mercoledì 22 febbraio 2012

Riforma delle pensioni, per la Cgil "un furto legalizzato"

Centinaia di migliaia di lavoratori fuori dal lavoro e senza pensione, oppure costretti a pagare una seconda volta i contributi previdenziali. Il patronato Inca Cgil non usa mezzi termini per definire la "ricongiunzione onerosa" dei contributi. Domanda a Fornero: "Può una nuova legge cancellare contratti e accordi già firmati?"

Un «furto legalizzato», ma anche «il delirio di un folle». Si sta parlando degli effetti concreti della prodigiosa «riforma delle pensioni» approvata in pochi giorni dal governo Monti. 
L'Inca Cgil ha voluto limitare la sua denuncia, ieri, soltanto a due «effetti diretti» di quel provvedimento, nel timore - fondato - che i giornalisti si perdessero negli infiniti meandri una una «riforma» fatta secondo criteri che ricordano il tracciamento coloniale dei confini di certi paesi sahariani: con la riga e la squadra, senza guardare chi cadeva dentro o fuori.
Il primo punto riguarda i cosiddetti «esodati», lavoratori messi fuori dalla produzione grazie ad accordi sottoscritti con l'azienda e con il governo, secondo le regole pensionistiche in vigore fino al 4 dicembre 2011. Gente al momento senza pensione, senza più posto di lavoro e spesso persino senza ammortizzatori sociali. La platea identificata dall'Inca comprende quanti sono ancora in mobilità o che stavano per andarci, ma anche chi è uscito per crisi e ristrutturazione aziendale, quanti sono stati convinti dall'azienda ad uscirsene con incentivi, ché tanto le pensione era lì a un passo.
La «riforma» ha confermato il taglio dei ponti alle spalle, ma ha allontanato il traguardi di molti anni (fino a 7, in alcuni casi). Il loro numero è stato quantificato dall'Inps in 70.000, inizialmente; ma si riferisce solo ai casi già arrivati all'attenzione dell'istituto, ossia accordi siglati prima del 4 dicembre. Ma da allora sono andati in porto dismissioni importanti (Termini Imerese e Irisbus, per dirne due), con migliaia di persone coinvolte. La manovra prevedeva una «cifra x», da decidere, per «coprire» queste posizioni; ma ammoniva anche che si trattava di un fondo «a esaurimento»: finché c'erano soldi si paga, poi amen. Con buona parte di un diritto fin qui certo (l'andare in pensione dopo una vita di lavoro).
L'iter parlamentare del «milleproroghe», che doveva porre riparo alla «disattenzione» del governo, peggiorava addirittura la situazione: veniva allargata la platea dei possibili beneficiari, ma il fondo rimaneva uguale. La Cgil - spiegano sia Vera Lamonica (segretario confederale) che Morena Piccinini, presidente dell'Inca - chiede di sapere se «gli accordi con il governo sono validi o no?»; e, dal ministro, «qual'è l'atto riparativo che ha promesso e quando sarà deliberato». Ma il ministro Fornero, per ora, non ha mai neppure risposto.
La seconda questione è in prospettiva persino più esplosiva, anche se già ora sta facendo danni formidabili. Si parla della «ricongiunzione contributiva onerosa», una misura decisa dal governo Berlusconi - ai tempi della sua «riforma delle pensioni. Avendo deciso di equiparare l'età pensionabile delle donne a quelle degli uomini, nel pubblico impiego (uno «scalone» di ben 5 anni), si pensava che molte avrebbero preferito ritirarsi subito, anche prendendo un assegno minore. Quindi, per scoraggiarle, fu deciso di far loro pagare la «ricongiunzione» tra i diversi periodi contributivi della loro vita lavorativa. Ben poche vi fecero ricorso, ma la norma è rimasta.
L'attuale governo ha avuto il colpo di genio, rivelando solo qui una «competenza tecnica» degna di miglior causa: ha esteso a tutti questa norma. Con effetti letali. Misura decisa «per equità», perché «era necessario metter fine ai privilegi», dice il governo. Mentendo. La «ricongiunzione» - tra istituti che oltretutto sono in corso di unificazione, come Inpdap e Inps - è sempre stata gratuita per chi passava da un trattamento migliore a uno peggiore; onerosa solo per il viceversa. Ora pagano tutti, a prescindere.
La tragedia nasce dal fatto che si è obbligati a pagare - e cifre inconcepibili, per un lavoratore dipendente: decine di migliaia di euro - se per caso, pur avendo fatto sempre lo stesso lavoro nella stessa azienda, è cambiata la «ragione sociale» della ditta. È il caso delle Poste e Ipost, con persone contributivamente trasferite - per decisione dell'allora a.d., Corrado Passera - dall'Inpdap (statali) all'Inps (privati). Ora dovrebbero ripagarsi una seconda volta tutto un (lungo) periodo contributivo già versato, altrimenti la loro pensione sarà quella di uno che ha lavorato appena 20-25 anni. Di fatto, gli anni di contributi non utilizzabili sono incamerati senza un servizio corrispettivo. È dunque legittimo parlare di «furto legalizzato», con lo Stato nella parte del ladro.
Ma si trovano nella stessa situazione anche tutti coloro che sono stati «privatizzati» (le municipalizzate, Telecom, Alitalia, ecc), scorporati, esternalizzati, o riassunti da una «newco» (pensate a Fiat? toccherà anche a loro, ovvio). Per non dire dire dei giovani che, secondo gli stessi ministri, «devono abituarsi a cambiare spesso lavoro». Cosa accadrà quando, com'è giusto, dovranno «ritirarsi»? Quanto dovranno versare per «riunificare» una carriera lavorativa svolta sotto 12 o 20 società diverse, tra periodi mancanti o fasi da «partita Iva»? Di fatto, quello che era il diritto alla pensione per chi ha sempre lavorato, diventa ora «una lotteria», o un diritto puramente «ipotetico». Ossia l'esatto contrario di un diritto garantito dallo Stato.
La Cgil minaccia ovviamente cause legali. Ma a lavoratori che pure hanno lo stesso problema sembra impossibile persino praticare la strada della class action. Pare che il genio legislativo che l'ha materialmente scritta l'abbia congegnata in modo tale da renderla inapplicabile; perlomeno in casi simili.
Un comma 22. 
La domanda che anche in casa Cgil sorge al termine di questa disarmante ricognizione è abbastanza precisa: «ma una nuova legge può sciogliere contratti e regole precedenti, liberamente sottoscritti da soggetti indipendenti e persino dallo Stato?». In regime di democrazia, no. Può accadere solo in caso di golpe o di rivoluzione. Ma, quest'ultima, non l'abbiamo vista passare...

manifesto - 22/02/2012

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