E’  bene gettare uno sguardo nell’abisso, ritraendosi in fretta, cioè dare  un’occhiata alla situazione politica, sociale ed economica  italiana senza indulgere troppo e lasciarsi fagocitare dalle dinamiche  sistemiche, per un rapido monitoraggio della stessa e per censire i  peggioramenti in termini di prospettive future intervenuti dall’inizio  dell’estate a oggi.
Gli eventi più recenti ed eclatanti si possono così riassumere:
 1)     L’attacco  della Fiat ai diritti dei lavoratori in Italia, ben simboleggiato dai  licenziamenti nello stabilimento di Melfi e dal rifiuto di reintegrare  concretamente i lavoratori  licenziati, in spregio ad una sentenza della magistratura.
 2)     La  crisi di governo non dichiarata e non ancora formalmente esplosa, con  la probabile dissoluzione dell’attuale maggioranza ed il ricorso alle  urne, alla quale si aggiungerebbe  un fantomatico [ma non troppo] “complotto” per far fuori Berlusconi e  sostituirlo con un elemento più facilmente gestibile dai globalisti e  dalla finanza privata sovrana.
 3)     La  recente visita del dittatore libico Gheddafi in Italia, appena  conclusasi, che pone diversi problemi: dipendenza italiana dall’estero,  per quanto riguarda non solo la decisione  politica ma anche le materie prime, l’efficacia del business  [micro]aziendalistico berlusconiano, in sostituzione di vere politiche  economiche e industriali, ed eventuali ricadute positive per l’economia  nazionale, l’occupazione, i redditi, la subordinazione  della “dignità nazionale” e soprattutto dell’Etica alle esigenze del  business, con la questione dell’immigrazione perennemente sullo sfondo.
A questi eventi aggiungiamo pure:
 4)     La  minaccia del federalismo “realizzato” che incombe da tempo sul paese e  che potrebbe provocare fermenti secessionisti nel meridione.
Per  quanto riguarda il punto 1, è chiaro che la Fiat, oltre a manovrare per  riuscire a bypassare le garanzie del contratto nazionale  di lavoro in tutti i suoi stabilimenti, e non soltanto in quello di  Pomigliano, pretende anche l’”extra-territorialità”, creando in Italia  l’equivalente delle famigerate Zone Franche di Esportazione nei paesi in  sviluppo, in cui non si applicano vere garanzie  normative a favore dei lavoratori, soggetti ad un libero sfruttamento  integrale, e in cui, addirittura, non si rendono pienamente operative le  sentenze dei tribunali a loro favorevoli.
Ma forse Marchionne e i suoi “azionisti” vogliono ancor di più, in ossequio al Liberoscambismo Assolutizzato, ed aspirano ad  una completa extra-territorialità degli stabilimenti in loco, anche rispetto alla stessa legge penale del paese ospitante.
Potremo  aspettarci anche qui, nel prossimo futuro, condizioni di lavoro  paragonabili a quelle praticate nelle maquilladoras messicane,  ed anche l’assassinio di sindacalisti scomodi e antagonisti, come ad  esempio quelli della Fiom, sull’esempio dell’azione contro i diritti dei  lavoratori delle multinazionali e dei narcos in Colombia?
Certo è, vista l’aria che tira, che si vuole estendere forme di sfruttamento intensivo del lavoro, in passato limitate ai paesi  “in via di sviluppo”, al tessile, al lavoro femminile, anche alla vecchia Europa e al mondo “ex-ricco”.
Di  certo, un “modo più moderno e dinamico” di intendere il rapporto di  lavoro per poter affrontare l’accesa competizione globale  che abbiamo davanti, un segno del percorso emancipativo tracciato per  tutti noi dal liberismo e dalla liberaldemocrazia egemoni!
In  pratica, la Zona Franca sul territorio nazionale pretesa da Marchionne e  dai suoi referenti globalisti, in cambio della carota  rappresentata da 20 miliardi di euro di investimenti sull’italico suolo  nei prossimi anni, corrisponde in linea di massima a quella che Paolo  Barnard, nel suo saggio “Il più grande crimine”, definisce una “sacca di  Cina” in Italia, e se riuscirà a stabilirsi  si rivelerà un efficace cavallo di troia dei globalisti – mascherati  come sempre da Mercati e Investitori – che sono abbondantemente  infiltrati nei gangli vitali dell’amministrazione Obama, ed anche  attraverso quel contenitore impongono la realizzazione delle  loro strategie in occidente e nel mondo.
La Fiat  non è più un’azienda italiana e non è neppure un’azienda  propriamente definibile americana, come molti mostrano di credere, ma  bensì uno strumento di penetrazione della Global class in Italia, per  l’ultima grande colonizzazione e per gli ultimi espropri vampireschi.
Le  aziende globali, come ormai dovrebbero sapere anche i bimbi e i  liberisti più tonti, non hanno nazionalità alcuna, non hanno  obblighi verso alcun popolo e richiedono con sempre maggior arroganza  l’extra-territorialità, in ossequio alla supremazia della libertà  d’iniziativa economico-finanziaria e della proprietà privata, quali  diritti naturali che mettono in ombra lo stesso diritto  alla vita e che valicano ogni confine geografico, politico, doganale.
L’azienda  ingrata e infedele oggi rappresentata dal laureato in filosofia [!]  Marchionne, ha pur sempre ricevuto, negli ultimi  anni, parecchi miliardi di euro in regalo dagli esecutivi italiani,  sottratti alla spesa sociale, recuperati con le tasse, e trasformatisi  poi in dividendi per l’intangibile Proprietà, con la scusa della difesa  dei posti di lavoro sul patrio suolo che inesorabilmente  e beffardamente si sono ridotti, e minacciano di assottigliarsi ancora  nel breve.
Il  terreno per un possibile, storico e definitivo successo della  penetrazione globalista nel belpaese, non si è formato improvvisamente,  ma è stato preparato negli ultimi due decenni con le manovre  de-emancipatrici del lavoro, l’introduzione dei contratti di precarietà e  flessibilità, la messa in discussione di contratto nazionale e dello  statuto dei lavoratori, nonché con la compressione dei  redditi da lavoro dipendente, in una sostanziale continuità che in tal  senso hanno espresso le politiche-replicanti dei governi cosiddetti di  centro-destra e di centro-sinistra.
D’altra  parte, se per la Creazione del Valore finanziario le aziende sono  diventate come limoni da spremere, nel breve, estraendone  valore in borsa e poi gettandole, o vendendole dopo sanguinose  ristrutturazioni giustificate dalla necessità di “riposizionamenti” sui  mercati, perché non fare la stessa cosa con interi stati, siano asiatici  o europei, appartenenti al sud del mondo od anche  al settentrione?
Che differenza c’è, per gli agenti strategici del Capitale Transgenico del terzo millennio, fra i dipendenti della Fiat, quelli  di Wal-Mart, o l’intero popolo italiano, o fra un grande organismo produttivo e lo stato italiano?
Nessuna  differenza, in linea di principio, trattandosi nel caso dei dipendenti e  dei popoli di “risorse” da spremere, direttamente  o indirettamente, e nel caso delle grandi company e dei vecchi stati  nazionali di organismi utili per la Creazione del Valore, diretta o  indiretta.
Il  Partito Unico della Riproduzione Capitalistica sta conducendo  un'intensa campagna giornalistico-mediatica a favore del manager  globale Marchionne, della “ventata di modernizzazione” che i suoi  piani, se realizzati, porterebbero nel sistema produttivo nazionale,  consentendogli finalmente di affrontare le “sfide globali”.
Si  esalta il suo vivere “dopo Cristo” e non prima di Cristo che ha  suscitato nel consueto meeting estivo di Rimini gli applausi  della “cristianissima” platea di Comunione e Liberazione, più devota,  con tutta evidenza, a Smith, a Friedman, a Soros che a Gesù Cristo …
“La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”,  ha dichiarato Marchionne in  relazione ai tre dipendenti Fiat di Melfi da lui licenziati ma da  reintegrare pienamente, intendendo con questa ipocrita sentenza, in  realtà, che dignità e diritti dei lavoratori devono essere superati nel  suo allucinante “dopo Cristo”, che esclude qualsiasi  vera Etica, compresa quella cristiana, ed ammette soltanto la falsa  etica del valore creato e del profitto.
La vera sostanza del messaggio/ diktat all’Italia è la seguente: o si accettano queste condizioni-imposizioni o si resta esclusi  dai mercati mondiali e dalle grandi correnti globali di “sviluppo”.
In poche parole, “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”, essendo il governo italiano palesemente diviso fra impotenza  e forzata accondiscendenza.
Ah  sì, quasi dimenticavo: Il Quirinale, nella persona del suo attuale  dormiente, ossia il migliorista-comunistachehastudiatoinamerica  Giorgio Napolitano, non ha mancato di ringraziare pubblicamente  Marchionne per la sua disponibilità al dialogo!
In  relazione al punto 2 non si può non riconoscere la ferale capacità di  “resistenza” espressa da Silvio Berlusconi, davanti  agli attacchi esterni di potenti entità mediatico-finanziarie  principalmente albioniche e americane [iniziati sulla stampa nazionale  ed internazionale con la pubblicità data agli scandali sessuali, le  escort, le orge nei suoi palazzi privati, le feste di compleanno  di ragazze neomaggiorenni], in relazione agli “attacchi” di una  magistratura politicizzata che lo ha sommerso negli anni di avvisi di  garanzia e impegni processuali, ed anche in relazione alle recenti  fronde interne al suo stesso cartello elettorale.
Nonostante la sostanziale pochezza che finora ha dimostrato, Berlusconi resiste, no se rinde nei suoi sontuosi Alcazar, fucilino pure chi vogliono, ma non lui, organizza cene di lavoro nel comodo Fuhrerbunker  di Palazzo Grazioli, senza il fragore dell’artiglieria  comunista in sottofondo, stabilisce cinque punti irrinunciabili  dell’azione di governo con i suoi ministri-avvocati-impiegati, primo fra  i quali evitare i processi, e mostra di essere come la caparbia  sanguisuga, che si potrà staccare soltanto con il fuoco.
Del  resto, quello che vuole il cavaliere è soltanto mettere il suo culo al  sicuro, raggiungere il Quirinale in tempo o più realisticamente  giungere ad uno stabile compromesso con la potente mafia  finanziario-globalista, dotata di mezzi incomparabilmente maggiori di  quelli a disposizione della sua piccola mafia locale, la quale dovrà  concedergli un buon salvacondotto per toglierselo dalle scatole.
Lo  attende una vecchiaia su qualche isola offshore, in villa, con tutto il  codazzo di escort e giullari di corte di cui ama circondarsi?
Salverà il suo impero aziendal-privato distribuito alla figliolanza?
Per ora, in luogo delle solenni note di Wagner [anche se il Götterdämmerung pare un po’ esagerato per Berlusconi],  nei corridoi dei suoi palazzi risuona al più l’armoniosa  voce partenopea di Apicella accompagnata dalla chitarra, a  dimostrazione di quanto può essere grottesca e casereccia anche la  tragedia.
Certo  è che non soltanto il [presunto] blocco sociale berlusconiano è tenuto  insieme con lo sputo – dall’egoismo di gruppi sociali  retrivi, dall’ignoranza, dal plagio, dalla paura – ma anche il suo  amato PdL, la sua creatura pseudo-politica fulcro del partito dell’amore  e del predellino, frutto di un calcolo che si sta rivelando sbagliato,  troppo frettoloso, a dimostrazione che il gruppo  di potere che circonda Berlusconi e sfrutta la sua immagine non dispone  di grandi strateghi, ma solo di mediocri impiegati, yesman e piccole  tacche.
L’imprenditorialità  tanto cara al cavaliere che questi suoi dipendenti, collaboratori e  sodali dovrebbero esprimere si concretizza  in misure raffazzonate, tipiche di un “navigare a vista” evitando  fortunosamente gli scogli, e non certo di una razionale pianificazione  strategica d’ampio respiro.
Da due mesi il ministero dello sviluppo economico è soggetto all’interim di Berlusconi, e ciò vale a dire che è completamente  scoperto, come se si trattasse di cosa di secondaria importanza, durante una lunga crisi economica e sociale.
Del  resto, essendo il gruppo di potere berlusconiano per certi versi erede  del craxismo, non può non essere attorniato da nuovi  contingenti di “nani e ballerine”, ed essendo il PdL un partito  “leggero”, ossia principalmente una sorta di grande comitato elettorale/  club liberal-salottiero, non ha adeguate strutture per radicarsi nel  territorio, all’infuori di quelle “ereditate” da AN,  a suo tempo, dal vecchio MSI, quella stessa componente del PdL oggi  spaccata dalla cosiddetta fronda finiana. 
Con  buona probabilità, le ultime settimane hanno chiarito che la fronda  finiana non potrà più rientrare all’ovile, che non si  potrà scordare il passato pur di continuare a governare, dopo un’accesa  lotta ai coltelli, con attacchi personali, colpi bassi, diffamazioni e  colluttazioni.
L’ambizioso  e cinico “gerarca” [ex]berlusconiano Gianfranco Fini tenterà  prossimamente altri colpi di mano, fuori o dentro il  PdL, pur di far cadere lo scettro a Berlusconi ed aprirsi la strada  verso la presidenza del consiglio o verso qualche altro importante  incarico di governo.
In  parallelo alla crisi del partito del fare, dell’amore e delle faide  interne, se la piratesca Lega che ha raggiunto o quasi  il suo massimo storico, dopo il quale non potrà che scendere o  precipitare a vite, vuole elezioni subito per fare il pieno di consensi  un’ultima volta e “fottere” con la consueta eleganza il suo malconcio  alleato, il vergognoso partito di plastica chiamato  Pd, senza programma politico e senza dignità, cerca penosamente di  ritardarle, invocando, ad esempio, la necessità di una nuova legge  elettorale condivisa, un superamento del porcellum, e sicuramente  sarebbe favorevole a torbide soluzioni istituzionali, con  l’alto patrocinio di Napolitano, che allontanino Berlusconi dalla  presidenza del consiglio, ma che non portino allo scioglimento delle  camere.
Infuria  nel Pd, dimentico di ogni drammatica questione sociale in atto [Melfi,  Pomigliano, ricatti Fiat, precari della scuola  in angoscia, disoccupazione giovanile dilagante, condizione operaia  degradata] alla quale le sue squallide burocrazie non sono evidentemente  interessate, la polemica che divide trasversalmente la nomenklatura  post-post comunista e post-post democristiana,  fuse nell’unico “blocco” – non di granito, ma di merda, e quindi  prossimo a sfaldarsi o a liquefarsi – che oggi discute accoratamente di  sistemi elettorali alla francese o alla tedesca, mentre ieri discuteva  su altri bizantinismi, come l’opportunità dell’uso  della storica espressione “compagno” nei suoi inutili consessi.
Nel frattempo rischiano di aumentare le tensioni nord-sud, quale effetto congiunto della crisi economica e del malgoverno, e  qui si innesta bene il punto 4.
Il  federalismo-fiscal-burocratico-bossiano concesso da Berlusconi al Bossi  opportunista e ricattatore puramente per mantenersi  in sella, se veramente si realizzerà nella sua versione più hard,  comporterà aggravi di costi insostenibili, tagli draconiani di risorse a  [quasi] tutte le regioni meridionali già malconce, e fin d’ora questa  minacciosa prospettiva moltiplica i fermenti fra  gli stessi politici sudisti del PdL, fermenti e malcontenti nei quali  si può cogliere una ancor embrionale minaccia secessionista, ma  destinata a svilupparsi rapidamente nel caso si vada verso il baratro …  pardon, verso il “federalismo fiscale” voluto dalla  Lega. 
Ultimo  viene Muammar Gheddafi, di cui al punto 3, il pagliaccesco dittatorello  libico che fuor dalla Gran Giamahiria Araba solo  in Italia può sentirsi veramente importante, come se fosse un  “conquistador” prodotto da una sorta di colonialismo di ritorno e nel  contempo un grande uomo di stato che finalmente trova la sua platea e  può pontificare.
Più  che dall’evidente cattivo gusto nell’abbigliamento, a metà fra  l’avanspettacolo e una sorta di uniformologia dadaista, nella  scelta delle automobili, o nello sfoggio di agguerrite Amazzoni in  funzione di guardie del corpo, più ancora dell’invito a convertirsi  all’islam, rivolto a un paio di pool di hostess locali assunte a  termine, l’attenzione dovrebbe essere attratta dai cinque  miliardi di euro l’anno richiesti all’Europa dell’Unione allo scopo di  arrestare il flusso migratorio verso il vecchio continente, che  altrimenti, invaso da legioni di disperati, potrebbe a sua volta  diventare Africa, cioè nero o almeno caffellatte …
Evidente l’intento levantino di contrattare alzando il prezzo, nonché il velato ricatto contenuti nelle richieste di Muammar  Gheddafi, tanto che l’Unione ha dichiarato che la cifra è un’esagerazione, che si potrebbe far molto con capitali più ridotti.
Il  dilettante Frattini al ministero degli esteri farà da tramite fra il  dittatore libico e l’Unione, fino a che si troverà il  “prezzo giusto”, stabilendo magari un tot di euro per ciascun disperato  che giunge in Giamahiria dall’Africa subsahariana, sulla base di flussi  migratori annualmente stimati …
Ciò  che non si considera minimamente, in tutto questo mercimonio e in primo  luogo nella democraticissima e liberale Europa, sugli  organi di stampa “politicamente corretti” come nelle dichiarazioni  politiche ufficiali o ufficiose, è la condizione dei migranti detenuti  in Libia, la loro sorte, la necessità di riconoscergli almeno qualche  fondamentale diritto e di tutelarli.
Ma  l’imbroglio sta nel fatto che i flussi migratori potranno veramente  arrestarsi, o ridursi significativamente, impedendo così  la temuta africanizzazione–islamizzazione dell’Europa, solo e soltanto  se si interromperanno le dinamiche di questo capitalismo, perché sono  queste che li suscitano, che rendono inevitabile lo spostamento di  intere masse umane verso nord e verso occidente,  mentre i paesi più poveri del continente nero perdono circa un terzo  della loro preziosa manodopera specializzata.
Ben  poco può il regime di Gheddafi, nella piccola Libia, sia con 5 sia con  15 o più miliardi di euro annui erogati dalla UE,  se agguerrite organizzazioni criminali transnazionali gestiscono i  flussi di immigrati, fra i quali ben pochi possono viaggiare  liberamente, per scelta, con mezzi decenti, dato che l’”economia  criminale”, la quale fra le sue lucrose attività annovera anche  il traffico di braccia e di schiavi, si sviluppa in parallelo con  quella globale liberista, e le due si alimentano a vicenda.
E infine, chi può credere seriamente alla storiella che sarà Gheddafi [lautamente pagato] il difensore di un'Europa che rischia  di essere sommersa da schiere di “nuovi barbari”?
Per  chiudere il capitoletto dedicato al surreale colonnello libico, va  ricordato che due anni fa è stato stipulato il Trattato  di Bengasi fra Libia e Italia, che ha ufficializzato l’amicizia fra i  due paesi [su questo, niente in contrario] e quella, sicuramente  interessata, fra il colonnello esternatore e il cavaliere istrionico.
Nel  Capo II dell’accordo, relativo alla chiusura del capitolo del passato e  dei contenziosi, l’Italia si impegnava a reperire  fondi finanziari per la realizzazione [in Libia] di progetti  infrastrutturali di base per la bellezza di 5 miliardi di dollari in 20  anni, mentre la Giamahiria garantiva alla parte italiana e alle aziende  esecutrici l’esenzione dalle tasse [art. 8 del trattato]. 
A  ciò faceva seguito tutto un complesso di disposizioni, per la verità  generiche, riguardanti materie quali la cooperazione negli  ambiti scientifici e culturali, collaborazione economica, industriale e  in campo energetico, collaborazioni militari ed altro.
Importante fu la rimozione di ostacoli procedurali e di regolamenti restrittivi, da parte del governo libico, che limitavano  le possibilità d’azione delle aziende italiane.
I  rapporti economici fra Libia e Italia, da allora, si sono  effettivamente sviluppati ed oggi le importazioni di gas libico coprono  oltre il dieci per cento del fabbisogno annuo nazionale, mentre oltre  un terzo del greggio libico è destinato all’Italia.
Inoltre, il relativamente ricco fondo sovrano della Libia attratto da investimenti nella penisola non ha tipicamente velleità  coloniali – a differenza di quello russo o cinese – ma principalmente “normali” scopi d’investimento.
Ma  nonostante la relativa positività dei rapporti economici e finanziari  Italia-Libia, che hanno avuto nuovo impulso in questi  ultimi anni – forse uno dei pochi “meriti” che taluni riconoscono al IV  governo Berlusconi – non si può che concordare con lo storico Franco  Cardini che scrive, nel suo “Il Colonnello in maschera”: Gheddafi  appare oggi, dal nostro punto di vista, quello che è: un “uomo di  sponda” dell’affarismo berlusconiano, che si spinge perfino  all’avventura criptofiloiraniana e alla russofilia strisciante,  giustificate sempre dal nostro “interesse nazionale” (che poi sarebbe  quello di alcune imprese italiane il cui business ha ben scarsa ricaduta  sul benessere del paese).
Infatti,  nonostante il Trattato di Bengasi del 2008, il petrolio e il gas  libici, una  certa apertura alle aziende italiana nei territori della Giamahiria  libica, araba, islamica, socialista [eccetera, chi più ne ha più ne  metta], e nonostante gli accordi Eni-Gazprom, nonché altri accordi e  trattati minori con entità non troppo gradite ai globalisti  occidentali e americani, non rileviamo da allora a oggi rilevanti e  decisivi effetti benefici per l’economia nazionale, nonché ricadute  positive sui redditi da lavoro e sull’occupazione.
Ciò  che rileviamo, nonostante i supposti, importanti benefici che  dovrebbero discendere  dai richiamati accordi, è l’inesorabile prosecuzione del processo di  de-emancipazione di massa, della compressione di salari e stipendi,  della costruzione sociale di un “uomo nuovo”, costretto alla precarietà  lavorativa ed esistenziale, e tutto ciò anche a causa dell’azione/ inazione dell’esecutivo berlusconiano.
E’  bene precisare con chiarezza, sulla scorta delle acute osservazioni di  Cardini, che  nonostante queste secondarie, timide “manifestazioni di indipendenza”  dalla grande finanza anglo-americana che vuole privatizzare e  colonizzare completamente la penisola, gestendola attraverso Quisling  politici locali, non si inverte ma si approfondisce la  tendenza complessiva al declino economico-produttivo e  all’impoverimento della popolazione, una tendenza che è iniziata con gli  anni novanta e che ormai può dirsi storica.
In definitiva, dopo questo breve excursus sperabilmente non troppo frammentario e superficiale,  fuor di metafora, con linguaggio non eccelso ma sicuramente a tutti comprensibile, possiamo concludere che siamo sempre di più nella merda, e che, come disse a suo tempo un certo Paco d’Alcatraz, quando si tocca il fondo, ci si mette a scavare.
 
 
 
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