venerdì 3 febbraio 2012

L’articolo 18: la vera posta in gioco

Nella concitazione creata da una crisi bancaria rapidamente addossata ai cittadini, e in particolare ai lavoratori dipendenti, in Italia si è ritornati a parlare con vigore di flessibilizzazione del mercato del lavoro (ovvero di ulteriore facilitazione al licenziamento) e dell’eliminazione del famigerato art. 18 dello statuto dei lavoratori. Queste discussioni si svolgono all’interno di un più ampio dibattito a livello europeo incoraggiato dai grandi gruppi finanziari e industriali e ripreso nelle varie istituzioni che di fatto li rappresentano a livello politico, BCE, Commissione Europea, FMI (la Troika). Interventi in tal senso sono già stati realizzati nei paesi ora più indeboliti, quali Spagna (riforma del 2010: Ley n. 35/2010) e Grecia.
Inizialmente, queste riforme sono state difese da Confindustria e accoliti in quanto considerate necessarie per liberare un mercato descritto come eccessivamente rigido, e la cui rigidezza incideva in modo esiziale sulle capacità economiche del paese. Prescindendo dal fatto che la flessibilità del lavoro non è mai stata dimostrata essere un fattore né di crescita né di miglioramento della qualità della vita (almeno sul medio-lungo termine), questo quadro è smentito dai fatti e dai dati. La visione dei paladini del licenziamento è talmente grottesca e irrispettosa del dramma inflitto alla vita di migliaia di persone licenziate negli ultimi anni (senza che in alcun modo essi avessero una qualche colpa nel cattivo andamento economico) che anche gli ideologi più estremisti stanno cautamente abbandonando questa strada. Luciano Gallino (uno dei pochissimi studiosi con una certa visibilità rimasti a difendere la verità e i diritti dei lavoratori) ha descritto argutamente e in maniera stentorea, con chiare cifre, questa situazione in due recenti articoli su Repubblica (L. Gallino, I paladini dei diritti cancellati — 31 ottobre 2011; Licenziamenti falso problema — 05 gennaio 2012). Per essere più precisi ed esaustivi, ci si può riferire a documenti redatti da studiosi di diritto anche in merito all’annosa questione del “contratto unico”, e in particolare il Seminario ELLN di Francoforte sul licenziamento individuale in Europa: una sintesi a cura dell’ufficio giuridico CGIL che si può trovare in rete. Nella sintesi si sottolinea con chiarezza che l’Italia è uno dei paesi più flessibili d’Europa, superata praticamente solo dalla Danimarca (perciò presa a campione come modello d’eccezione). L’Italia risulta addirittura caratterizzata da un mercato del lavoro più aperto di paesi quali l’Ungheria, Repubblica Ceca e la Polonia! Dunque, la diffusa convinzione che quello italiano sia un regime iperprotettivo è totalmente smentita dai dati dell’OCSE; nonché dal licenziamento perentorio di centinaia di migliaia di lavoratori a causa di motivi economici avvenuti in questi ultimi anni. Questo spesso a fronte di enormi benefici per gli azionari alla fine dell’anno, sovente ottenuti proprio grazie ai licenziamenti.
La nuova tattica per ottenere l’eliminazione dell’art. 18 consiste nel sottolineare come tale articolo sia di fatto utilizzato in pochissime vertenze giudiziarie e sia un unicum italiano. Questi due punti sono stati drammaticamente integrati anche da parte del centro-sinistra.
Il secondo punto è semplicemente falso. In altri paesi europei il lavoratore può chiedere al giudice di reintegrarlo nel posto di lavoro a seguito di un giudizio “sommario” di bilanciamento degli interessi in gioco (così in Germania e, in termini simili, in Austria, Grecia, Belgio e Irlanda). In molti altri paesi questo non è possibile, ma delle tutele speciali sono previste contro il licenziamento illegittimo. Si legga la sintesi del seminario CGIL per informazioni più precise.
Il primo punto è più sottile. E’ vero che in pochi casi si fa riferimento all’articolo 18 in cause tra lavoratori e imprese e che talora, in Italia come all’estero, il procedimento di può concludere ugualmente con un indennizzo anche qualora il reintegro sia formalmente possibile. Ciò che si rileva, in realtà, è la funzione di deterrente che la sanzione della reintegrazione prospetta: e questa non appare diversa in Italia rispetto agli altri paesi che la prevedono. Al contrario ciò che è anomalo in Italia è la soglia che caratterizza le piccole imprese, la quale risulta ben troppo elevata: 15 dipendenti, cifra basata sullo stabilimento e non sull’intera impresa. Negli altri paesi questa soglia è o assente o molto inferiore, per esempio in Francia è 10, considerando l’impresa. Del resto, se veramente l’art. 18 non fosse che un orpello ideologico del sindacato vuoto di senso, perché tanto accanimento nel volerlo eliminare?
Riassumendo, le imprese in Italia hanno la possibilità di assumere in un mercato del lavoro tra i più flessibili dell’occidente, in cui il ricorso a contratti atipici è la regola dall’approvazione della cosiddetta “legge Biagi” 2003. I licenziamenti si fanno in maniera massiccia, sia grazie alle inesistenti coperture di legge sui contratti atipici, sia grazie ai motivi economici, veri o presunti tali.
Perché allora le istituzioni finanziarie, la Confindustria e i loro rappresentanti politici (governo Monti) continuano a martellare sulla necessità di eliminare l’articolo di 18?
Ecco la risposta. Una sola cosa, sostanzialmente, non è ancora possibile nella giungla del lavoro italiano, licenziare individualmente: nome e cognome.
E’ vero che questo grande passo in avanti sarebbe possibile grazie a quell’obbrobrio giuridico che è il famigerato art. 8 inserito nella c.d. manovra-bis di agosto (in tal senso, si veda il sempre lucido L. Gallino che riassume l’effetto di questo articolo con “A ben vedere, il legislatore poteva condensare l’intero articolo 8 in una sola riga che dicesse “i contratti collettivi nazionali sono aboliti e con essi tutte le norme concernenti il diritto del lavoro” in “Come abolire il diritto del lavoro”, Repubblica 5 settembre 2011; si veda anche “La minaccia dell’articolo 8” Repubblica 15 settembre 2011). Tuttavia, tale norma rimane solo una bomba a orologeria, in quanto il suo impatto dipende dall’attuazione che di esso ne verrà data nelle singole aziende e nei singoli contesti territoriali. E le parti sociali con l’accordo del 21settembre 2011 hanno escluso di volere attuare la norma proprio in relazione a tale materia.
Quindi per il momento le aziende non possono licenziare tranquillamente un singolo individuo perché “rompiballe”, senza il timore di rivederselo tornare reintegrato da un bieco giudice. Questo è quanto è successo, per esempio, nel famoso caso dei tre operai sindacalisti dello stabilimento FIAT di Melfi. Si comprende allora il vero interesse intorno a tale questione. Pur in un momento di globale crisi della classe lavoratrice, con un arretramento continuo e, per ora, inesorabile delle condizioni di vita e di lavoro, alcuni sindacati e alcuni sindacalisti tentano di difendere quel poco che rimane dei diritti dei lavoratori e aiutano i loro compagni a non piegarsi ai diktat delle aziende.
Eliminando l’art. 18, le imprese potranno finalmente “dar sfogo alla loro turpe voglia” e licenziare in tronco tutti gli operai ritenuti indomiti (sindacalizzati e non) per poi attuare una dura politica antisindacale; come del resto fanno le grandi aziende europee quando si trasferiscono in paesi dalla legislazione più arretrata, quali gli Stati Uniti. In tal modo avranno stroncato ogni tipo di residuale opposizione alla loro politica neo-schiavistica e la regressione a condizioni di lavoro da inizio 1900 sarà finalmente ultimata. Probabilmente con il plauso del Pd.
di Sergio Chibbaro
“Maître de conférences” (assistant professor) all’Università “Paris 6″,delegato della Confédération Générale du Travail, CGT
Nazione Indiana - 21/01/2012

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