Venerdì  24 settembre ho partecipato alla costituzione dell’Area Programmatica  “La CGIL che vogliamo” in provincia di Trieste, città in cui lavoro e in  cui risulto uno dei tanti tesserati Fiom.
L’incontro  fondativo dell’Area è avvenuto di pomeriggio, nella Casa del Popolo  [ebbene sì, le Case del Popolo esistono ancora, pur non essendo  esattamente quelle dei tempi “arcadico-guareschiani” di Peppone e Don  Camillo] in quel di Borgo San Sergio alla periferia di Trieste.
Le  componenti sindacali presenti in loco, con prevalenza di membri dei  direttivi, erano quelle solite dei metalmeccanici Fiom, della Funzione  Pubblica e dei bancari all’interno della CGIL – coloro che hanno  sostenuto la mozione congressuale numero due, per intenderci, in  contrapposto alla CGIL burocratico-formale e “attendista” di Guglielmo  Epifani – ma l’incontro era aperto a tutti i lavoratori interessati,  senza preclusioni di sorta, così come dovrebbe essere quando si cerca di  “riattivare” in situazioni sociali difficili l’efficacia dell’azione  sindacale, e di estendere la base del consenso a tutta l’area del lavoro  dipendente, intellettuale e materiale, impiegatizio e operaio, pubblico  e privato, sfruttato e ri-plebeizzato da questo capitalismo con  l’evidente complicità della politica “ufficiale” e del sindacalismo  giallo.
Atteso  in apertura dei lavori l’intervento di Giorgio Cremaschi, che  personalmente si pone come uno fra i tanti fondatori dell’Area, ma che  molti militanti riconoscono spontaneamente [è inutile negarlo perché in  questo non c’è niente di male] come la figura di riferimento, e un vero  leader, in un clima di libertà di pensiero e di critica che in futuro  dovrà caratterizzare l’Area Programmatica ed estendersi a tutta la CGIL.
Quando  le situazioni diventano difficili e i passaggi da affrontare sono  passaggi storici, come accade oggi in Italia, gli aspetti burocratici e  l’ordine gerarchico, se d’ostacolo all’elaborazione del nuovo e al  cambiamento, si possono superare più facilmente, e la costruzione del  nuovo, alla quale tutti sono chiamati a partecipare prescindendo dalle  posizioni gerarchiche precedenti, non può che essere frutto di un’azione  collettiva, in cui ogni singolo attore è importante, ed in cui pesa il  libero contributo di ciascuno.
Abbiamo  alle spalle quasi un trentennio di attacchi mirati al lavoro, di  de-emancipazione, di manipolazioni giuslavoristiche orientate alla  precarietà e alla demolizione delle garanzie pregresse, di  privatizzazioni selvagge, di “liberalizzazioni” devastanti e di svendite  al grande capitale del patrimonio pubblico.
Abbiamo  alle spalle decenni di spostamento di quote sempre più ingenti del  prodotto sociale dal Lavoro al Capitale, e di autentica e impoverente  “oppressione finanziaria”, in nome di quella libera circolazione dei  capitali [e delle merci, molto meno delle idee e delle persone] che è  nota ai più con l’espressione di “globalizzazione neoliberista”.
Tutto  questo è avvenuto sotto l’egida del Libero Mercato e della Società di  Mercato, della Libertà di Iniziativa Economica quale unica libertà oggi  riconosciuta e del Diritto alla Proprietà Privata, spacciato come  diritto naturale che, di fatto, sta cancellando tutto il resto, e fra un  po’ schiaccerà non soltanto il sacrosanto diritto al lavoro e ai mezzi  di sussistenza, ma anche lo stesso diritto alla vita.
A  ciò aggiungiamo pure le imposizioni di quella che è stata recentemente  definita la “Globalizzazione senza veli”, fondata su una divisione  internazionale del lavoro sempre e comunque penalizzante per i  lavoratori e sull’asprezza di una concorrenza portata all’estremo, che  presuppone la demolizione completa delle garanzie sociali in nome di  produttività, efficienza e aumento dei volumi delle esportazioni.
Ma  quale è oggi la reale situazione economica e sociale del paese, dopo le  promesse di “modernizzazione” in cambio della rinuncia progressiva alle  garanzie sociali?
Quali  benefici ha ricavo dallo sviluppo di questi processi, imposti  autoritariamente nel quadro di una democrazia liberale di facciata e  della “piccola politica” fiancheggiatrice, la grande maggioranza della  popolazione italiana?
I  panorami sociali che abbiamo davanti, le stesse prospettive future di  medio periodo sono desolanti e riportano, in prima approssimazione, alle  asprezze del capitalismo della prima rivoluzione industriale  sette-ottecentesca, con l’esaltazione delle libertà allora “borghesi” e  la contestuale negazione dei diritti del lavoro dipendente e  subordinato, come ha messo bene in rilievo Cremaschi.
In  pratica, sempre secondo Giorgio Cremaschi, siamo arrivati all’assurdo  che l’”opposizione” politica ufficiale [Pd, IdV, girotondini, popoli  viola ed altri], si mobilita in grande stile nella difesa “libertà di  stampa” e di espressione contro il monopolio governativo-berlusconiano, e  poi trascura, sottostima o finge di non vedere le grandi questioni  sociali e del lavoro poste dall’azione della Fiat in Italia, da  Termini-Imerese in avanti, fino a Pomigliano a Melfi, rendendosi  complice dei misfatti di questo capitalismo.
Un  po’ come la borghesia francese ed europea sette-ottocentesca, che  difendeva a spada tratta la cosiddetta Liberté de la Presse, ossia la  libertà di espressione e di stampa, quale libertà fondamentale garantita  all’astratto individuo di matrice liberale, e nel concreto ad una  ristretta minoranza di privilegiati, ma ignorava ipocritamente le  terribili condizioni di vita e lo sfruttamento di tutti coloro che  vivevano negli slums delle prime “città industriali”, i proletari, gli  operai di fabbrica, i minus habentes del tempo.
All’inclusione  capitalistica e alla tradizionale irreggimentazione nella fabbrica, pur  in presenza di estorsione del plusvalore, si sostituisce sempre più  spesso l’esclusione capitalistica, ossia l’espulsione dai rapporti  concreti produzione, che può valere, nei nuovi contesti sociali e  culturali del capitalismo del terzo millennio, l’espulsione da tutti i  rapporti sociali.
Restando  all’interno dell’unico grande sindacato che ancora non ha svenduto la  pelle dei lavoratori alla Confindustria, al governo, alla “piccola  politica”, a differenza della CISL, della UIL e della UGL ormai perdute,  è perciò necessario ed urgente promuovere una vera e propria Area di  Resistenza Anticapitalistica, non soltanto per una difesa “statica” dei  diritti acquisiti, ma soprattutto per elaborare una nuova proposta, che  contrapponga alla visione assolutistica “liberoscambista” un altro  modello di società, un’altra concezione dello sviluppo, delle relazioni  industriali e complessivamente dei rapporti sociali.
Un’Area  che deve nascere, nelle contingenze storiche attuali, in primo luogo  dal consenso e dall’azione delle forze di base, pur suscitati dalle  iniziative della parte più responsabile ed avanzata della dirigenza  sindacale.
Un’Area  che non intende permettere, come già in precedenza la Rete 28 Aprile ma  con un respiro più ampio e con maggior efficacia, una deriva da parte  della CGIL che semplicemente la “faccia rientrare nel grande gioco” al  massacro del Lavoro, assieme alla CISL e alla UIL, assumendo un ruolo  puramente testimoniale nel ratificare la sconfitta finale dei  lavoratori, quale suggello di una lunga stagione di compressione dei  diritti e di impoverimento materiale e culturale.
Ed  in effetti, questo è stata la sostanza del messaggio lanciato da  Giorgio Cremaschi in apertura del dibattito, ripreso poi dal segretario  provinciale della CGIL triestina Antonio Saulle, di provenienza Fiom, e  da molti altri partecipanti intervenuti nel dibattito.
Cremaschi  ha citato Bruno Trentin, il quale, a suo dire, ha fatto cose buone e  meno buone nel periodo in cui era alla guida della CGIL, ma certo ha  compreso la differenza sostanziale fra un sindacato costituito da veri  delegati dei lavoratori ed uno costituito da “fiduciari”, i quali  sostanzialmente hanno la funzione di trasmettere alla base le decisioni  dell’alta dirigenza, di bloccare qualsivoglia contestazione e qualunque  iniziativa sgradita ai vertici.
L’Area  vuole evitare che accada in CGIL ciò che accade regolarmente nella  CISL, prototipo del sindacato giallo composto unicamente da “fiduciari”,  in cui di recente, nonostante una prima adesione delle RSU Fim agli  scioperi contro la Fiat vi è stata poi l’improvvisa ritirata, in seguito  all’attivarsi della catena di comando e di trasmissione ordini,  attraverso la quale l’impresentabile Bonanni [che forse già pregusta la  presidenza dell’INPS dopo la scadenza del mandato sindacale, quale  premio concessogli dal padrone] ha telefonato in Fim imponendo ai  “fiduciari di bloccare l’agitazione, disposizione che gli stessi hanno  diligentemente eseguito bloccando la partecipazione dei tesserati alle  agitazioni.
Cremaschi,  e assieme a lui tutti quelli che hanno aderito all’Area, vuole evitare,  attraverso l’azione sindacale e politica concreta, che la CGIL “rientri  nei ranghi” sistemici a testa bassa, trasformandosi in un “sindacato  dei fiduciari”, in una copia della UIL, o ancor peggio della CISL.
Ma la prassi delle disposizioni calate dall’alto spesso si combina con le mancate consultazioni della base.
La  nuova Area fondata sulla partecipazione e la libertà d’iniziativa, non  vuole che in futuro la CGIL accetti condizioni contrattuali capestro  senza consultare i lavoratori, tesserati e non tesserati, in una deriva  tipica di CISL e UIL che temono il voto dei diretti interessati e  decidono in totale spregio della democrazia sindacale.
In  questi ultimi tempi, il sindacalismo giallo dei “fiduciari” ha sempre  rifiutato le consultazioni che coinvolgono tutti i lavoratori, in  occasione dell’approvazione di piattaforme ed accordi importanti, ed ha  mistificato producendo i risultati [in qualche caso “bulgari”] di non  ben definite “consultazioni” fra i soli iscritti.
E’  in ballo anche la stessa concezione di sindacato, che dovrebbe  rappresentare tutti i lavoratori, e non operare come un “centro di  assistenza e servizi” per i soli iscritti, gerarchizzato e in mano ai  “fiduciari”.
Non è certo un caso se il punto quattro del documento congressuale e programmatico “La CGIL che vogliamo” rivendica che «Tutta  l’azione sindacale deve essere fondata sulla democrazia, cioè sul  diritto delle lavoratrici e dei lavoratori a scegliere chi li  rappresenta e a decidere con il voto segreto sulle piattaforme e sugli  accordi».
L’emarginazione  della CGIL, che non si è piegata ai ricatti operati da Confindustria e  Fiat, con la compiacenza ed il supporto del governo Berlusconi e  l’acquiescenza di un’opposizione parlamentare “di facciata”, non ha però  ancora prodotto una reazione adeguata da parte del maggiore sindacato  italiano, a causa dell’affermazione al suo interno di una linea di  maggioranza prudentemente attendista e ben poco incisiva sul piano della  lotta.
Il  primo e più ovvio obbiettivo dell’Area, dopo la necessaria  formalizzazione della sua esistenza nella CGIL, sarà quello di fare  opera di sensibilizzazione, in particolare fra gli iscritti ed i  rappresentanti di base nelle aziende, per riuscire a conquistare la  maggioranza dei consensi ed operare l’attesa svolta.
Per  tale motivo non vi sarà, come ha assicurato Giorgio Cremaschi, un  particolare interesse per l’entrata nel futuro direttivo nazionale,  quando la Camusso succederà all’uscente Epifani, nel segno di una  probabile continuità con la mozione di maggioranza che ha prevalso  nell’ultimo congresso.
Anzi,  essendo prioritario l’obbiettivo di cambiare l’unico sindacato rimasto  in Italia, quale ultimo baluardo di milioni di lavoratori pubblici e  privati, ci sarà piuttosto il netto rifiuto di un compromesso in cambio  di “posti” nel direttivo.
Per  non duplicare le strutture e superare la gerarchizzazione presente  nelle federazioni, chi è già membro di un direttivo, di categoria o  confederale, ed ha potere esecutivo nell’organizzazione, non  necessariamente dovrà esserlo nell’Area, e le iniziative potranno  partire da qualunque aderente, se condivise.
Del  resto, il documento programmatico noto come mozione congressuale numero  due, al punto 5 sottolinea l’irrinunciabilità della pratica della  democrazia «che i dirigenti dell’organizzazione a tutti i livelli devono considerare un dovere assoluto nei propri comportamenti», anteponendo la democrazia sindacale quale pratica prioritaria dell’organizzazione a forme di centralismo verticistico.
Cremaschi  non ha certo lesinato critiche all’attuale “gestione” Epifani, che  oltre ad attendere una chiamata per ricostituire l’unità sindacale,  possibile oggi soltanto aderendo alla linea collaborazionista di CISL e  UIL, attacca l’esecutivo in carica e si “dimentica” di attaccare la  Confindustria, che tanti colpi sta infliggendo ai lavoratori, ultimo dei  quali la denuncia dell’accordo del 2008 con i metalmeccanici, siglato,  guarda caso, anche dalla Fiom-CGIL.
E’  necessario comprendere da dove vengono i colpi, chi è il Nemico, e  dirlo chiaramente ai lavoratori, perché altrimenti si potrebbe pensare  che caduto il governo Berlusconi [come tutti noi ci auguriamo], finita  la fase del berlusconismo che ha funestato quasi un ventennio della  storia d’Italia, liquidati con qualche “buonuscita” Sacconi, Brunetta e  Tremonti, tutto andrà a posto, e cesserà come per incanto l’attacco al  contratto nazionale e al Lavoro in generale, mentre così non sarà,  perché non è nelle intenzioni né della Marcegaglia né del suo compare  Marchionne recedere, e interrompere l’attacco finale ai diritti dei  lavoratori.
Per  questo è necessario conquistare in futuro la maggioranza, all’interno  della CGIL, e scioglierla definitivamente, come ha detto senza parafrasi  Giorgio Cremaschi, dall’”abbraccio” del Pd.
E’  un po’ l’abbraccio del morto che trattiene il vivo ed impedisce  l’affermarsi del nuovo, in una libera interpretazione della celebre  espressione di Karl Marx in lingua francese «le mort saisit le vif».
Infatti,  l’abbraccio del Pd potrà rivelarsi mortale, se farà scivolare l’unico  sindacato rimasto lungo la china dell’accettazione passiva delle  presenti dinamiche, imponendogli di assumere un ruolo minore di servizio  e assistenza ai lavoratori, ormai rinchiusi in quel “recinto” che  prospettano per loro la Confindustria, il governo Berlusconi-Lega [la  Lega delle “gabbie salariali”, per intenderci] ed a parere di chi scrive  lo stesso Pd acquiescente.
A  questo riguardo mi sento di richiamare le parole di Bruno Trentin,  citato da Cremaschi, il quale meglio di tanti altri ha stigmatizzato il  “trasformismo politico” delle varie componenti della sinistra italiana  contemporanea «alla ricerca di un “apriti Sesamo” che schiuda loro la strada dell’accesso nel club delle classi dirigenti», con il triste risultato che «sono  entrate a far parte delle innovazioni "riformiste" della sinistra, di  volta in volta, la riduzione dei salari per i nuovi assunti, la  flessibilità del lavoro senza la sicurezza di una impiegabilità  attraverso la formazione, la monetizzazione dell’articolo 18, il taglio  delle pensioni di anzianità, senza riflettere sulle cause, tutte  italiane, dell’esplulsione dal mercato del lavoro di centinaia di  migliaia di lavoratori anziani, condannandoli alla disoccupazione in  attesa delle pensioni» [Bruno Trentin, Il pericolo del trasformismo, L’Unità, novembre 2003].
Cremaschi  e l’Area vogliono, in poche parole, abbattere attraverso l’azione  politica e sindacale il “recinto” che dovrebbe imprigionare i lavoratori  nel prossimo futuro, sventando la manovra confindustriale di  Marcegaglia e del suo vice Bombassei, e rispondendo adeguatamente, in  termini di lotta concreta, ai “blitz” di manager globalisti come  Marchionne.
Se  la lotta di classe è oggi una prerogativa dei soli padroni, che la  fanno contro il Lavoro, ed è interdetta ai lavoratori che devono  soltanto subirla, pena l’accusa di fomentare “l’odio di classe” e la  sovversione, ecco un’espressione che dovrà tornare in uso, in un  contesto sindacale maggiormente dialettico, a fronte di azioni di lotta  dure ed incisive, se necessario, che possano avere qualche efficacia e  portare a casa qualche risultato concreto.
Una  nuova stagione di lotta sembra l’unica via praticabile per opporsi  efficacemente alla guerra globalista scatenata dai Marchionne e dai  gruppi di dominio della Global class, che mettono l’uno contro l’altro,  in un mortale gioco al ribasso dei salari e dei diritti, i lavoratori  italiani, quelli tedeschi, quelli polacchi, quelli serbi, un po’ come  gli imperialismi dello scorso millennio aizzavano l’uno contro l’altro i  popoli nelle loro sanguinose guerre elitistiche.
E’  chiaro che una CGIL “ingessata” e attendista, sulle posizioni di  Epifani e della Camusso, non può e non potrà affrontare le grandi sfide  che questa autentica svolta di Evo drammaticamente ci impone, ma potrà  soltanto cedere alle pressioni e “rientrare nel gioco” a capo chino,  rinunciando alla sua storia e lasciando soli le lavoratrici e i  lavoratori.
La  mia personale speranza è che l’Area non si areni nelle secche del  burocraticismo, del verticismo e dell’insufficiente partecipazione di  base, ma riesca a sviluppare programmi nuovi, estendendo  progressivamente le sue competenze e la sua influenza oltre i confini  sindacali.
La  “piccola politica” sistemica [per usare un’espressione gentile] ha  prodotto programmi politici fotocopia, si è sottomessa agli interessi  sovrani d’oltre oceano, di natura finanziaria e ultra-liberista, ha  supportato le manovre de-emancipatrici dell’industria decotta che spesso  si nutre di denaro pubblico [leggi Confindustria, Fiat], ha tollerato  la grande e la piccola evasione fiscale e contributiva ed ha fatto  pagare il conto di tutto ai lavoratori, ai pensionati, alle giovani  generazioni.
Ma  questa politica ha fatto di peggio, contribuendo a diffondere nel paese  insicurezza, degrado, impoverimento culturale, illegalità ad ogni  livello della scala sociale, che costituiscono i lasciti reali, per le  classi subalterne, della cosiddetta società di mercato e del liberismo  economico globale.
L’accusa  non va rivolta esclusivamente all’attuale maggioranza di governo, ma va  estesa a tutta l’area della politica sistemica, se è vero che durante  lo sviluppo della vicenda Fiat, con minacce di chiusure di stabilimenti e  di denuncia del CCNL metalmeccanici, i pidiessini discutevano di  questioni quali l’opportunità di chiamarsi vicendevolmente “compagni”[!]  nei loro inutili consessi, disinteressandosi bellamente dell’emergenza  sociale che stava montando.
Ancor  peggio dei bizantini nel quindicesimo secolo, quindi, che discettavano  su questioni di natura teologica – un po’ più rilevanti e raffinate di  quelle che interessano la nomenklatura del Pd – mentre gli Ottomani  erano già sul Bosforo …
I  territori abbandonati al degrado culturale e sociale dalla piccola  politica, che vive nelle dimensioni del privilegio e si pone al servizio  dei grandi interessi, sono grandi ormai quanto il deserto dei Gobi, e  sono proprio questa “desertificazione” e questo abbandono che imporranno  in futuro all’Area, se saprà crescere ed estendere la sua influenza  all’interno della CGIL, di uscire da quelle sono le competenze storiche  del sindacato per assumersi ben altre responsabilità ed oneri,  diventando un vero e proprio Movimento Anticapitalista.
Grazie per l’attenzione
Eugenio Orso
 
 
 
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