Nella concitazione creata da una crisi bancaria rapidamente addossata  ai cittadini, e in particolare ai lavoratori dipendenti, in Italia si è  ritornati a parlare con vigore di flessibilizzazione del mercato del  lavoro (ovvero di ulteriore facilitazione al licenziamento) e  dell’eliminazione del famigerato art. 18 dello statuto dei lavoratori.  Queste discussioni si svolgono all’interno di un più ampio dibattito a  livello europeo incoraggiato dai grandi gruppi finanziari e industriali e  ripreso nelle varie istituzioni che di fatto li rappresentano a livello  politico, BCE, Commissione Europea, FMI (la Troika). Interventi in tal  senso sono già stati realizzati nei paesi ora più indeboliti, quali  Spagna (riforma del 2010: Ley n. 35/2010) e Grecia.
Inizialmente, queste riforme sono state difese da Confindustria e  accoliti in quanto considerate necessarie per liberare un mercato  descritto come eccessivamente rigido, e la cui rigidezza incideva in  modo esiziale sulle capacità economiche del paese. Prescindendo dal  fatto che la flessibilità del lavoro non è mai stata dimostrata essere  un fattore né di crescita né di miglioramento della qualità della vita  (almeno sul medio-lungo termine), questo quadro è smentito dai fatti e  dai dati. La visione dei paladini del licenziamento è talmente grottesca  e irrispettosa del dramma inflitto alla vita di migliaia di persone  licenziate negli ultimi anni (senza che in alcun modo essi avessero una  qualche colpa nel cattivo andamento economico) che anche gli ideologi  più estremisti stanno cautamente abbandonando questa strada. Luciano  Gallino (uno dei pochissimi studiosi con una certa visibilità rimasti a  difendere la verità e i diritti dei lavoratori) ha descritto argutamente  e in maniera stentorea, con chiare cifre, questa situazione in due  recenti articoli su Repubblica (L. Gallino, I paladini dei diritti  cancellati — 31 ottobre 2011; Licenziamenti falso problema — 05 gennaio  2012). Per essere più precisi ed esaustivi, ci si può riferire a  documenti redatti da studiosi di diritto anche in merito all’annosa  questione del “contratto unico”, e in particolare il Seminario ELLN di Francoforte sul licenziamento individuale in Europa: una sintesi a cura dell’ufficio giuridico CGIL  che si può trovare in rete. Nella sintesi si sottolinea con chiarezza  che l’Italia è uno dei paesi più flessibili d’Europa, superata  praticamente solo dalla Danimarca (perciò presa a campione come modello  d’eccezione). L’Italia risulta addirittura caratterizzata da un mercato  del lavoro più aperto di paesi quali l’Ungheria, Repubblica Ceca e la  Polonia! Dunque, la diffusa convinzione che quello italiano sia un  regime iperprotettivo è totalmente smentita dai dati dell’OCSE; nonché  dal licenziamento perentorio di centinaia di migliaia di lavoratori a  causa di motivi economici avvenuti in questi ultimi anni. Questo spesso a  fronte di enormi benefici per gli azionari alla fine dell’anno, sovente  ottenuti proprio grazie ai licenziamenti.
La nuova tattica per ottenere l’eliminazione dell’art. 18 consiste  nel sottolineare come tale articolo sia di fatto utilizzato in  pochissime vertenze giudiziarie e sia un unicum italiano. Questi due  punti sono stati drammaticamente integrati anche da parte del  centro-sinistra.
Il secondo punto è semplicemente falso. In altri paesi europei il  lavoratore può chiedere al giudice di reintegrarlo nel posto di lavoro a  seguito di un giudizio “sommario” di bilanciamento degli interessi in  gioco (così in Germania e, in termini simili, in Austria, Grecia, Belgio  e Irlanda). In molti altri paesi questo non è possibile, ma delle  tutele speciali sono previste contro il licenziamento illegittimo. Si  legga la sintesi del seminario CGIL per informazioni più precise.
Il primo punto è più sottile. E’ vero che in pochi casi si fa  riferimento all’articolo 18 in cause tra lavoratori e imprese e che  talora, in Italia come all’estero, il procedimento di può concludere  ugualmente con un indennizzo anche qualora il reintegro sia formalmente  possibile. Ciò che si rileva, in realtà, è la funzione di deterrente che  la sanzione della reintegrazione prospetta: e questa non appare diversa  in Italia rispetto agli altri paesi che la prevedono. Al contrario ciò  che è anomalo in Italia è la soglia che caratterizza le piccole imprese,  la quale risulta ben troppo elevata: 15 dipendenti, cifra basata sullo  stabilimento e non sull’intera impresa. Negli altri paesi questa soglia è  o assente o molto inferiore, per esempio in Francia è 10, considerando  l’impresa. Del resto, se veramente l’art. 18 non fosse che un orpello  ideologico del sindacato vuoto di senso, perché tanto accanimento nel  volerlo eliminare?
Riassumendo, le imprese in Italia hanno la possibilità di assumere in  un mercato del lavoro tra i più flessibili dell’occidente, in cui il  ricorso a contratti atipici è la regola dall’approvazione della  cosiddetta “legge Biagi” 2003. I licenziamenti si fanno in maniera  massiccia, sia grazie alle inesistenti coperture di legge sui contratti  atipici, sia grazie ai motivi economici, veri o presunti tali.
Perché allora le istituzioni finanziarie, la Confindustria e i loro  rappresentanti politici (governo Monti) continuano a martellare sulla  necessità di eliminare l’articolo di 18?
Ecco la risposta. Una sola cosa, sostanzialmente, non è ancora possibile nella giungla del lavoro italiano, licenziare individualmente: nome e cognome.
E’ vero che questo grande passo in avanti sarebbe possibile  grazie a quell’obbrobrio giuridico che è il famigerato art. 8 inserito  nella c.d. manovra-bis di agosto (in tal senso, si veda il sempre lucido  L. Gallino che riassume l’effetto di questo articolo con “A ben  vedere, il legislatore poteva condensare l’intero articolo 8 in una sola  riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con  essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro” in “Come  abolire il diritto del lavoro”, Repubblica 5 settembre 2011; si veda  anche “La minaccia dell’articolo 8” Repubblica 15 settembre 2011).  Tuttavia, tale norma rimane solo una bomba a orologeria, in quanto il  suo impatto dipende dall’attuazione che di esso ne verrà data nelle  singole aziende e nei singoli contesti territoriali. E le parti sociali  con l’accordo del 21settembre 2011 hanno escluso di volere attuare la  norma proprio in relazione a tale materia.
Quindi per il momento le aziende non possono licenziare  tranquillamente un singolo individuo perché “rompiballe”, senza il  timore di rivederselo tornare reintegrato da un bieco giudice. Questo è  quanto è successo, per esempio, nel famoso caso dei tre operai  sindacalisti dello stabilimento FIAT di Melfi. Si comprende allora il  vero interesse intorno a tale questione. Pur in un momento di globale  crisi della classe lavoratrice, con un arretramento continuo e, per ora,  inesorabile delle condizioni di vita e di lavoro, alcuni sindacati e  alcuni sindacalisti tentano di difendere quel poco che rimane dei  diritti dei lavoratori e aiutano i loro compagni a non piegarsi ai  diktat delle aziende.
Eliminando l’art. 18, le imprese potranno finalmente “dar sfogo alla  loro turpe voglia” e licenziare in tronco tutti gli operai ritenuti  indomiti (sindacalizzati e non) per poi attuare una dura politica  antisindacale; come del resto fanno le grandi aziende europee quando si  trasferiscono in paesi dalla legislazione più arretrata, quali gli Stati  Uniti. In tal modo avranno stroncato ogni tipo di residuale opposizione  alla loro politica neo-schiavistica e la regressione a condizioni di  lavoro da inizio 1900 sarà finalmente ultimata. Probabilmente con il  plauso del Pd.
di Sergio Chibbaro
 “Maître de conférences” (assistant professor) all’Università “Paris 6″,delegato della Confédération Générale du Travail, CGT
Nazione Indiana - 21/01/2012
 
 
 
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