Quella di Fincantieri è una tipica storia italiana. Il gruppo con i suoi 9mila dipendenti diretti e i 25mila addetti negli appalti e nell’indotto, rappresenta uno dei punti di forza del sistema industriale del Paese. Vent’anni fa le partecipazioni statali volevano dismetterlo perché considerato un settore maturo. Il sindacato riuscì a impedire questa scelta e la Fincantieri si riprese costruendo grandi navi per tutto il mondo. Quattro anni fa l’azienda tentò di entrare in borsa, attualmente è di proprietà al cento per cento della Fintecna, cioè del ministero del Tesoro. Una grande mobilitazione della Fiom e di tutte le intelligenze del gruppo riuscì a conquistare un vasto consenso di opinione pubblica e a fermare la privatizzazione. L’azienda rimase pubblica e fu una fortuna, perché altrimenti, dopo la crisi borsistica, il gruppo sarebbe già stato venduto all’asta.
E poi è arrivata la grande crisi economico-finanziaria. Il settore delle costruzioni navali ne ha risentito moltissimo in tutto il mondo e così anche la Fincantieri.
Ancora una volta si è tentata però una strada completamente sbagliata.
Mentre partiva la crisi l’azienda ha aperto uno scontro sul salario legato alla produttività con tutti i lavoratori del gruppo. Questo scontro ha portato prima a degli accordi separati, poi a degli accordi unitari che solo parzialmente hanno risolto la questione. Fatto sta che l’azienda ha speso un anno e mezzo a spiegare che i suoi problemi principali erano di produttività del lavoro. E così arriviamo ai giorni nostri nei quali un’indiscrezione giornalistica ben accreditata lancia la chiusura di Castellammare di Stabia e Riva Trigoso, il dimezzamento di Sestri Ponente, ampi tagli occupazionali in tutto il gruppo. Questo disastro cancella la questione della produttività: uno degli stabilimenti che l’azienda vorrebbe chiudere è, secondo le tabelle aziendali, tra i più produttivi e pone invece la questione di fondo: l’assenza di politiche industriali e di strategie aziendali atte ad affrontare davvero la crisi.
Accanto agli errori periodici dell’azienda, infatti, abbiamo dovuto registrare il solito ridicolo balletto delle promesse e degli impegni mancati da parte del governo. Prima ancora di dimettersi, il ministro Scajola non aveva mantenuto gli impegni per gli indispensabili interventi pubblici nel settore. E’ chiaro infatti che senza una forte politica dello Stato i cantieri navali sono destinati a chiudere. In tutti i paesi ove si vuole mantenere questa produzione, lo Stato interviene sia con le commesse sia con il finanziamento degli investimenti necessari a potenziare davvero la produttività, ove questo non accade i cantieri chiudono.
Come al solito nel balletto della politica italiana si è parlato di produttività, di commesse di carceri galleggianti, di navi ecologiche. Tutte le più varie fantasie sono state spese nella pubblicità mediatica, ma il risultato è stato neanche un bullone di lavoro. Si arriva così alla crisi attuale dove si misura tutta l’incapacità di una classe dirigente politica ed economica di difendere davvero l’industria e il lavoro. La chiusura di alcuni cantieri navali non è solo una drammatica operazione sociale, che devasta interi territori dalla Liguria alla Sicilia e che, in Campania, distrugge un’intera comunità. E’ anche l’ennesimo sciocco errore di politica industriale. Quello di chi non punta al futuro, ma semplicemente pensa di razionalizzare i conti tagliando tutto quello che si può tagliare. Così se domani dovessero esserci nuove commesse navali, Fincantieri non avrebbe più i siti dove produrre.
Lo scontro che si è aperto con le lotte durissime dei lavoratori in tutto il gruppo, e prima di tutto a Castellammare, Palermo e Liguria manda quindi un messaggio a tutti. Alla politica, come sempre attardata e depistata su altro. Alla Confindustria e alle imprese perché la vicenda Fincantieri dimostra ancora una volta che le offensive contro i diritti, sulla produttività e sulla flessibilità del lavoro sono un puro e semplice depistaggio dai problemi reali. Il 1° ottobre tutti i lavoratori Fincantieri verranno in sciopero a Roma per chiedere che la presidenza del Consiglio affronti la crisi e per dire con tutta l’indignazione del caso no alla chiusura di un settore strategico e sì, finalmente, a una politica industriale degna di questo nome.
Articolo di G.Cremaschi su Liberazione
E poi è arrivata la grande crisi economico-finanziaria. Il settore delle costruzioni navali ne ha risentito moltissimo in tutto il mondo e così anche la Fincantieri.
Ancora una volta si è tentata però una strada completamente sbagliata.
Mentre partiva la crisi l’azienda ha aperto uno scontro sul salario legato alla produttività con tutti i lavoratori del gruppo. Questo scontro ha portato prima a degli accordi separati, poi a degli accordi unitari che solo parzialmente hanno risolto la questione. Fatto sta che l’azienda ha speso un anno e mezzo a spiegare che i suoi problemi principali erano di produttività del lavoro. E così arriviamo ai giorni nostri nei quali un’indiscrezione giornalistica ben accreditata lancia la chiusura di Castellammare di Stabia e Riva Trigoso, il dimezzamento di Sestri Ponente, ampi tagli occupazionali in tutto il gruppo. Questo disastro cancella la questione della produttività: uno degli stabilimenti che l’azienda vorrebbe chiudere è, secondo le tabelle aziendali, tra i più produttivi e pone invece la questione di fondo: l’assenza di politiche industriali e di strategie aziendali atte ad affrontare davvero la crisi.
Accanto agli errori periodici dell’azienda, infatti, abbiamo dovuto registrare il solito ridicolo balletto delle promesse e degli impegni mancati da parte del governo. Prima ancora di dimettersi, il ministro Scajola non aveva mantenuto gli impegni per gli indispensabili interventi pubblici nel settore. E’ chiaro infatti che senza una forte politica dello Stato i cantieri navali sono destinati a chiudere. In tutti i paesi ove si vuole mantenere questa produzione, lo Stato interviene sia con le commesse sia con il finanziamento degli investimenti necessari a potenziare davvero la produttività, ove questo non accade i cantieri chiudono.
Come al solito nel balletto della politica italiana si è parlato di produttività, di commesse di carceri galleggianti, di navi ecologiche. Tutte le più varie fantasie sono state spese nella pubblicità mediatica, ma il risultato è stato neanche un bullone di lavoro. Si arriva così alla crisi attuale dove si misura tutta l’incapacità di una classe dirigente politica ed economica di difendere davvero l’industria e il lavoro. La chiusura di alcuni cantieri navali non è solo una drammatica operazione sociale, che devasta interi territori dalla Liguria alla Sicilia e che, in Campania, distrugge un’intera comunità. E’ anche l’ennesimo sciocco errore di politica industriale. Quello di chi non punta al futuro, ma semplicemente pensa di razionalizzare i conti tagliando tutto quello che si può tagliare. Così se domani dovessero esserci nuove commesse navali, Fincantieri non avrebbe più i siti dove produrre.
Lo scontro che si è aperto con le lotte durissime dei lavoratori in tutto il gruppo, e prima di tutto a Castellammare, Palermo e Liguria manda quindi un messaggio a tutti. Alla politica, come sempre attardata e depistata su altro. Alla Confindustria e alle imprese perché la vicenda Fincantieri dimostra ancora una volta che le offensive contro i diritti, sulla produttività e sulla flessibilità del lavoro sono un puro e semplice depistaggio dai problemi reali. Il 1° ottobre tutti i lavoratori Fincantieri verranno in sciopero a Roma per chiedere che la presidenza del Consiglio affronti la crisi e per dire con tutta l’indignazione del caso no alla chiusura di un settore strategico e sì, finalmente, a una politica industriale degna di questo nome.
Articolo di G.Cremaschi su Liberazione
1 commento:
contro il regime berlusconi - marchionne e per l'unità di tutti i movimenti con la classe operaia
il 16 ottobre è vicino http://laconoscenzarendeliberiblog.wordpress.com/2010/09/24/camilleri-flores-d%e2%80%99arcais-don-gallo-hack-%e2%80%9cin-piazza-con-la-fiom-contro-berlusconi%e2%80%9d/
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