciopero come strumento principe della lotta dei lavoratori; i cortei interni ed esterni; mobilitazioni improvvise; la lotta ai crumiri ed ai dirigenti; il presidio tutti i sabato e domenica per 5 mesi consecutivi per evitare che si facessero straordinari; le manifestazioni sotto ministeri, sedi padronali e sede dell’ACI.

Consapevoli che la nostra situazione è parte di un più generale attacco alle condizioni di vita abbiamo prodotto iniziative di comunicazione verso altri lavoratori e proletari (dall’assemblea sull’accordo sulla produttività di CISL-UIL-UGL-Confindustria, alla consegna di pacchi alimentari agli occupanti di case del Laurentino); studio attento ed approfondito di bilanci, norme e procedure utili sia a produrre dossier di controinformazione e denuncia che per gestire i tavoli di trattativa e le sedi istituzionali. Ed in tutto questo non sono neppure mancati i momenti ludici e di socialità fondamentali per l’unità di lavoratrici e lavoratori.
Insomma ci sentiamo di poter affermare con forza che con l’autorganizzazione si vince ed il risultato si radica nelle coscienze di ognuno!!

 

Lavoratrici e Lavoratori Autorganizzati Aci Informatica www.autorganizzati.org info@autorganizzati.org


fonte :
http://www.contropiano.org - 12/05/2013



mercoledì 8 maggio 2013

L’austerità è l’ideologia dei super-ricchi

L’influenza della dottrina dell’austerity non può essere compresa senza parlare anche di classi sociali e di diseguaglianza. Il programma dell’austerity rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare.
 
È raro che i dibattiti economici si concludano con un ko tecnico. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori dell’austerità si avvicina molto a un simile esito. Quanto meno a livello ideologico. 

La posizione pro-austerity è ormai implosa;
non solo le sue previsioni si sono dimostrate del tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia attendibilità.
Due grandi interrogativi, tuttavia, persistono. Il primo: come ha potuto diventare così influente la dottrina dell’austerity? E il secondo: cambierà la policy, adesso che le rivendicazioni fondamentali dei sostenitori dell’austerità sono diventate oggetto di battute nei programmi satirici della terza serata?
Riguardo alla prima domanda: l’affermazione dei fautori dell’austerità all’interno di cerchie influenti dovrebbe infastidire chiunque ami credere che la policy si debba basare sull’evidenza dei fatti, o essere da questi fortemente influenzata.
 

Dopotutto i due principali studi che forniscono all’austerity la sua presunta giustificazione intellettuale — quelli di Alberto Alesina e Silvia Ardagna sull’“austerità espansiva”, e di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla fatidica “soglia” del novanta percento del rapporto debito/Pil — sono state ferocemente criticati già all’indomani della loro pubblicazione.
Gli studi, inoltre, non hanno retto a un attento scrutinio. Verso la fine del 2010 il Fondo monetario internazionale aveva rivisto Alesina-Ardagna ribaltandone le conclusioni, mentre molti economisti hanno sollevato interrogativi fondamentali sulla tesi di Reinhart-Rogoff ben prima di venire a sapere del famoso errore nella formula di Excel. Intanto, gli eventi nel mondo reale — la stagnazione in Irlanda (l’originario modello dell’austerity) e il calo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che avrebbero dovuto trovarsi di fronte a una crisi fiscale imminente — hanno rapidamente svuotato di significato le previsioni del fronte pro-austerity.
 
E tuttavia, la teoria a favore dell’austerità ha mantenuto, e persino rafforzato, la propria presa sull’élite. Perché? La risposta è sicuramente da ricercare in parte nel diffuso desiderio di voler interpretare l’economia alla stregua di un racconto morale, trasformandola in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze.

Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l’inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto.
Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza. Né le tesi economiche né la constatazione che oggi a soffrire non sono certo gli stessi che negli anni della bolla hanno “peccato” bastano a convincerli che le cose stanno diversamente.
 
Ma non si tratta di opporre semplicemente la logica all’emotività. L’influenza della dottrina dell’austerity non può essere compresa senza parlare anche di classi sociali e di diseguaglianza.
 

Dopotutto, cosa chiede la gente a una policy economica? Come dimostrato da un recente studio condotto dagli scienziati politici Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright, la risposta cambia a seconda degli interpellati. La ricerca mette a confronto le aspettative nutrite riguardo alla policy dagli americani medi e da quelli molto ricchi — e i risultati sono illuminanti.
Mentre l’americano medio è per certi versi preoccupato dai deficit di budget (cosa che non sorprende, considerato il costante incalzare dei racconti allarmistici diffusi dalla stampa), i ricchi, con un ampio margine, considerano il deficit come il principale problema dei nostri giorni. In che modo dovremmo ridurre il deficit nazionale? I ricchi preferiscono ricorrere al taglio delle spese federali sulla sanità e la previdenza — ovvero sui “programmi assistenziali” — mentre il grande pubblico vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata.
 
Avete capito: il programma dell’austerity rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare.
 

Gli interessi dei ricchi sono forse di fatto agevolati da una depressione prolungata? Ne dubito, dal momento che solitamente un’economia prospera è un bene per tutti. Ciò che invece è vero, è che da quando abbiamo optato per l’austerità i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla disoccupazione.

L’un per cento della popolazione non auspica forse un’economia debole, ma se la passa sufficientemente bene da rimanere arroccato sui propri pregiudizi.
Tutto ciò suscita una domanda: quale differenza produrrà di fatto il crollo intellettuale della posizione pro-austerità? Sino a quando ci atterremo a una politica dell’un per cento, voluta dall’un per cento a vantaggio dell’un per cento, forse assisteremo solo a nuove giustificazioni delle solite, vecchie policy.
 

Spero di no; mi piacerebbe poter credere che le idee e l’evidenza dei fatti contino, almeno in parte. Cosa farò altrimenti della mia vita? Immagino però che ci toccherà vedere sino a dove ci si può spingere pur di dare una giustificazione al cinismo.


Paul Krugman, premio Nobel per l'economia 2008

da : http://keynesblog.com - 06/05/2013
Fonte : La Repubblica, 27/04/2013

lunedì 6 maggio 2013

Crisi del PD, il problema è anche dei sindacati

Contestazioni a Torino, contestazioni a Napoli. Un concerto alternativo a Taranto. Il concerto ufficiale, a Roma, tra i più brutti e retorici della storia recente. Il Primo maggio non poteva non risentire della condizione di fallimento della sinistra “storica”. Non solo degli errori recenti dei vari Bersani o Veltroni, ma del progressivo scollamento che si è accumulato tra forze auto-collocate a sinistra e bisogni, interessi e ambizioni del mondo del lavoro. La crisi riguarda anche il sindacato che, nei dibattiti riservati e nelle discussioni dei suoi dirigenti, conosce bene questa situazione e se ne preoccupa ma che, allo stesso tempo, non sa come uscire da questa situazione.
Anche per questo Cgil, Cisl e Uil rinsaldano la loro unità attorno a una piattaforma politica che dovrà sostenere la manifestazione unitaria del 22 giugno e decidono di fare un passo avanti sul tema della rappresentanza. Uniti di fronte alla crisi e di fronte al nuovo governo che, sui temi sociali, già annuncia di voler intervenire in profondità. Il neo-ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha infatti già dichiarato la propria volontà di rivedere la legge Fornero per introdurre un po’ più di flessibilità in un mercato del lavoro che, francamente, è già tra i più flessibili d’Europa.
L’alleanza con il Pdl, gli errori di Elsa Fornero e le richieste reiterate degli industriali porteranno la nuova maggioranza ad allentare le restrizioni sui contratti a termine. Restrizioni, va detto, adottate da Fornero con l’intenzione, positiva, di porre un freno agli abusi delle aziende e che, invece, si sono trasformate in strumenti a disposizione di quest’ultime per mettere alle strette i lavoratori precari.
Ci riferiamo, in particolare, all’intervallo obbligatorio, fino a 60 giorni, per rinnovare un contratto a termine. Si tratta della dimostrazione di quanto le regole astratte vengano predisposte a dispetto della realtà concreta del mercato del lavoro che si fa sempre più differenziato, frantumato, con lavoratori e lavoratrici in balia di sé stessi. 
Questa realtà, però, non la comprende, e non la rappresenta, nemmeno il sindacato che si fa forte di milioni di lavoratori pensionati e di categorie storiche che ne costituiscono il nucleo centrale ma che poco ha da dire a milioni di precari i quali non si sentono rappresentati in nessun modo.
La sua ritrovata unità, quindi, sembra più un arroccamento attorno a parole d’ordine poco efficaci e generiche e che non riescono a esprimere un programma generale capace di appassionare e di convincere le nuove generazioni. Che assisteranno svogliate a questa nuova fase, così come assistono a un concerto più o meno riuscito.



Mercoledì scorso la Fiom ha rilanciato la proposta del reddito di cittadinanza con l’idea di offrire ai lavoratori, e al sindacato, una rete di protezione universale che permetta di sottrarsi al ricatto della disoccupazione. Poter beneficiare di un reddito di garanzia dovrebbe servire a “riunificare il mondo del lavoro” e a poter avanzare richieste contrattuali con maggiore forza.
Può essere una strada, probabilmente insufficiente e della quale occorre spiegare l’entità e le modalità di finanziamento. Ma è una proposta che parla al tempo presente. Non a caso è il punto centrale della proposta del Movimento Cinque Stelle.
 
Viviamo una fase di transizione molto particolare. Se nei primi anni 90 l’Italia ha visto lo smottamento dei partiti cardine della Prima Repubblica, Dc e Psi, sostituiti improvvisamente dal messaggio affascinante di Silvio Berlusconi, oggi assistiamo allo sbriciolamento della sinistra moderata – quella radicale è già scomparsa – dietro la quale si intravede lo scricchiolamento della forza sindacale. I due mondi sono talmente collegati che lo stesso Pd pensa di affidare la propria ricostruzione all’ex segretario Cgil, Guglielmo Epifani.
 
Sarà facile ricondurre le contestazioni di Torino e Napoli a gruppi di centri sociali o di contestatori organizzati. Ma a Torino si è assistito anche alla protesta di militanti Pd e a Taranto c’è stata la presenza di tanti artisti che, negli anni scorsi, non avrebbero esitato a schierarsi con la Cgil. Sono segnali di una crisi strisciante che si riflettono anche nel dibattito interno al sindacato, a tutti i livelli. Il modo in cui è stato allontanato Giorgio Cremaschi, unico intervento critico, dalla riunione degli esecutivi unitari di Cgil, Cisl e Uil è la dimostrazione di una debolezza reale.
 
Il crollo non è ancora avvenuto e non è detto che avverrà. Ma i segnali dello smottamento ci sono tutti. Grillo è lì pronto ad approfittarne consapevole che, sic stantibus rebus, il prossimo scontro politico sarà tra il suo movimento e la coalizione di Berlusconi.

 
S. Cannavò - 02/05/2013
Il Fatto Quotidiano

mercoledì 1 maggio 2013

No al porcellum sindacale

Nella mia lunga esperienza sindacale non mi era mai capitato di vivere in prima persona la scena madre del film 'L'uomo di marmo'.. 
Ora mi è successo. Ero sfuggito alle maglie strette della selezione preventiva  di coloro che avevano diritto a  partecipare alla riunione degli esecutivi CGIL CISL UIL. Su circa 150 persone ero la sola in dissenso con la proposta sulla rappresentanza illustrata dalla relazione di Bonanni. 
Ho pertanto presentato la mia regolare richiesta di intervento, a cui non ho avuto alcuna risposta da una presidenza che guardava le nuvole. Allora, conclusa la relazione sono intervenuto con  una mozione d'ordine, chiedendo di sapere se il dibattito era aperto a tutti i partecipanti che formalmente ne avevano il diritto oppure no.(...)

Angeletti mi ha risposto a nome di tutta la presidenza di no, parlavano solo gli oratori concordati preventivamente dalle segreterie... A questo punto ho detto che fare una riunione sulla democrazia ed escludere preventivamente chi è in dissenso, anche se avrebbe tutti i diritti  di intervenire,  è una precisa rappresentazione di ciò che si vuole fare.

Ero solo in quella sala a non essere d'accordo, che paura avevano di sentire le mie ragioni per 5 minuti? Ma non volevano proprio sentirle e quando la mia indignazione mi ha spinto a dire alle loro facce ipocritamente sorridenti che si dovevano vergognare e che in fondo la loro intolleranza corrispondeva a quello ha stavano decidendo sulla rappresentanza, cioè la cancellazione del dissenso, sono esplosi. 

Ho visto una mano che cercava di staccare la corrente dal microfono, mentre diversi segretari confederali mi si avvicinavano e cominciavano a spingermi giù dal palco, uno di loro mi sussurrava di preoccuparmi per la mia salute. Interveniva il servizio d'ordine che a spintoni mi accompagnava fuori dalla porta della sala. Se non fossimo stati in una riunione degli esecutivi CGIL CISL UIL si sarebbe detta una scena di violenza.

Ripeto io avevo formale diritto a parlare in quella sala, ma quel diritto non mi è stato negato per caso.

L'accordo sulla rappresentanza che CGIL CISL UIL stanno definendo con la Confindustria è infatti un brutale atto di normalizzazione autoritaria delle relazioni sindacali. Esso stabilisce che il diritto alla rappresentanza ce l'hanno solo coloro che preventivamente accettano quell'accordo. Cioè puoi partecipare alla misurazione della rappresentanza e alle elezioni delle rsu solo se accetti la flessibilità e le deroghe ai contratti e soprattutto se ti impegni a non scioperare se in disaccordo. Esattamente quanto è avvenuto alla Fiat di Marchionne,  che ora viene esteso a tutti.

La nuova rappresentanza sindacale seleziona preventivamente chi ha il diritto alla democrazia e chi no. È il tavolo che che decide chi rappresenta i lavoratori e non sono i lavoratori che scelgono chi li rappresenta al tavolo.

È come se la riforma elettorale del governo Letta stabilisse che alle prossime elezioni politiche potranno partecipare solo coloro che votano oggi la fiducia al governo delle larghe intese. Non vorrei che l'accordo sindacale gli suggerisse l'idea.

D'altra parte tutto questo è in perfetta sintonia con l'impianto politico del governo appena varato, in un certo senso ne rappresenta il versante corporativo. CGIL CISL UIL e Confindustria varano oggi il governissimo delle parti sociali. Ma il fatto più grave non è  neanche questo. Il fatto più grave è  che chi non è d'accordo non ha più né diritto di parola né diritto di rappresentanza.

Questo è il  fatto enorme, enorme è la sopraffazione che si sta organizzando e che, come sempre, per riuscire ha bisogno del silenzio. Che viene alimentato dalla solita stampa  di governo, che ora esalta la ritrovata unità sindacale.  Quando invece quella di oggi è l'esatto opposto della unità sindacale degli anni 60 e 70. Quella apriva  la via alle conquiste del lavoro e della democrazia, quella includeva. Questa subisce e accetta le regole imposte dal mercato e dalle imprese, riduce la democrazia, esclude.

Per questo bisogna fare tacere ogni voce di dissenso.

L'accordo sulla rappresentanza è troppo scandaloso perché lo si conosca veramente. Deve passare attraverso la rappresentazione politica mediatica che ne cancella i contenuti reali. Le voci fuori dal  coro sono pericolose...qualcuno potrebbe accorgersi che il re è davvero nudo.

Per questo non ci fermeremo e continueremo a spiegare con tutte le forze che abbiamo cosa è davvero il porcellum sindacale e perché bisogna combatterlo.

 
G. Cremaschi - 30/04/2013
Rete28Aprile