venerdì 29 luglio 2011

Il manifesto del patto sociale è del tutto inutile e dannoso


L’hanno chiamato in molti modi questo manifesto, ma alla fine il concetto è quello del “patto sociale”. O no? 
E’ la prima volta che mi capita di condividere una affermazione del segretario generale della Uil Luigi Angeletti, che ha detto che questo è un puro manifesto democristiano. Vuol dire nella sostanza che, come nei congressi della Dc, si fanno affermazioni di principio più o meno condivisibili ma prive di sostanza reale dietro le quali ci sono cose che non si possono dire. Il manifesto parla di una discontinuità per avere la crescita che è come dire che dopo il brutto tempo deve arrivare il sole.

Ma tra le cose che non dice ci sarà qualcosa di interessante… 
In realtà si possono avanzare due interpretazioni entrambi autentiche: la prima, del partito del giornale Repubblica, che allude al governo Monti, di unità nazionale e presentabile alle agenzie di rating; la seconda, più concreta, e sostenuta sia da Bonanni, che credo sia l’autentico ispiratore di questo documento, sia dal “Sole 24 ore”, è che bisogna rifare come nel ’92: una terapia d’urto che ripropone il taglio dei salari, tasse, attacco alle pensioni e riduzione dei diritti. Quello che irrita è che questo documento queste cose non le dice. C’è un aspetto dannoso, ma anche uno ridicolo, quando auspica un cambiamento di governo non viene valutato che se Berlusconi non fosse nella fase in cui si trova potrebbe benissimo prendere in mano quello schieramento.

Che c’entrano le banche con i sindacati? 
Le banche sono le prime firmatarie di quel documento. Non si esce dalla crisi riproponendo i patti sociali degli anni novanta e senza intervenire contro la speculazione finanziaria e sulle banche. Paradossale che le firme dei commercianti e degli artigiani che sono taglieggiati dagli istituti di credito compaiano accanto a questi. Si vive ormai alla giornata. 

E la Cgil?
Sì, appunto. “L’unica firma che stona è quella della Cgil”: è questo che avrei detto un mese fa. Ma le scelte strategiche della Cgil oggi sono in mano alla Cisl. 

Tutti dicono che manca la crescita… 
Il mito della crescita è una riproposizione edulcorata del berlusconismo. Che vuol dire crescita? Per produrre cosa? Si arriva a dire che bisogna tagliare i servizi sociali e aumentare la produttività. Oltre che danni sociali quel manifesto non risolverà il problema. Il punto è che non pagano i maggiori responsabili, ovvero le banche e il mondo finanziario che hanno provocato la crisi.

Di cosa ci sarebbe bisogno? 
Ci vogliono investimenti in nuovi settori produttivi e nella scuola. Occorre fermare la devastazione delle grandi opere. Una rivoluzione democratica che proponga non semplicemente qualche taglio ma la fine di questa casta che ha occupato la politica. Non è che mettendoci attorno a un tavolo vittime e aggressori troviamo il compromesso e riparte il paese. Il massimo che può ottenere questo appello è cambiare qualche ministro. Una battaglia miope e confusa che non è in grado di dire qualcosa di concreto. E’ scandaloso che la Cgil appoggi tutto questo. 

Cosa accadrà a settembre? 
Ci dovremo opporre alla politica del patto sociale sia nella forma del “28 giugno” che nella forma del patto della crescita. Tutti coloro, quale che sia la loro appartenenza di organizzazione, non sono d’accordo con questa riproposizione della politica corporativa e concertativa devono trovarsi e costruire una alternativa. Quello che abbiamo di fronte è o Berlusconi o un governo di unità nazionale che riproponga i tagli dei primi anni novanta. Questo implica una radicalizzazione della battaglia anche dentro la Cgil. Il “28 giugno” è un accordo costituente di un’altra Cgil a cui non a caso ha fatto seguito questo documento. Dentro la Cgil occorre costruire una alternativa a questa linea e anche a questo gruppo dirigente. Le prime settimane di settembre saranno le settimane della verità per tutti. Anche per la sinistra della Cgil e anche per la Fiom.

di Fabio Sebastiani - Intervista a Giorgio Cremaschi - Liberazione 

Ritornare allo spirito del '92? Anche no.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, e particolarmente dopo l’avvio della politica di concertazione all'inizio degli anni Novanta, le condizioni dei lavoratori italiani sono peggiorate senza soluzione di continuità e ogni accordo sindacale ha sancito ulteriori slittamenti delle condizioni di lavoro. I salari medi dei lavoratori italiani  figurano al 23esimo posto tra quelli dei paesi Ocse, con i lavoratori della Corea del Sud che guadagnano esattamente il doppio. Eppure l’Italia, anche arretrando, non è ancora la ventitreesima economia del mondo!  Dal 1988 al 2006 (cioè prima della crisi) i salari reali italiani, sempre stando ai dati dell’Ocse, sono diminuiti del 13 per cento: una diminuzione che è il doppio di quella registrata tra gli 11 paesi più industrializzati. Se i salari italiani figurano tra i più bassi, la disoccupazione, specie giovanile, è tra le più alte d’Europa, lo spostamento di ricchezza dai salari verso rendite e profitti tra i più accentuati, il dilagare del lavoro precario, nato insieme ai governi di centrosinistra, ha raggiunto il punto che, nel 2010, l’80 per cento dei nuovi assunti hanno avuto contratti a tempo determinato o precari. Il bilancio sociale dell’Italia dell’ultimo ventennio non è negativo ma disastroso, soprattutto se  paragonato a quello dei nostri grandi vicini europei.
Era questo un percorso scontato per la società e l’economia italiana che, ancora negli anni Ottanta, vedeva i lavoratori italiani fra i meglio pagati e tutelati del mondo?
Giacché di scontato non c’è nulla, per comprendere questa scivolata sociale dell'Italia occorrerà tenere conto delle pressioni della competizione internazionale e delle specificità italiane in questo contesto, della necessità di fare i conti con il peso del debito pubblico ereditato, ma certamente anche dell’incapacità della sinistra politica e sociale di reagire in modo creativo allo straripante dilagare di idee neoliberali incentrate su flessibilità lavorative e svendita del patrimonio comune. L’Italia è entrata nell’euro nel modo più semplice, cioè interamente sulle spalle della classe media. L’incapacità della sinistra di evitare il progressivo collasso sociale include, ovviamente, la debolezza e la scarsa combattività di settori largamente maggioritari del mondo sindacale, ivi compresa la Cgil che ha unito una politica sostanzialmente appiattita su quella dei governi moderati di centrosinistra ad alzate di testa quanto mai opportune, sebbene simboliche e sporadiche, contro i governo di centrodestra.
Parte della società italiana ha saputo reagire al propagarsi del virus della politica delle tangenti, dell’abbandono dei beni comuni in favore di una loro svendita a privati, di una politica fatta di giorno per giorno, di ritorno alla guerra come strumento di politica estera, e se non si è mai veramente data per vinta. Testimonianze: il movimento altermondista di Genova nel 2001 e il Forum sociale di Firenze, le oceaniche manifestazioni per la pace, il canto del cigno dei 3 milioni del Circo Massimo, l’Onda degli studenti, fino a tutti i più recenti episodi di rilancio della partecipazione popolare, come i successi nei referendum per un bene comune come l’acqua e la gigantesca manifestazione di metalmeccanici e studenti del 16 ottobre scorso. Settori del sindacato sono stati coinvolti in questi movimenti, altri hanno subito passivamente questi sussulti della società.
Oggi ci troviamo di fronte ad una realtà fatta di impoverimento della classe media mascherata da austerità e della pressione delle aziende che competono nei mercati internazionali che intendono far cassa risparmiando sulla forza lavoro piuttosto che concentrandosi su qualità del prodotto e innovazione. E’ per questo che si chiedono modifiche del modello contrattuale tali da garantire più lavoro e la stabilità nelle aziende attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori dotati di peso e di capacità organizzativa. Il principale ostacolo a questo progetto è ancora rappresentato da una società non totalmente addormentata cui però stanno venendo meno tutti i supporti legislativi per agire e un modello culturale cui rifarsi.
In questa situazione la scelta della Cgil di siglare l’accordo interconfederale del 28 giugno, nonché le recenti dichiarazioni su un necessario "patto per la crescita", appaiono una resa su tutta la linea. Appare una resa formale perché organizzazioni che avevano siglato ogni tipo di contratti separati vengono premiate da Susanna Camusso con una stretta di mano che verrà fatta pesare nei prossimi mesi. Peggio ancora, è una resa sostanziale perché contiene clausole e un sottotesto che completerebbero la lenta trasformazione del sindacato in un organismo sempre più impermeabile ai movimenti sociali e civili, principalmente teso alla sua conservazione, alla ricerca delle legittimazione che gli viene offerta dalle controparti, siano esse quelle imprenditoriali, sindacali, che quelle politiche e governative.
Due cose in particolare nell’accordo fanno capire come la Cgil stia volontariamente abbandonando la lunga tradizione di rappresentanza del movimento dei lavoratori per trasformarsi in una più burocratica organizzazione degli iscritti.
In primo luogo, e proprio nel momento in cui il riferimento al sindacato nella società italiana è in forte crisi, si impedisce ai lavoratori non iscritti qualsiasi ruolo nel decidere delle proprie condizioni lavorative. Sui contratti collettivi nazionali non è prevista dall’accordo alcuna partecipazione attiva dei lavoratori nemmeno in sede di validazione finale, se non una clausola che impone ai sindacati una rappresentatività minima del 5 per cento dei lavoratori di un determinato settore. Nei contratti aziendali, cui si attribuisce una sempre maggiore importanza, dove vi sono le Rappresentanze Sindacali Unitarie questi contratti possono essere firmati a maggioranza e anche qui senza nessun voto diretto dei lavoratori.
In secondo luogo, e a completare il modello maggioritario previsto, alle organizzazioni  sindacali, che abbiano o meno firmato gli accordi, potrebbero essere applicate clausole di tregua che in sostanza ne limiterebbero il diritto di proclamare lo sciopero. 
Con il modello prefigurato da questi accordi, i lavoratori, e sono la stragrande maggioranza, che non sono iscritti al sindacato – così come i tutti i lavoratori precari anche iscritti al sindacato ma per forza maggiore con tessere a tempo – non potranno in nessun modo esprimersi sulle proprie condizioni di lavoro. Mentre quelli iscritti al sindacato conteranno solo ed esclusivamente al momento delle elezioni delle Rsu, dopodichè dovrebbero cedere ogni potere ai rappresentanti sindacali. Proprio in un momento in cui emergono cittadini che si mobilitano e desiderano essere protagonisti, quello che resta ancora il maggiore sindacato italiano acconsente a modificare il modello delle decisioni nei luoghi di lavoro oggettivamente a discapito della possibilità di partecipazione diretta.
Si dice che la Cgil non avrebbe potuto fare altrimenti; che avrebbe corso il rischio di rimanere isolata. L’unico isolamento che la Cgil dovrebbe temere è l’isolamento dai lavoratori, in primo luogo da quelli non iscritti al sindacato, nonché dall’esercito di milioni di precari che non hanno trovato alcun sostegno reale nel sindacato e che restano disorganizzati. Le uniche riforme che dovrebbe prevedere riguardano una maggiore partecipazione nel momento delle scelte, la disarticolazione delle logiche burocratiche interne con una maggiore alternanza fra lavoro e attività sindacale, una attenuazione del peso dei pensionati nelle decisioni sul lavoro nonché sugli assetti di potere interni ai sindacati confederali, l’inclusione a pieno titolo dei precari nelle attività e nelle decisioni, la riduzioni delle forme contrattuali, la sfida di impegnarsi a conquistare ogni anno i propri iscritti magari rinunciando autonomamente alle detrazioni automatiche in busta paga.
E per evitare di rimanere isolata dal mondo che comunque inarrestabile viene avanti, la dirigenza della Cgil ha adesso una principale strada da percorrere: quella di seguire la voglia di partecipazione della società e promuovere un vero referendum sull’accordo interconfederale. Un referendum in cui siano previste assemblee che diano voce ai comitati del sì così come a quelli del no, con regole chiare e osservatori di entrambi i comitati. Un referendum che chiami a votare gli iscritti alla Cgil, anche e soprattutto i precari, e di tutte le categorie, visto che l’accordo prefigura un modello di relazioni  che non vale solo per l’industria ma  potrebbe ripercuotersi con i suoi effetti su tutto il mondo del lavoro.
Insomma invece di pensare al nuovo patto sociale il sindacato dovrebbe pensare a migliorare i processi democratici al suo interno e a ragionare su un modello di crescita alternativo a quello esistente, alternativo a quello proposto da Confindustria, Cisl e Uil.
di Giuliano Garavini

giovedì 28 luglio 2011

Patto per la crescita: tanto ridicolo quanto dannoso. A quando in piazza con Goldmann Sachs?

Un appello improvviso dal palazzo dei sindacati e delle imprese, chiede con urgenza al Governo un “patto per la crescita”. Ha ragione chi ha detto che è un tipico testo democristiano, dove si fanno grandi auspici che coprono manovre che non possono annunciate con chiarezza. L’appello nella sostanza chiede di cambiare il Governo, o almeno il ministro dell’Economia, o almeno quello dello Sviluppo economico. E lo fa nel nome dell’aggravarsi della crisi. Non c’è una sola proposta di merito in quel documento, se non la richiesta che l’economia debba riprendere a crescere con discontinuità, come dire che vogliamo il bel tempo dopo la tempesta. La realtà è che, se si va al concreto dei programmi che Il Sole 24 Ore allega all’appello, si vede che essi sono la versione italiana delle scelte greche. Tagli, tagli, e ancora tagli, soprattutto ai diritti, allo stato sociale, ai salari e ai contratti. E’ per questo che le banche possono firmare assieme agli artigiani e ai commercianti, che contro le banche sono scesi in piazza, e la Confindustria assieme alla Cgil, dopo che l’accordo del 28 giugno ha cominciato lo smantellamento del contratto nazionale.
Il segretario della Cisl, spiega che siamo in una situazione peggiore del ’92. E’ utile ricordare che in quell’anno il governo Amato, con un solo provvedimento, tagliò le pensioni delle donne, eliminò la scala mobile, bloccò tutta la contrattazione, aziendale e nazionale, aprì la via a tutte le privatizzazioni istituì una valanga di tasse. Se è quello il punto di riferimento, se, come auspica La Repubblica bisogna tornare allo spirito del ’92, allora il “patto per la crescita” non è altro che una nuova terribile stangata ai danni dei lavoratori e dei pensionati. 
C’è però allora da chiedersi: e se Berlusconi uscisse dalla sua depressione finanziaria e politica e accettasse il “patto”? In questo modo firmerebbe un’assicurazione bancaria per la continuità del proprio governo e quindi renderebbe ridicola l’operazione politica tentata da chi, con l’appoggio delle banche, opera per sostituire Berlusconi con un governo più presentabile alle agenzie di rating. Se invece il Presidente del Consiglio dovesse rifiutare la proposta, cosa faranno i firmatari? Una manifestazione assieme ai rappresentanti della Goldmann Sachs? La realtà è che questo documento è solo un’ulteriore riprova della crisi complessiva delle classi dirigenti italiane, politiche, imprenditoriali e sindacali.
Fino a poche settimane fa avremmo detto che l’unica firma che stona in quel testo è quella della Cgil. Oggi purtroppo non possiamo più dirlo, perché la segreteria della Cgil ha appaltato alla Cisl le proprie scelte di fondo. 
di Giorgio Cremaschi

mercoledì 27 luglio 2011

Accordo 28 giugno - Posizione della CGIL che vogliamo di Trieste

Sempre peggio: patto per la crescita!

Pubblichiamo il testo dell'appello rivolto dalle parti sociali al Governo 

«Serve un patto per la crescita che coinvolga tutte le parti sociali» 
Guardiamo con preoccupazione al recente andamento dei mercati finanziari. Il mercato non sembra riconoscere la solidità dei fondamentali dell'Italia. Siamo consapevoli che la fase che stiamo attraversando dipende solo in parte dalle condizioni di fondo dell'economia italiana ed è connessa a un problema europeo di fragilità dei Paesi periferici. A ciò si aggiungono i problemi di bilancio degli Stati Uniti.
Ma queste incertezze dei mercati si traducono per l'Italia nel deciso ampliamento degli spread sui titoli sovrani e nella penalizzazione dei valori di Borsa. Ciò comporta un elevato onere di finanziamento del debito pubblico ed un aumento del costo del denaro per famiglie ed imprese. Per evitare che la situazione italiana divenga insostenibile occorre ricreare immediatamente nel nostro Paese condizioni per ripristinare la normalità sui mercati finanziari con un immediato recupero di credibilità nei confronti degli investitori. A tal fine si rende necessario un Patto per la crescita che coinvolga tutte le parti sociali; serve una grande assunzione di responsabilità da parte di tutti ed una discontinuità capace di realizzare un progetto di crescita del Paese in grado di assicurare la sostenibilità del debito e la creazione di nuova occupazione.

Roma 27 luglio 2011

Abi, Alleanza Cooperative italiane (Confcooperative, Lega cooperative, Agci), Cgil, Cia, Cisl, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Reteimprese Italia (Confcommercio, Confartigianato, Cna, Casartigiani, Confesercenti), Ugl

martedì 26 luglio 2011

Strategie da Camusso - Non valgono i voti dei lavoratori non iscritti

La strategia Camusso non prevede dissenso e blinda l'accordo interconfederale del 28 giugno scorso: «Il voto eventualmente espresso da non iscritti o da lavoratori iscritti ad altre Organizzazioni non potrà in nessun modo essere preso in considerazione»

Domanda: come fa una importante organizzazione sindacale che consulta i lavoratori su un accordo impopolare ad occultare un risultato (prevedibilmente) sgradito? Risposta: con un referendum secretato. Ovvero disegnando un omissis, come nei documenti dei servizi segreti. Non ci credete? Per ulteriori precisazioni chiedere all’ideatrice di questo ennesimo paradosso del burocratese sindacale, Susanna Camusso.
PER QUANTO POSSA sembrare incredibile, infatti, la segretaria generale della Cgil ha avuto una pensata da manuale, per disinnescare con un trattamento “bulgaro” ogni possibile dissenso all’ultimo accordo che ha sottoscritto: ha preso carta e penna, e ha scritto alle organizzazioni del suo stesso sindacato incaricate di organizzare le consultazioni nelle fabbriche, di tenere segreti i risultati dei lavoratori non iscritti.
Ancora una volta non ci credete? Questo il passaggio testuale: "Il voto eventualmente espresso da non iscritti o da lavoratori iscritti ad altre Organizzazioni non potrà in nessun modo essere preso in considerazione". Compresa la comunicazione dei risultati finali. Ovviamente anche questo ennesimo pasticcio del burocrate-sindacalese ha una spiegazione che rende comprensibile, non tanto la scelta suicida, ma almeno la logica che l’ha guidata.
La Camusso, infatti, si prepara a fronteggiare il presumibile dissenso all’accordo che ha appena firmato insieme alla Cisl e alla Uil con Confindustria: questo accordo, che abbiamo definito il “porcellum sindacale”, annulla il voto dei lavoratori sui contratti (già questa una bella pensata) quando la maggioranza dei rappresentanti sindacali lo sottoscrive. In pratica: se il 50% più uno dei rappresentati sindacali firma un contratto (a seconda delle fabbriche bastano anche due sole organizzazioni) non si vota. In virtù di questo accordo, poi, i sindacati firmatari, sono vincolati a non scioperare. Un patto oneroso per la Cgil, soprattutto per quella parte dell’organizzazione (la Fiom, ma non solo) che aveva fatto del consenso la bandiera delle ultime battaglie (a partire dai referendum alla Fiat).
QUINDI SI PREPARA a fronteggiare il sindacato di Maurizio Landini (che fa votare iscritti e non iscritti) predisponendo un protocollo quasi brezneviano. In virtù del regolamento interno e delle interpretazioni che la stessa Camusso sollecita alla Commissione di garanzia, l’unico organismo dirigente che si può pronunciare sulla materia è il direttivo: in tutte le sedi e in tutte le assemblee, si potrà illustrare una sola posizione. Indovinate quale? Quella della Camusso.
Ma anche la Fiom adotta le sue contromosse. Il sindacato dei metalmeccanici sceglie di stampare il testo, senza commenti e di diffonderlo, così almeno i lavoratori sapranno che cosa votano. Certo, questa volta a temere il voto non sono la Confindustria e gli altri sindacati, ma gli stessi dirigenti Cgil. Così, la burocratja sindacale partorisce: il voto invisibile.
Secondo la segretaria della Cgil, infatti, si possono consultare i lavoratori, solo a patto di non divulgare il loro verdetto. Sarebbe come far vedere la partita solo agli spettatori della tribuna, sarebbe come fare le primarie in America consentendo il voto solo agli agit prop dei comitati
elettorali democratici o repubblicani, sarebbe come fare le elezioni e limitare lo scrutinio solo agli iscritti ai partiti.
L’ultima ciliegina? “L’invito scrive ancora la segretaria è a dare puntuale attuazione alle modalità di consultazione definite dal Comitato direttivo nazionale della CGIL affinché tutti i voti delle iscritte e degli iscritti siano considerati e concorrano ad approvare l’Accordo”. Quelli che votando, insomma, concorrono solo ad approvarlo. Una bella idea della democrazia diretta.
Ma si sa, nel tempo in cui tutto cambia, chi ha paura di essere sconfitto preferisce nascondere i fatti piuttosto che incassare una bocciatura.

di Luca Telese, il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2011

sabato 23 luglio 2011

La sentenza Fiat è una vittoria per la Fiom

Parlare di «pareggio» o addirittura di «vittoria 2 a 1» per il Lingotto, come fa il prof. sen. Ichino, è una grossolana stupidaggine indotta solo dall’odio pregiudiziale verso la Fiom. Ichino, che afferma lo scarso rilievo della condanna per comportamento antisindacale, che comporterebbe per la Fiat «25 giorni» di semplice consultazione sindacale, (ai sensi dell’art. 47 l. 428/90), fa semplicemente ridere: il Tribunale di Torino «ordina a Fabbrica italia Pomigliano di riconoscere, in favore di Fiom Cgil, la disciplina giuridica come regolata dal Titolo Terzo (Dell’attività sindacale), artt. Da 19 a 27 della legge 20 maggio n. 300 (Statuto dei Lavoratori)». L’art. 47 l. 428/90, dunque, non c’entra.
Mi ha sorpreso, invece, il commento problematico de il manifesto, sapendovi intelligenti e in grado di capire la portata della sentenza. Avendo partecipato alla stesura del ricorso e alle fasi del giudizio, sintetizzo la «domanda» della Fiom, e cosa è stato accolto dal Giudice.
La Fiom ha chiesto di essere reintegrata a Pomigliano nella titolarità di tutti i diritti spettanti al sindacato ai sensi dello Statuto dei lavoratori: costituzione di Rsa, diritto di chiedere assemblee, indire referendum, raccogliere contributi, fruire di permessi retribuiti e non per i suoi dirigenti, di affissione e avere a disposizione locali all’interno dell’unità produttiva, etc.
E ciò pur non avendo firmato – e ancora rifiutandosi di farlo – i contratti collettivi imposti dalla Fiat per lo stabilimento napoletano (estesi via via agli altri). Quanto alle ragioni del domandare Fiom ne ha avanzate diverse, essenzialmente due: 1) il comportamento illecito, perché antisindacale, delle tre società Fiat, Fiat Group Automobiles, Fabbrica Italia Pomigliano (Fip) anche in ipotesi di legittimità degli atti negoziali e dei contratti; 2) l’elusione dell’art. 2112 c.c. in quanto Fip ha provveduto a «nuove assunzioni» invece che dar corso alla prosecuzione del rapporto di lavoro con i dipendenti.
Il Tribunale ha accolto la domanda dichiarando «antisindacale la condotta posta in essere da Fiat spa, Fiat Group Automobiles spa, Fabbrica Italia Pomigliano spa, perché determina, quale effetto conseguente, l’estromissione di Fiom Cgil dal sito produttivo di Pomigliano».
Vi assicuro che questi pareggi, o sconfitte come dice il prof. Ichino, qualunque avvocato li vorrebbe subire tutti i giorni!
La migliore riprova del reale esito della controversia è fornita dalla rabbiosa e scomposta reazione di Fiat («congelo gli investimenti») e dalle dichiarazioni dei dirigenti di Cisl, Uil, Ugl ecc., in evidente stato confusionale dopo aver incassato – anche loro formalmente – la prima cocente sconfitta nella storia dei conflitti sindacali nel mondo (sicuramente in Europa), per «comportamento antisindacale»: questi sindacati, infatti, imprudentemente (ma anche impudentemente) sono intervenuti nel giudizio a sostegno della Fiat, poi condannata per comportamento antisindacale, per chiedere il rigetto del ricorso della Fiom.
La sentenza è stata emessa ai sensi dell’art. 28 Statuto dei lavoratori che contiene anche la importante previsione di condanna penale, ai sensi dell’art. 650 c.p., per il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza.
Per l’accoglimento della domanda basta la fondatezza di una sola delle varie ragioni poste a suo fondamento: poiché l’elusione dell’art. 2112 c.c. riguarda prevalentemente i diritti dei singoli lavoratori, gli stessi faranno valere nella cause individuali le loro ragioni. Insomma, Fiat (e chi l’ha sostenuta anche nel giudizio) si proponeva di estromettere la Fiom dai suoi stabilimenti e questo suo obiettivo è fallito.
PIER LUIGI PANICI
Legale del collegio di difesa della Fiom
tratto da il manifesto 

venerdì 22 luglio 2011

L’Europa delle banche è il nostro nemico

L’accordo europeo che le borse e la stampa hanno accolto con grande entusiasmo, prepara un nuovo drammatico attacco ai diritti sociali e alle stesse libertà dei lavoratori e dei popoli europei. Non c’è niente da gioire per il fatto che il governo europeo delle banche ha trovato un’intesa per pilotare il fallimento della Grecia, senza far rimettere troppi soldi alla speculazione. La cambiale di questo accordo la pagheranno tutta, come già stanno facendo, i lavoratori e i cittadini greci, che hanno visto in pochi mesi regredire di trent’anni le loro condizioni sociali.
La pagherà la civiltà e la democrazia, la pagheranno i beni comuni, il patrimonio culturale, se è vero che un ministro finlandese ha chiesto il Partenone, in garanzia dei prestiti alla Grecia, e se è vero che il presidente del parlamento europeo Junker ha detto che in questo momento la Grecia non può permettersi di essere una democrazia. La dittatura bancaria che governa l’Europa ha trovato un accordo, ma già ora si annuncia che dovremo pagarne tutti i costi.
Il Sole 24 ore ha addirittura fatto i conti su quanto si risparmia con la pensione a 70 anni. Perché non calcolarla allora fino a 80? I risparmi sarebbero ancora maggiori.  Le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la mercificazione di tutto sono il prezzo da pagare per la stabilità dell’Europa delle banche. E non è un caso che la manovra del governo italiano, un attacco durissimo alle condizioni di vita e al salario di tutti noi, sia stata elogiata a Bruxelles, così come è stato elogiato l’accordo interconfederale che distrugge contratto nazionale e democrazia. Quest’Europa delle banche ci è totalmente nemica e per questo dobbiamo combatterla. Non ci sarà libertà, non ci saranno diritti, non ci saranno eguaglianza e giustizia, né tantomeno ci saranno cambiamenti nel modello di sviluppo e nell’economia, fino a che la dittatura delle banche governerà e fino a che i governi europei avranno molta più paura di un verdetto di Moody’s o di Goldman Sachs piuttosto che dell’indignazione e della rivolta dei popoli.
Questo è il punto: dobbiamo fare paura a chi comanda. Devono avere più paura delle nostre lotte che dei verdetti della speculazione finanziaria mondiale, solo così fermeremo l’attacco alla nostra civiltà che viene dalla dittatura bancaria. La rivolta contro questa Europa, assieme a tutti i popoli d’Europa, è l’appuntamento vero per l’autunno.
di Giorgio Cremaschi

Camusso a Fiom: Per noi vale solo voto degli iscritti

Nelle consultazioni sull'accordo interconfederale del 28 giugno vale solo il voto degli iscritti. Lo ha ribadito il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, polemizzando con la Fiom che chide invece di estendere il voto a tutti i lavoratori.
"Per noi - ha affermato intervenendo all'assemblea dell'ala riformista della Fiom - vale solo il voto degli iscritti e non fa bene a nessuno, nemmeno alla Fiom contrapporre il voto dei lavoratori a quello degli iscritti". Camusso ha poi fatto riferimento alla recente sentenza del giudice del lavoro di Torino sul contratto Fiat di Pomigliano osservando che "non bisogna privarsi di nessun strumento nemmeno di quello giudiziario, ma bisogna fare attenzione alle cause e a dove possono portare. La ragionevolezza direbbe che la soluzione legale all'infinito non porta risultati, occorre una soluzione sindacale".
Quanto ai dissensi manifestati più volte dalla Fiom rispetto alla linea generale e alla richiesta giunta anche dagli altri sindacati di usare il pugno di ferro, Camusso ha puntualizzato che "non esistono sanzioni disciplinari o espulsioni e chi cerca o provoca rotture dentro o fuori da noi non ha capito nulla. Per noi gli iscritti ala Fiom sono iscritti alla Cgil e chi cerca quello, ha sbagliato strada. Penso, tuttavia - ha aggiunto - che in una organizzazione confederale può esistere una divergenza di vedute su alcuni punti ma non un dissenso strutturale. Questo è un problema che si deve risolvere".

giovedì 21 luglio 2011

Rinaldini: "Cosa sta succedendo in CGIL?"

Dalle strutture della CGIL ci segnalano che viene negata all'Area programmatica la CGIL che Vogliamo la possibilità di pubblicare volantini e materiali a sostegno del giudizio negativo all'accordo confederale del 28 giugno che prevede, tra l'altro, le deroghe contrattuali e nega il voto delle lavoratrici e dei lavoratori sugli accordi aziendali.
Siamo all'inverosimile di una consultazione in corso nella quale non vengono presentate le diverse posizioni espresse nel Direttivo della CGIL Nazionale ma solo quelle di maggioranza e, adesso, viene perfino negata la stessa possibilità di esercitare pubblicamente il dissenso utilizzando risorse che sono di tutta l'Organizzazione, maggioranza e minoranza. Il gruppo dirigente della CGIL e la Segretaria generale si stanno assumendo per intero la grave responsabilità di negare la democrazia nella vita interna. dell'Organizzazione con una consultazione che si svolge senza alcuna regola e forma di controllo concordata,dove tutto viene deciso e gestito da una parte, seppure maggioritaria dell'Organizzazione.
La CGIL che Vogliamo chiede che i lavoratori e le lavoratrici iscritti/e alla CGIL si possano esprimere consapevolmente e liberamente nelle assemblee di consultazione sull'accordo del 28 giugno.
Perché mai una libera espressione di voto fa tanta paura alla maggioranza della CGIL?

Gianni Rinaldini,coordinatore nazionale de La CGIL che Vogliamo

lunedì 18 luglio 2011

Sentenza Fiat Pomigliano: può saltare l’accordo del 28 giugno e sarebbe una buona notizia per i lavoratori

Come al solito la grande stampa e la grande tv, hanno inizialmente fatto propaganda per la Fiat, spiegando che la Fiom aveva perso e che le ragioni dell’azienda erano state accolte. In particolare il giornale di famiglia, La Stampa, ha addirittura taciuto nei titoli la condanna per antisindacalità della Fiat. Poi, con un imbarazzo ben visibile, gli stessi giornali han dovuto dare notizia dei malumori e delle minacce di Marchionne contro la sentenza. Sentenza che è sicuramente contraddittoria, ma che comunque rappresenta un ostacolo enorme per la linea Fiat di distruzione dei diritti sindacali.
Da un lato, infatti, il giudice ha dato ragione alla Fiat sulla legittimità dell’accordo separato per Pomigliano e quindi anche per quelli successivi. In realtà il giudice semplicemente non ha accolto il ricorso di illegittimità da parte della Fiom nazionale su quegli accordi, mentre rimane tutto lo spazio per le cause individuali che i lavoratori intenderanno presentare per rivendicare i propri diritti contro la Newco. D’altro lato, però, la sentenza ha condannato con chiarezza il comportamento antisindacale della Fiat, affermando che la Fiom non può essere esclusa dai diritti sulla rappresentanza in fabbrica. Nella sostanza la sentenza del giudice mette in discussione uno dei cardini della strategia antisindacale della Fiat, la cosiddetta esigibilità degli accordi, affermando che un sindacato che si oppone all’accordo, in questo caso la Fiom, non può essere escluso dalla rappresentanza aziendale. D’altra parte per la Fiat la pace sociale e il divieto di sciopero sono indispensabili per imporre le terribili condizioni di lavoro previste dall’accordo. Per questo l’azienda ha fatto sapere che sono sospesi gli investimenti a Torino, peraltro meno di un decimo di quelli inizialmente previsti per il piano Fabbrica Italia che è scomparso nel nulla. Magari è proprio una scusa, ma resta il fatto che la Fiat non accetta più un sindacalismo libero nelle proprie aziende.
A questo proposito gli avvocati dell’azienda hanno presentato in tribunale, a proprio sostegno e difesa, l’accordo del 28 giugno firmato da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. E’ la prima volta che accade e questo atto significativamente smentisce chi aveva pensato e detto che la Fiat fosse contro l’accordo interconfederale. In realtà l’unico problema che ha l’azienda è che quell’accordo non è retroattivo. Se infatti quell’accordo fosse già operativo, la Fiom potrebbe entrare negli stabilimenti Fiat solo accettando gli accordi separati e impegnandosi a rispettarli. Quell’accordo istituisce un mostruoso maggioritario sindacale, per cui gli accordi firmati dalla maggioranza dei sindacati impongono obbedienza anche ai sindacati di minoranza non firmatari. Per questo è stato definito il “porcellum sindacale”. La Fiat ha tentato di far sì che fosse il giudice a rendere retroattivo quell’accordo, ma non c’è riuscita. La sentenza assegna alla Fiom il diritto alla rappresentanza, anche se non firmataria dell’intesa di Pomigliano. 
A questo punto è evidente che o passa la linea Bonanni, il quale ha già dichiarato che chiamerà tutta la Cgil e la Fiom a rispondere dell’accordo del 28 giugno, cioè a impegnarsi ad accettare l’accordo di Pomigliano. Oppure, se la Fiom confermerà la propria posizione di non considerarsi in alcun modo vincolata dall’accordo separato, allora l’intesa interconfederale andrà clamorosamente in crisi. Con buona pace del gruppo dirigente della Cgil, che in queste settimane ha diffuso interpretazioni di quell’accordo che sono state brutalmente smentite dalla Confindustria, dalla Cisl, dalla Uil, dalla Fiat nelle stesse aule dei tribunali. Se la Fiom, come noi crediamo, continuerà la lotta contro gli accordi capestro in Fiat, ci sarà un grande beneficio per tutti i lavoratori perché l’accordo del 28 giugno sarà inesigibile alla sua prima uscita. Bisogna allora agire subito per allargare questa incrinatura e far sì che l’accordo interconfederale alla fine salti. Sarebbe la migliore notizia possibile per tutti i lavoratori italiani.

di Giorgio Cremaschi

venerdì 15 luglio 2011

8 milioni di poveri: la coesione nazionale è un puro imbroglio!

Più di 8 milioni di poveri, dice l’Istat, ci sono oggi in Italia. Di questi 3 milioni sono addirittura poverissimi, non in grado cioè di provvedere nemmeno ai bisogni alimentari fondamentali. Su questi 8 milioni di poveri e su tutto il Paese si abbatte la manovra economica voluta dal governo unico delle banche europee. Sarà un terribile massacro sociale che renderà drammatiche le condizioni di vita per milioni di persone, pensiamo solo a chi dovrà rinunciare a una visita medica perché non ha i 10 euro necessari per il ticket o, addirittura, a chi rinuncerà a presentarsi al pronto soccorso per non doverne pagare 25, in caso di codice bianco. 
A questi 8 milioni di persone se ne aggiungeranno altre, coloro che perderanno il posto di lavoro, coloro che vedranno tagliate le retribuzioni, come in questi giorni stanno facendo Fiat e Fincantieri nel nome del legame tra salario e produttività, santificato dal catastrofico accordo tagliadiritti del 28 giugno.
I lavoratori dipendenti e i pensionati pagheranno più tasse, avranno mutui più alti, subiranno un’inflazione che cresce mentre il potere d’acquisto cala. Tutto questo, e ancor di più e peggio, per pagare la speculazione bancaria, per difendere un sistema europeo che non è più difendibile se non a prezzo della distruzione della civiltà del continente. La medicina greca, che sta distruggendo quel paese, viene oggi somministrata, a dosi minori inizialmente, ma crescenti nel tempo, anche all’Italia. Dopo anni di crisi e stagnazione quella medicina per il nostro paese è una catastrofe economica e sociale. Per questo ribadiamo che non ha alcun senso sociale, economico e anche morale parlare di coesione nazionale. Non c’è coesione che tenga quando 8 milioni di persone sono povere mentre il 10% della popolazione italiana detiene una ricchezza impressionante, ancora oggi in crescita. Non c’è coesione tra ricchi e poveri, tra padroni e lavoratori che perdono il posto, tra le banche e la finanza e i bisogni economici e sociali. Non c’è coesione e non ci deve essere, in questa condizione la coesione nazionale è un puro imbroglio. Occorre invece costruire un movimento di lotta che ribalti la coesione voluta dai ricchi e costruisca una vera giustizia sociale, unica condizione per uscire dalla crisi.
Giorgio Cremaschi

giovedì 14 luglio 2011

14 luglio - L'assemblea de La Cgil che vogliamo

«In campo anche dopo». Per “la Cgil che vogliamo”, area di opposizione, che ieri ha tenuto a Roma la sua assemblea nazionale, la battaglia contro l’accordo interconfederale del 28 giugno non si ferma certo al “pronunciamento” dei lavoratori. Intanto, nelle assemblee all’interno dei luoghi di lavoro, i dissidenti non daranno tregua a chi pensa di cavarsela con qualche parola di circostanza e una generica “certificazione” del voto: gli strumenti saranno i “Comitati per il no” all’interno dei posti di lavoro e i “Comitati per la democrazia” a livello territoriale. E’ in ballo una battaglia per la democrazia, infatti, ed anche un modello di sindacato che a questo punto taglia del tutto i ponti con i lavoratori e, come scrivono Bertinotti Ferrara e Cofferati, trasferisce la sovranità da questi agli apparati sindacali. 
Gianni Rinaldini, che ha introdotto i lavori, non ha esitato a definire «atto di irresponsabilità» la sigla dell’accordo interconfederale. E questo per il semplice motivo che non può essere letto fuori dal quadro politico che sta portando al «masacro sociale» della legge di bilancio e che provoca enormi divisioni all’interno del sindacato. Rinaldini, coordinatore dell’area programmatica, ha fatto letteralmente a pezzi quanto sottoscritto dalla Cgil, ponendo questioni «di metodo e di merito». Il medoto, una gestione della procedura che ha portato alla firma, «senza nemmeno la delegazione trattante» e con il vizio orginario della modifica «a colpi di maggioranza» dello statuto della Cgil. Uno schiaffo non solo all’opposizione ma anche alle categorie, che non hanno potuto dire niente. Il merito, la democrazia. Negare il voto ai lavoratori vuol dire aprire «alla balcanizzazione del sindacato». Che non è esattamente quella “ritrovata unità” di cui ha tanto parlata la segreteria nazionale. Rinaldini ha letto in forte continuità con l’accordo separato del 2009 l’intesa del 2011. «Nemmeno nel 2009 si parlava di deroghe, eppure la Cgil lo criticò per questo». 
Tra gli altri, sono intervenuti sia Maurizio Landini che Giorgio Cremaschi, leader della “Rete 28 aprile”. Mentre il leader della Fiom ha espresso la proccupazione che la battaglia contro l’accordo si trasformi in un «pro o contro» la Cgil, Cremaschi ha sottolineato che «questo è un accordo di rottura e non di unità». «L’opposizione all’accordo - ha aggiunto il presidente del Comitato centrale della Fiom - non finisce con la consultazione, peraltro già segnata nelle conclusioni». Pietro Passarino, della segreteria della Cgil di Torino, ha ricordato che lo stesso Bruno Trentin, segretario della Cgil all’epoca della concertazione, rassegnò le dimissioni con la motivazione di «non avere il mandato a chiudere». «In questo caso, invece - ha aggiunto Passarino - siamo al mandato postumo». L’invito è stato a non «sottovalutare la consultazione» e a non «lasciare la Fiom da sola a fare la disobbedienza». Valutazione che fa il paio con quanto hanno sottolineato altri interventi a favore di una opposizione «non in punta di forchetta», come l’ha definita Eliana Como, della Fiom di Bergamo.  
Secondo Maurizio Scarpa, della segreteria nazionale della Filcams, «stiamo andando verso un modello di sindacato che non permetterà più alcuna possibilità di reazione. E’ la chiusura del cerchio».     
Articolo di Fabio Sebastiani, Liberazione, 14 luglio 2011.

FIOM – UILM: 19 lavoratrici Insiel a rischio



mercoledì 13 luglio 2011

La Confindustria smentisce la segreteria Cgil

Ci sono le deroghe, la limitazione al diritto di sciopero e non c’è il voto sui contratti nazionali
La Confindustria in un suo documento ufficiale datato 29 giugno 2011 e firmato dal direttore generale, Usai, smentisce clamorosamente le interpretazioni dell'accordo del 28 giugno date dalla segreteria della Cgil. Per la Confindustria quell'accordo cancella il diritto al voto dei lavoratori tranne che nelle aziende ove ci sono le Rsa, accetta le deroghe al contratto nazionale, colpisce il diritto di sciopero, anche quando un sindacato firmatario non è d'accordo su un'intesa aziendale, e più in generale applica gli accordi separati del 2009 sulla riforma contrattuale. Visto che questo è un testo ufficiale della Confindustria, attendiamo dalla segreteria confederale della Cgil una smentita rivolta alla controparte. Troppo comodo e troppo facile dire a chi non è d'accordo che dà un'interpretazione forzata di quello che è stato firmato. La Cgil non deve dirlo a noi, ma alla Confindustria che non è vero che ha accettato l'accordo del 2009... Attendiamo speranzosi questa smentita delle posizioni padronali da parte della segreteria confederale...

NO ALL'AUMENTO DELL’ETÀ PENSIONABILE DELLE LAVORATRICI DEL SETTORE PRIVATO A 65 ANNI.


giovedì 7 luglio 2011

Cremaschi (Fiom): Camusso fuori dalla Storia Cgil

"Disobbedienza! E' questo lo slogan che l'opposizione interna alla Cgil più dura decide di impugnare dopo il voto del direttivo nazionale".

Giorgio Cremaschi, 7 luglio 2011.

mercoledì 6 luglio 2011

Contratto sempre derogabile, la "tregua" è un colpo ai diritti

 Il sociologo Luciano Gallino non ha dubbi: l'intesa sul lavoro firmata dalla Cgil il 28 giugno scorso «rappresenta uno spostamento a destra». E continua a pensare anche che alla Fiat non dispiacerebbe avere un «pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia».
L'accordo interconfederale con la Confindustria riavvia un processo di contrattazione unitario che pare però preoccupante. Il contratto nazionale non diventa così sempre derogabile?
In effetti il secondo comma dell'art. 7 dell'accordo prevede che in presenza di «situazioni di crisi» o di «investimenti significativi» si possono modificare gli istituti del CCNL. Sia le une che gli altri possono venire definiti in cento modi diversi, in specie nelle piccole e medie imprese. Perciò, di fatto, in tema di prestazioni lavorative, orari e organizzazione del lavoro, il CCNL è derogabile praticamente senza limiti. 
L'accordo non toglie quasi definitivamente la possibilità per i lavoratori di votare intese firmate dai vertici sindacali?
Non mi pare vi siano dubbi. Quando un accordo aziendale è firmato da una rappresentanza certificata, i lavoratori non hanno più la possibilità di esprimere il loro consenso o dissenso in merito ad esso. In astratto, potrebbero anche organizzarsi per esprimerlo, ma stando all'accordo interconfederale esso non avrebbe alcun valore. Paradossalmente, il principio per cui i lavoratori hanno comunque il diritto di esprimersi mediante il voto è ribadito con particolare forza dallo statuto della stessa Cgil. 
Secondo lei, perché la Cgil oggi ha firmato quel che nella sostanza è la stessa cosa che non ha firmato nel 2009? 
Da anni la Cgil ha tutti contro: le altre due confederazioni, il governo, il 90 per cento degli accademici che si occupano di lavoro, i media, perfino gran parte dei politici del centro-sinistra. L'accordo in parola rappresenta senza dubbio uno spostamento verso destra, ma in un contesto politico e culturale che nonostante la crisi, o meglio proprio per sfruttare la crisi, appare sempre più virare a destra, un'organizzazione così vasta e complessa non può non avvertire anche al proprio interno spinte per portarsi su posizioni meno distanti da quelle dominanti. 
Quale è il suo giudizio sulle Rsa? 
I membri delle Rsu sono eletti dai lavoratori. I membri delle Rsa sono designati dai sindacati, anche se minoritari. In altre parole le Rsu sono una forma, imperfetta quanto si vuole, di democrazia diretta o partecipativa. Le Rsa sono un'ennesima forma di democrazia per delega dall'alto. Sono per la prima forma di democrazia. 
La centralità che assume sempre di più la contrattazione aziendale non rischia di accentuare la tendenza alla frammentazione del sistema industriale italiano?
Su questo non c'è il minimo dubbio. Un sistema che è già di per sé il più frammentato della Unione europea a 17 ed è molto meno organizzato, ad onta delle infinite discussioni su distretti in forme di cooperazione interaziendali come avviene invece con i «poli di competitività» in Francia, le «reti di competenza» in Germania, ecc. 
Come valuta la «tregua», in sostanza la sospensione del diritto di sciopero?
E' un altro colpo inferto alla libertà di associazione e di azione sindacale. 
Cosa prevede nelle relazioni fra Fiat e Fiom, se il prossimo 18 luglio il tribunale desse ragione al sindacato sul contratto di Pomigliano?
Ho l'impressione che alla Fiat non spiacerebbe avere un pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia. Il suo centro produttivo è ormai in Brasile e in Messico, dove a Toluca vengono costruite sia la 500 che i macchinoni Chrysler da vendere in Italia e in Europa con la placchetta Lancia o Alfa Romeo. Nel 2010 la Fiat ha prodotto in Italia meno auto di quante non ne abbiano prodotte al loro interno Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca e Serbia. Ritornare ad essere, dall'ottavo, anche solo uno dei primi tre costruttori è un impegno di enorme portata. Se ai lavoratori italiani e alla Fiom potesse venire appioppata definitivamente l'accusa di essere inaffidabili, poco produttivi, renitenti alle forme moderne di organizzazione del lavoro, il disegno americanocentrico del Lingotto ne sarebbe facilitato.

Il Manifesto, mercoledì 06 luglio 2011

La Cgil è in campo. Minato

Il direttivo approva l’accordo con Cisl, Uil e Confindustria con 117 sì, 21 no e un astenuto. Ora la consultazione degli iscritti Fiom e minoranza denunciano una svolta pericolosa per democrazia e i diritti dei lavoratori

Il direttivo nazionale della Cgil ha approvato a larga maggioranza il dispositivo con cui si sottoscrive l’accordo siglato con Cisl, Uil e Confindustria con cui si modificano profondamente le norme che regolano democrazia e rappresentanza nei posti di lavoro, la natura e il valore dei contratti nazionali e persino alcuni diritti fondamentali, come quello di sciopero. 117 voti favorevoli, 21 contrari e un solo astenuto sanciscono un cambiamento di stagione e - secondo chi si è opposto alla firma - la natura stessa del sindacato. Dato l’investimento fatto dalla segreteria e personalmente da Susanna Camusso sul «ritorno alla normalità» della Cgil nel rapporto con le altre confederazioni chiamate fino a ieri «complici» e con la Confindustria, il voto di ieri è stato di fatto un «voto di fiducia» alla segretaria generale. Anche i dubbi e i mal di pancia, che non mancano, sono stati messi da parte e le percentuali raccolte dai sì e dai no rispecchiano gli schieramenti usciti dal congresso nazionale.
Ora, il testo dell’accordo insieme al dispositivo approvato che lo «interpreta» saranno messi a disposizione di tutti gli iscritti alla Cgil che entro il 17 di settembre dovranno esprimersi anch’essi con un voto. Sembra escluso che Cisl e Uil accettino una consultazione generale dei loro iscritti e a nessuno - tranne alle minoranze Cgil - è venuto in mente di consegnare la decisione finale a tutti i lavoratori interessati, con o senza tessere sindacali. Il «perimetro» interessato, cioè gli iscritti alla Cgil che potranno dire la loro, comprende i dipendenti delle aziende che aderiscono a Confindustria. Quel che gli iscritti non potranno conoscere è il documento della minoranza congressuale, perché nelle assemblee nelle fabbriche e negli uffici il loro documento non avrà cittadinanza. In teoria, il segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe andare alla Fiat o in Fincantieri a difendere la posizione contro cui ha votato e si è battuto. O forse alle assemblee la relazione sarà fatta solo dai dirigenti fedeli alla linea. Sembra di leggere Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler: «La vostra fazione, cittadino Rubasciov, è stata battuta e disfatta. Volevate spezzare il Partito, pur dovendo sapere che una scissione nel Partito avrebbe significato la guerra civile. Sapete dello scontento fra i contadini, che non hanno ancora imparato a comprendere il senso dei sacrifici imposti loro. In una guerra che può scoppiare da qui a qualche mese, tali correnti possono portare a una catastrofe. D’onde la necessità imperiosa per il Partito di essere unito. Esso deve essere come fuso in una colata, tutto cieca disciplina e fiducia assoluta. Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov, avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero, dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l’ultimo servizio che il Partito vi chiede».
A decidere le modalità della consultazione saranno le categorie interessate (quelle del «perimetro») e le assemblee dovranno svolgersi entro il 17 di settembre, per consentire l’elaborazione dei risultati non oltre il 20 e, dunque, la formalizzazione della firma della Cgil in calce all’accordo. Susanna Camusso ha sostenuto il testo sottoscritto con la motivazione che finalmente si chiude la stagione degli accordi separati. Tesi contestata dalla Fiom e dalla minoranza, secondo cui l’unica garanzia per evitare che si continuino a firmare contratti e accordi di parte è il diritto di voto di tutti i lavoratori interessati. È proprio questo uno dei punti critici dell’accordo, un punto che concerne la democrazia: mentre si raccolgono le firme per un referendum che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, questo diritto viene negato ai lavoratori. «Forse i lavoratori non sono cittadini? si chiede il segretario generale della Fiom Maurizio Landini. Il portavocie della «Cgil che vogliamo», Gianni Rinaldini, aveva chiesto una gestione «più democratica» della consultazione tra gli iscritti ma è stato respinto con perdite.
Dal principio «una testa un voto» si passa alla mediazione sindacale ma, sostiene Susanna Camusso, «c’è sempre una relazione con i lavoratori e la loro rappresentanza». Più difficile invece sostenere che il contratto nazionale non si tocca, visto che le deroghe sono previste in tutti i casi di crisi, ristrutturazione e investimenti. Cioè sempre. Inoltre, ricorda Rinaldini, se nel 2009, quando fu siglato un accordo separato sul sistema contrattuale da tutti tranne la Cgil, si fossero applicate le regole previste con l’accordo unitario varato ieri dal direttivo, anche senza la firma della Cgil che non ha il 50% più uno della rappresentanza sarebbe passato e avrebbe avuto valore generale. La «tregua» (il divieto di sciopero), sostiene il dispositivo, impegna «soltanto» le organizzazioni firmatarie dell’accordo e non i singoli lavoratori.
Ieri di fronte alla sede nazionale della Cgil, in Corso d’Italia a Roma, un gruppo di delegati «autocovocati» ha manifestato contro l’accordo con uno striscione in cui era scritto «No al patto di resa finale, il sindacato non si deve suicidare». In alcune fabbriche, in Toscana e in Lombardia, c’è anche chi ha scioperato contro l’accordo unitario.
L’ex segretario generale Guglielmo Epifani ha dato il suo appoggio alla scelta della segreteria, al contrario di Giorgio Cremaschi che ha messo in fila tutte le ragioni di un voto contrario al direttivo.

di Loris Campetti, Il Manifesto

martedì 5 luglio 2011

DOCUMENTO FINALE DEL COMITATO DIRETTIVO NAZIONALE CGIL DEL 5/7/2011

Democrazia irriconoscibile - Appello di Bertinotti, Cofferati, Ferrara

Allarma la falla che si è aperta nella società italiana e che incrina alcuni dei principi economico-sociali della nostra democrazia. A provocarla è l’intesa intervenuta tra Confindustria, da una parte e CGIL, CISL e UIL dall’altra. Le maggiori organizzazioni sindacali italiane intenderebbero riavviare così un processo unitario sulla contrattazione, auspicato ed auspicabile. Ma la partenza è preoccupante, la direzione sbagliata. L’intesa sancisce una compressione intollerabile dei diritti dei lavoratori e uno snaturamento della natura stessa del sindacato. 
Il diritto dei lavoratori di decidere con il proprio voto sugli esiti della contrattazione risulta precluso. Dalla fase iniziale del procedimento di formazione delle piattaforme fino alla loro conclusione, qualsiasi intervento delle lavoratrici e dei lavoratori è precluso. Scompare il diritto di pronunziarsi sui contenuti delle piattaforme e a indicare i margini del mandato. Nessuna direttiva può essere espressa, nessuna influenza esercitata, nessun orientamento suggerito sull’andamento della trattativa nelle fasi successive. La definizione dell´accordo e la sua sottoscrizione escludono qualsiasi pronuncia dei destinatari delle clausole contenute, siano o non iscritti ai sindacati. Il contratto collettivo nazionale viene in tal modo a configurarsi come atto normativo avente ad oggetto prestazioni e controprestazioni, il cui contenuto, la cui determinazione concreta (entità del salario, orari, tempi, modalità delle prestazioni e della vita in fabbrica) saranno decise, per le lavoratrici e i lavoratori, dai sindacati senza nessun intervento previsto dei lavoratori. Come se il diritto al salario – quello sancito, per esempio, dall’articolo 36 della Costituzione – pur spettando alla singola lavoratrice, al singolo lavoratore, potesse essere disponibile, quanto a determinazione, senza che possa esprimersi il titolare legittimo.
La natura del sindacato, e delle rappresentanze aziendale unitarie, di strumento dei lavoratori viene distorta, almeno per quanto attiene al profilo contrattuale. Se ne cambia il ruolo: quello di mandatario dell’esercizio del potere di negoziare i contenuti del contratto, per conto dei lavoratori e sulla base del mandato che gli è conferito, si trasforma in quello di titolare del potere contrattuale tout court. Lo si trasforma sopprimendo l’obbligo, una volta definito il contratto, di far decidere alle lavoratrici e ai lavoratori, titolari unici ed indefettibili del diritto a contrarre, su quel che si è ottenuto. Come se il contratto non avesse ad oggetto il salario e il carattere del lavoro, e col salario e il carattere del lavoro la qualità della condizione umana nella fabbrica ed oltre la fabbrica. Togliendo così alle lavoratrici ed ai lavoratori la possibilità di definire la propria condizione.
Sulla centralità della funzione dei sindacati per la democrazia economica, per la tutela dei diritti e la dignità del lavoro, per lo sviluppo della persona umana non abbiamo mai avuto dubbi. Abbiamo però ritenuto e riteniamo che la rappresentanza sindacale, perché specificamente inerente agli interessi economici dei lavoratori e delle lavoratrici nei loro rapporti di lavoro, debba essere effettiva, credibile, vissuta, verificabile. Non è come quella politica che si conferisce ogni quattro o cinque anni, che ha carattere generale ed è sanzionabile solo con il rifiuto della rielezione, ma pur trova nei referendum abrogativi il controllo sugli atti dei rappresentanti. Iscriversi ad un sindacato non comporta assolutismo fiduciario, non comporta delega senza mandato specifico sui contenuti del contratto di lavoro.
Ma è proprio sul contratto nazionale di lavoro, sulla configurazione che ne risulterebbe dall’intesa, che le preoccupazioni si aggravano. Nel contratto nazionale viene inserita una clausola dissolvente, quella delle deroghe, che sono tali ma in mentite spoglie. È dissolvente questa clausola per come configura le deroghe, non ne prevede limiti. Intanto, i fattori, gli stimoli, le pressioni per le deroghe si moltiplicheranno in ragione corrispondente ai condizionamenti, alle sollecitazioni, ai ricatti che sarebbero esercitati col successo derivante dalla flessione della solidarietà di classe che la deroga determina. La deroga, infatti, è dissolvente la stessa ragion d’essere del contratto collettivo che è quella di opporre alla parte più forte del contratto di lavoro la forza complessiva dei lavoratori. Forza che verrebbe infranta o, almeno, compressa dall´effetto negativo della deroga. Il contratto nazionale viene così abbattuto proprio nella sua ragione fondativa e quando più ce ne sarebbe bisogno.
Un ultimo ma non minore timore, non poca preoccupazione ci suscita la parola “tregua” usata dall’intesa per nascondere la rinunzia all’esercizio del diritto di sciopero. Quale altra possibilità, quale altro strumento di difesa, da usare o anche solo da trattenere nella sua disponibilità ed integrità, resterebbe ai lavoratori a fronte del potere sempre crescente ed invasivo del capitale ?
Riassumiamo in queste righe tutta la nostra apprensione di vecchi militanti del movimento dei lavoratori, la esprimiamo ai dirigenti della CGIL e, con pari fervore, a quelli della altre organizzazioni sindacali, ai leaders dei partiti democratici, a tutti coloro che sentono il dovere di difendere le conquiste sociali che hanno onorato la democrazia italiana. Con una preghiera: ascoltateci, e soprattutto ascoltate le lavoratrici e i lavoratori. Chiediamo, infine, a tutte le forze politiche democratiche, progressiste e di sinistra di dar vita ad uno spazio pubblico aperto a tutti per discutere questo passaggio storico nelle relazioni sociali del paese. Bisognerebbe essere consapevoli che, senza l’assunzione di una democrazia compiuta, le sinistre, in questa nuova fase, risulterebbero irriconoscibili. L’accordo tra la Confindustria ed i sindacati non è questione da poter essere confinata in una ordinaria vicenda sindacale, essa interroga direttamente e crudamente anche la politica.
Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara

Il Manifesto, martedì 05 luglio 2011

lunedì 4 luglio 2011

Accordo interconfederale fra Confindustria e CGIL, CISL e UIL del 28 giugno 2011 di Eugenio Orso

Che la situazione in cui versa il lavoro in Italia è molto grave, tutti se sono accorti, soprattutto dopo l’innesco della prima crisi economica globale, che ha cominciato a mordere duramente dalla seconda metà del 2008, ma tutto il decennio precedente, dal punto di vista delle cosiddette relazioni industriali, si è sviluppato nel segno della de-emancipazione del lavoro e di quella inversione nella distribuzione del prodotto sociale – a vantaggio del capitale e a scapito dei lavoratori, iniziata negli ormai lontani anni ottanta.

Gli obbiettivi globalisti nella penisola, come altrove nell’occidente e nel nord del mondo, si sono concretizzati nella svalutazione del lavoro, sia dal punto di vista culturale sia da quello economico e dei diritti, sotto il segno della sostituzione del lavoro tutelato, riconducibile alla persona come sua qualità fondamentale e non separabile da essa, con la merce-lavoro, “scorporata” dalla persona e considerata un servizio come qualsiasi altro, da utilizzare liberamente nel processo produttivo.
A riprova di quanto è decisivo questo attacco al lavoro, e di quanto è consustanziale all’affermazione delle logiche del nuovo capitalismo, è sufficiente riportare le parole di Luciano Gallino, tratte dal primo capitolo del libro Il Lavoro non è una merce:
Nel nostro paese come in altri dell’Unione Europea, Francia e Germania in testa, organizzazioni e personaggi autorevoli chiedono ogni giorno, ormai da alcuni lustri, che sia accresciuta la «flessibilità del lavoro». La richiesta si presenta in ogni contesto immaginabile. La avanzano o la difendono, nel corso dell’intero periodo, i saggi dei maggiori centri di ricerche economiche; i discorsi del governatore della Banca d’Italia, non importa se quello in carica o quello di prima; le dichiarazioni dei presidenti della Confindustria; gli articoli di fondo dei maggiori quotidiani, le pagine dei più reputati organi economici, a partire dal «Sole-24 Ore»; le interviste tv degli uomini politici del centro-destra come del centro-sinistra; le dichiarazioni di ministri economici e di presidenti del Consiglio d’una dozzina di governi almeno.
La lunga citazione che precede, oltre a segnalarci che il professor Gallino è un indomabile avversario della flessibilità e della precarietà del lavoro imposta dal nuovo capitalismo, e che ha ben compreso l’ampiezza dell’attacco de-emancipatore in corso, ci chiarisce come in questa operazione storica contro il lavoro e le classi subalterne tutti sono coinvolti, dagli esponenti della politica liberaldemocratica di ogni schieramento ai giornalisti, dagli ambienti bancari alle associazioni industriali e persino, dobbiamo aggiungere, una parte del sindacato, trasformatosi in utile supporto alla classe globale, ai suoi referenti politici ed economici locali e quindi al capitalismo finanziarizzato contemporaneo.
Alla fine di giugno di quest’anno, dopo i continui ricatti di Marchionne, i referendum ultimativi fra i lavoratori Fiat che hanno votato con la pistola alla tempia [nella via crucis che porta da Pomigliano all'ex Bertone, passando per Mirafiori], dopo gli accordi separati escludenti la Fiom e la CGIL, dopo i ripetuti attacchi al Contratto collettivo nazionale di lavoro attraverso le deroghe, sembra che si sia consumato il blitz definitivo, che a causa della segreteria Camusso e del suo agire contro gli stessi rappresentati, oltre che contro la Fiom per isolarla e “normalizzarla”, ha coinvolto l’intera Confederazione.
Erano quarant’anni che si attendeva un accordo del genere, hanno scritto giubilando sul Sole-24 Ore, e pressoché tutti i gruppi ed i soggetti che secondo Gallino chiedono quotidianamente, da anni, più flessibilità del lavoro – e quindi più precarietà e meno diritti, hanno espresso soddisfazione in proposito.
La lunga marcia capitalistica contro il lavoro, contro la democrazia in fabbrica e la praticabilità del diritto di sciopero, e perciò diretta contro la stessa persona umana, le sue esigenze di vita e le sue imprescindibili qualità, sembra trovare un approdo importante, qui, in Italia, dove la distruzione dei diritti dei lavoratori è in fase avanzata, e questo grazie all’accordo del 28 di giugno fra Confindustria, CGIL, CISL e UIL, che impone la visione del capitale nelle relazioni industriali.
E’ chiaro che l’adesione della Camusso all’accordo è volta a superare la resistenza, fino ad ora mostrata dal principale sindacato italiano, nei confronti delle generali politiche contro il lavoro e delle controriforme che sono in atto, ed è un azione a sorpresa che ci rivela fino in fondo il ruolo di “quinta colonna” svolto dalla pessima Camusso, al vertice della confederazione sindacale resistente, palesando finalmente i suoi veri scopi, che sostanzialmente si possono così riassumere:
1)     Trasformare la Confederazione in una centrale sindacale gialla, esattamente come lo sono da tempo CISL e UIL, nel nome di una ritrovata ma ambigua “unità sindacale” che è soltanto un’unità fra segreterie in combutta, il che implica la neutralizzazione dell’opposizione interna ed in particolare di quella Fiom che è irriducibilmente “ribelle”.
2)     Aderire in posizione subordinata alla visione del lavoro come merce, espressa dal nuovo capitalismo del terzo millennio, mandando in soffitta definitivamente conflittualità ed antagonismo per imporre ai lavoratori la resa, e cioè, secondo gli slogan funzionali a questo capitalismo, “coesione sociale” e “collaborazione”.
Il moderato e per qualche verso attendista Guglielmo Epifani, segretario CGIL di matrice socialista che ha preceduto la Camusso, non avrebbe avuto sufficiente “pelo sullo stomaco” per condurre una simile operazione, trattandosi comunque di persona onesta e in qualche modo coerente.
L’adesione di Camusso all’accordo in questione, che sembra dettato da qualche board capitalistico dell’epoca nonostante alcuni riferimenti retorici al lavoro e all’occupazione, ha scatenato salutari reazioni all’interno della CGIL [ad esempio quelle di Rinaldini], ed in particolare la forte opposizione della Fiom, nelle persone di Landini e di Cremaschi, ed impone a tutti i lavoratori – non soltanto Fiom, che vogliono conservare l’autonomia e le capacità antagonistiche del sindacato letteralmente di insorgere, per fare pressioni sul direttivo, mettere in minoranza la Camusso, costringerla alle dimissioni, e per andare infine ad un congresso straordinario, che potrà liberare l’unico sindacato rimasto in Italia dal pericolo di una rapida “normalizzazione capitalistica”.
Soltanto la Fiom, a quanto sembra, sottoporrà questo accordo a referendum, interpellando i diretti interessati, ma è chiaro fin d’ora che Susanna Camusso, per ciò che sta facendo sulla pelle dei lavoratori italiani, deve andarsene al più presto, perché altrimenti, questa volta, se ne andrà l’intera Fiom.
I lavoratori italiani, di ogni settore e in ogni condizione professionale, non hanno certo bisogno nell’attuale situazione storica di un nuovo Bonanni [questa volta in gonnella], ma di rappresentanti veri, di delegati eletti e non imposti, di un rafforzamento della democrazia di base e di una difesa a spada tratta delle tutele ancora esistenti, a partire dal Ccnl.
Particolarmente vergognosa, ma in qualche modo rivelatrice, è stata la segretezza che ha circondato per qualche giorno in CGIL il testo dell’intesa, e in ciò è evidente la cattiva coscienza di Susanna Camusso, che ha fatto il blitz di vertice senza alcuna volontà di discutere ed informare, mantenendo la sostanza dell’accordo il più a lungo possibile riservata.
Indipendentemente dall’esito che avrà la battaglia interna alla CGIL per sventare le devastanti manovre di vertice della segreteria Camusso, che con buona probabilità non ha una maggioranza di base in molte federazioni, per rendersi conto del rischio al quale saranno esposti tutti i lavoratori italiani è necessario considerare la sostanza dell’accordo, leggendolo fra le righe.
L’intesa fra la Confindustria, la Camusso e i gialli, che in realtà è un’imposizione da far digerire al mondo del lavoro, rivela di essere tale fin dalla premessa, in cui si chiarisce che è obiettivo comune l’impegno per realizzare un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di produttività e competitività tali da rafforzare il sistema produttivo, e poi che la contrattazione deve […] favorire le diversità della qualità del prodotto e quindi la competitività dell’impresa, e la strada maestra per aumentare “produttività” e “competitività” squisitamente capitalistiche è quella del superamento, con un'ulteriore manovra di aggiramento, del contratto collettivo nazionale, poiché fermo restando il ruolo del contratto collettivo nazionale di lavoro, è comune l’obiettivo di favorire lo sviluppo della contrattazione collettiva di secondo livello, e quindi diventa necessario rimuovere progressivamente, o aggirare astutamente, la garanzia rappresentata per i lavoratori dal contratto nazionale stesso.
I modi e le forme che possono portare al predetto risultato sono descritti di seguito nel testo dell’accordo ed implicano, in estrema sintesi: A) il ricorso alle deroghe al Ccnl ed alla contrattazione aziendale come utile “cavallo di troia” per flessibilizzare il fattore-lavoro, B) la rimozione di una fastidiosa democrazia di base che consentirebbe ai lavoratori di dire la loro sugli accordi che li riguardano, mentre invece la merce-lavoro deve essere muta e non interferire nel processo produttivo, e C) la limitazione del diritto di sciopero, che però è pur sempre un diritto costituzionalmente garantito.
Pur nella persistenza del contratto collettivo nazionale, al quale, secondo le parti, resterebbe la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori ovunque impiegati nel territorio nazionale, si conviene che i contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali firmatarie del presente accordo operanti all’interno dell’azienda se presenti le rappresentanze sindacali di natura elettiva [le RSU], mentre soltanto se sono presenti le rappresentanze sindacali costituite ex articolo 19 della Legge n. 300 del 1970 [nota come Statuto dei Lavoratori], e quindi non di natura elettiva [le RSA], i contratti collettivi aziendali approvati da tali rappresentanze non elette devono essere sottoposti al voto dei lavoratori.
Si cerca, con tale accordo, di evitare il più possibile che i diretti interessati ai contratti aziendali – i quali diventeranno uno strumento importante da utilizzarsi contro i lavoratori e i loro diritti – possano votare ed esprimersi.
Ma ciò non basta, perché in seguito le parti, fra le quali vi è purtroppo Susanna Camusso, precisano che tutti i contratti collettivi aziendali approvati in un simile contesto, i quali definiscono clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva [di secondo livello, n.d.s.], hanno effetto vincolante per i sindacati firmatari dell’accordo, nell’intento di impedire gli scioperi.
Sono due i “buoni” risultati che la Camusso ha portato a casa, per fare una sorpresa a tutte le federazioni della CGIL e non soltanto alla combattiva Fiom:
1)     Limitazioni del diritto di voto per i lavoratori.
2)     Limitazioni del diritto di sciopero costituzionalmente garantito.
Già questi aspetti sono tali da scatenare le proteste dei lavoratori e dei loro rappresentanti di base, ma non è finita qui, in quanto nel prosieguo del testo si affronta la delicata questione delle deroghe al Ccnl, aprendo la strada a specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, le quali, come è facile immaginare fin d’ora, non potranno essere che peggiorative.
Il tentativo, che potrà riuscire in pieno se non si sventerà la manovra all’interno della CGIL, è quello di superare, aggirare, neutralizzare il contratto nazionale, approfittando della crisi strutturale capitalistica che sta colpendo in molte parti del mondo, nonché della disoccupazione/ sotto-occupazione dilaganti, e per tale motivo si stabilisce quanto segue:
Ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato all’azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le organizzazioni sindacali territoriali firmatarie del presente accordo interconfederale, la fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro.
Dal precedente passo dell’intesa si comprende che vi sarà la più ampia possibilità di deroga, a vantaggio delle direzioni aziendali, con significative modifiche, rispetto alle tutele del Ccnl, che metteranno in discussione tutto, dalle turnazioni alle pause, dagli orari alle mansioni lavorative, e se si è cercato in questo modo di compiacere Marchionne [deroghe in presenza di investimenti significativi, si legge con chiarezza nel testo], questo si è dichiarato subito insoddisfatto, giudicando l’accordo ancora insufficiente, perché ai suoi unici referenti, cioè agli Investitori ed ai Mercati, non basta mai.
E’ chiaro che il contratto nazionale, il quale ancora per un po’ continuerà ad esistere, rappresenterà la condizione di miglior favore per i lavoratori, mentre il dilagare delle deroghe ai suoi istituti creerà situazioni di nuova e maggiore flessibilità unicamente a vantaggio del capitale.
Infine, le parti si appellano al Governo [maiuscola orwelliana nel testo] perché incentivi con riduzioni di tasse e contributi la contrattazione di secondo livello e, di conseguenza, le voci variabili stipendiali defiscalizzandole, mostrando così di aderire, in un certo qual modo, ad una visione “berlusconiana” degli sgravi, che trascura completamente la questione sociale e redistributiva, legando l’incentivo fiscale alla produttività, alla redditività, all’efficienza e all’efficacia, ed in definitiva all’arbitrio delle direzioni aziendali, in un’ottica squisitamente aziendalistica a vantaggio esclusivo della proprietà d’impresa.
Come dire: tutto agli Investitori ed ai Mercati e niente ai lavoratori, e dato il tenore dell’accordo interconfederale letto fra le righe, anche su questo le parti sembrano convenire in pieno.
Un bel accordo ha firmato Susanna Camusso, con un blitz che cancella le precedenti posizioni della CGIL, ed ora il problema che abbiamo davanti è duplice, in quanto è necessario e urgente sia liberarsi di questo accordo, per salvare la garanzia rappresentata dal contratto collettivo nazionale, sia liberarsi di Susanna Camusso prima che possa fare danni irreparabili.

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