La nomina della Camusso a segretario generale della Cgil non ha messo fine alla dialettica interna. Anzi, le sue dichiarazioni programmatiche e soprattutto la «pratica» (è in corso una trattativa sulla «produttività» con Confindustna) sembrano accentuare le differenze. Gianni Rinaldini, coordinatore dell'area «La Cgil che vogliamo», stavolta mette da parte la diplomazia.
Quali strade per il sindacato, ora?
La Cgil è a un bivio. Tra la necessità di affermare una pratica contrattuale e rivendicativa e quella di rovesciare ciò che Confindustria, Cisl, Uil e governo hanno costruito nel corso di questi anni come risposta alla crisi. E' necessario fare un'operazione di verità: stanno attuando con assoluta coerenza la distruzione della struttura dei diritti (ultimo esempio il Collegato lavoro) e del contratto. Non siamo - anche nei rapporti sindacali - di fronte a divergenze su questa o quella rivendicazione; ma ad un progetto fondato sulla riduzione del contratto nazionale a puro elemento di «cornice generale»; dove gli aumenti retributivi sono legati a questo o quell'indice inflazionistico, e i diritti vengono nel frattempo demoliti sul piano legislativo. E tutto il resto, a partire dall'orario di lavoro, viene derogato alla contrattazione di secondo livello. Oppure, come variante, queste materie contrattuali vengono trasferite a licello aziendale o territoriale. Mentre la crescita della parte retributiva viene relegata a livello aziendale, nella forma totalmente variabile legata alla produttività, agevolata con misure fiscalo.
Ci sono già passi concreti?
Ritengo grave che quest'ultimo aspetto sia presente nell'accordo tra le parti sociali fatto come proposta al governo, che non a caso - con Sacconi - ha già detto che sarà recepito. Nello stesso tempo, cresceranno ovunque, sotto diverse forme, gli enti bilaterali, che assumono sempre più caratteristiche sostitutive- non «integrative» - di parti rilevanti dello stato sociale. Si può dire, al momento, che tutto quanto era previsto nel «piano Maroni» del 2001 - completato dal Libro bianco di Sacconi - è stato fatto. Manca solo il preannunciato «statuto dei lavori».
Dove sbaglia l'attuale dirigenza?
Rispetto a questo scenario, la Cgil non pub continuare a balbettare con la logica della «riduzione del danno». Deve definire una propria idea, proposta e pratica rivendicativa coerente, fondata sulla riconquista del contratto nazionale e l'autonomia negoziale, costruendo una mobilitazione e una reale iniziativa in tema di diritti, tutele, occupazione, democrazia.
Non è utile Il tavolo ora aperto?
Un tavolo sulla produttività, in questo quadro, è completamente privo di senso; la prima cosa che dovrebbe chiedere un sindacato è il blocco dei licenziamenti. Come peraltro hanno fatto altri sindacati in Europa, a cominciare dalla Germania. Qui c'è già l'11%o di disoccupazione. L'elemento centrale, e per me assolutamente discriminante, è il terreno della democrazia. Tanto più di fronte a un pluralismo sindacale. Si può articolare in materia una proposta, che però non può prescindere da un dato: i lavoratori debbono potersi esprimere tramite referendum, anche su posizioni diverse, sulle loro piattaforme e i loro contratti. Questo non è in realtà un dato scontato nemmeno per la Cgil. Perché so bene - visto in quanti parlano di «innovazione» e «modernità» - che si tratta di affermare la democrazia come diritto dei lavoratori e non come proprietà delle organizzazioni sindacali. Questo è un elemento di assoluta novità nella storia del movimento operaio. Anch'io negli anni '70 consideravo sbagliato lo strumento del referendum; la nostra cultura d'allora privilegiava il ruolo dell'organizzazione rispetto all'esercizio del voto. E' singolare che tutti quelli che parlano ora di «innovazione» non assumano questo come il vero elemento di novità, l'unico che permette di affermare una vera autonomia delle organizzazioni sindacali.
Ci sarà uno sciopero generale?
Dopo la manifestazione del 27, penso si debba passare attraverso una mobilitazione generale dei lavoratori. Perché non si tratta solo di proclamare lo sciopero, ma di costruirlo con una campagna di massa nei posti di lavoro, le università, le scuole, tra i precari. Per esempio, spiegando cosa combina il «Collegato lavoro» sui diritti, cosa sta succedendo sul piano della contrattazione o sul taglio dei servizi e della spesa sociale. Bisogna porre la Cgil al centro del disagio profondo presente nel paese, che può prendere altre strade, se non trova un riferimento di aggregazione e speranza.
Ma intanto si sta trattando...
Il problema vero, che capisco ma non condivido, è che c'è una profonda contraddizione tra il proclamare uno sciopero generale contro Confindustria e governo e, nel frattempo, proseguire tavoli generali e fare «avvisi comuni» con Confindustria. È per queste ragioni, quindi, che la Cgil si trova davvero di fronte a un bivio. In cui l'aspetto della democrazia, sia nei confronti dei lavoratori che all'interno dell'organizzazione, diventa l'aspetto decisivo. Sono assolutamente convinto che non c'è futuro per organizzazioni di massa come la Cgil, che tengono assieme milioni di lavoratori e pensionati, se non sono fondate su un radicale processo di democrazia. Purtroppo, nel recente congresso, con un'operazione statutaria, abbiamo avuto un preoccupante peggioramento. Basti pensare che è stato respinto persino un emendamento teso ad affermare che, a fronte di posizioni diverse, fosse vincolante presentare queste posizioni in tutte le assemblee degli iscritti.
Sembra un percorso tutto in salita. Dove vedi la speranza?
Credo che la manifestazione del 16 abbia dimostrato - prima, durante e dopo - che non esiste un problema di isolamento nei rapporti con la gente; ma che viceversa c'è una grande aspettativa e disponibilità alla costruzione di un'opposizione proposi-t iva, alternativa, sui processi sociali e politici in atto.
Quali strade per il sindacato, ora?
La Cgil è a un bivio. Tra la necessità di affermare una pratica contrattuale e rivendicativa e quella di rovesciare ciò che Confindustria, Cisl, Uil e governo hanno costruito nel corso di questi anni come risposta alla crisi. E' necessario fare un'operazione di verità: stanno attuando con assoluta coerenza la distruzione della struttura dei diritti (ultimo esempio il Collegato lavoro) e del contratto. Non siamo - anche nei rapporti sindacali - di fronte a divergenze su questa o quella rivendicazione; ma ad un progetto fondato sulla riduzione del contratto nazionale a puro elemento di «cornice generale»; dove gli aumenti retributivi sono legati a questo o quell'indice inflazionistico, e i diritti vengono nel frattempo demoliti sul piano legislativo. E tutto il resto, a partire dall'orario di lavoro, viene derogato alla contrattazione di secondo livello. Oppure, come variante, queste materie contrattuali vengono trasferite a licello aziendale o territoriale. Mentre la crescita della parte retributiva viene relegata a livello aziendale, nella forma totalmente variabile legata alla produttività, agevolata con misure fiscalo.
Ci sono già passi concreti?
Ritengo grave che quest'ultimo aspetto sia presente nell'accordo tra le parti sociali fatto come proposta al governo, che non a caso - con Sacconi - ha già detto che sarà recepito. Nello stesso tempo, cresceranno ovunque, sotto diverse forme, gli enti bilaterali, che assumono sempre più caratteristiche sostitutive- non «integrative» - di parti rilevanti dello stato sociale. Si può dire, al momento, che tutto quanto era previsto nel «piano Maroni» del 2001 - completato dal Libro bianco di Sacconi - è stato fatto. Manca solo il preannunciato «statuto dei lavori».
Dove sbaglia l'attuale dirigenza?
Rispetto a questo scenario, la Cgil non pub continuare a balbettare con la logica della «riduzione del danno». Deve definire una propria idea, proposta e pratica rivendicativa coerente, fondata sulla riconquista del contratto nazionale e l'autonomia negoziale, costruendo una mobilitazione e una reale iniziativa in tema di diritti, tutele, occupazione, democrazia.
Non è utile Il tavolo ora aperto?
Un tavolo sulla produttività, in questo quadro, è completamente privo di senso; la prima cosa che dovrebbe chiedere un sindacato è il blocco dei licenziamenti. Come peraltro hanno fatto altri sindacati in Europa, a cominciare dalla Germania. Qui c'è già l'11%o di disoccupazione. L'elemento centrale, e per me assolutamente discriminante, è il terreno della democrazia. Tanto più di fronte a un pluralismo sindacale. Si può articolare in materia una proposta, che però non può prescindere da un dato: i lavoratori debbono potersi esprimere tramite referendum, anche su posizioni diverse, sulle loro piattaforme e i loro contratti. Questo non è in realtà un dato scontato nemmeno per la Cgil. Perché so bene - visto in quanti parlano di «innovazione» e «modernità» - che si tratta di affermare la democrazia come diritto dei lavoratori e non come proprietà delle organizzazioni sindacali. Questo è un elemento di assoluta novità nella storia del movimento operaio. Anch'io negli anni '70 consideravo sbagliato lo strumento del referendum; la nostra cultura d'allora privilegiava il ruolo dell'organizzazione rispetto all'esercizio del voto. E' singolare che tutti quelli che parlano ora di «innovazione» non assumano questo come il vero elemento di novità, l'unico che permette di affermare una vera autonomia delle organizzazioni sindacali.
Ci sarà uno sciopero generale?
Dopo la manifestazione del 27, penso si debba passare attraverso una mobilitazione generale dei lavoratori. Perché non si tratta solo di proclamare lo sciopero, ma di costruirlo con una campagna di massa nei posti di lavoro, le università, le scuole, tra i precari. Per esempio, spiegando cosa combina il «Collegato lavoro» sui diritti, cosa sta succedendo sul piano della contrattazione o sul taglio dei servizi e della spesa sociale. Bisogna porre la Cgil al centro del disagio profondo presente nel paese, che può prendere altre strade, se non trova un riferimento di aggregazione e speranza.
Ma intanto si sta trattando...
Il problema vero, che capisco ma non condivido, è che c'è una profonda contraddizione tra il proclamare uno sciopero generale contro Confindustria e governo e, nel frattempo, proseguire tavoli generali e fare «avvisi comuni» con Confindustria. È per queste ragioni, quindi, che la Cgil si trova davvero di fronte a un bivio. In cui l'aspetto della democrazia, sia nei confronti dei lavoratori che all'interno dell'organizzazione, diventa l'aspetto decisivo. Sono assolutamente convinto che non c'è futuro per organizzazioni di massa come la Cgil, che tengono assieme milioni di lavoratori e pensionati, se non sono fondate su un radicale processo di democrazia. Purtroppo, nel recente congresso, con un'operazione statutaria, abbiamo avuto un preoccupante peggioramento. Basti pensare che è stato respinto persino un emendamento teso ad affermare che, a fronte di posizioni diverse, fosse vincolante presentare queste posizioni in tutte le assemblee degli iscritti.
Sembra un percorso tutto in salita. Dove vedi la speranza?
Credo che la manifestazione del 16 abbia dimostrato - prima, durante e dopo - che non esiste un problema di isolamento nei rapporti con la gente; ma che viceversa c'è una grande aspettativa e disponibilità alla costruzione di un'opposizione proposi-t iva, alternativa, sui processi sociali e politici in atto.
Articolo su il Manifesto del 5 novembre 2010 di Piccioni Francesco
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