venerdì 29 luglio 2011

Ritornare allo spirito del '92? Anche no.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, e particolarmente dopo l’avvio della politica di concertazione all'inizio degli anni Novanta, le condizioni dei lavoratori italiani sono peggiorate senza soluzione di continuità e ogni accordo sindacale ha sancito ulteriori slittamenti delle condizioni di lavoro. I salari medi dei lavoratori italiani  figurano al 23esimo posto tra quelli dei paesi Ocse, con i lavoratori della Corea del Sud che guadagnano esattamente il doppio. Eppure l’Italia, anche arretrando, non è ancora la ventitreesima economia del mondo!  Dal 1988 al 2006 (cioè prima della crisi) i salari reali italiani, sempre stando ai dati dell’Ocse, sono diminuiti del 13 per cento: una diminuzione che è il doppio di quella registrata tra gli 11 paesi più industrializzati. Se i salari italiani figurano tra i più bassi, la disoccupazione, specie giovanile, è tra le più alte d’Europa, lo spostamento di ricchezza dai salari verso rendite e profitti tra i più accentuati, il dilagare del lavoro precario, nato insieme ai governi di centrosinistra, ha raggiunto il punto che, nel 2010, l’80 per cento dei nuovi assunti hanno avuto contratti a tempo determinato o precari. Il bilancio sociale dell’Italia dell’ultimo ventennio non è negativo ma disastroso, soprattutto se  paragonato a quello dei nostri grandi vicini europei.
Era questo un percorso scontato per la società e l’economia italiana che, ancora negli anni Ottanta, vedeva i lavoratori italiani fra i meglio pagati e tutelati del mondo?
Giacché di scontato non c’è nulla, per comprendere questa scivolata sociale dell'Italia occorrerà tenere conto delle pressioni della competizione internazionale e delle specificità italiane in questo contesto, della necessità di fare i conti con il peso del debito pubblico ereditato, ma certamente anche dell’incapacità della sinistra politica e sociale di reagire in modo creativo allo straripante dilagare di idee neoliberali incentrate su flessibilità lavorative e svendita del patrimonio comune. L’Italia è entrata nell’euro nel modo più semplice, cioè interamente sulle spalle della classe media. L’incapacità della sinistra di evitare il progressivo collasso sociale include, ovviamente, la debolezza e la scarsa combattività di settori largamente maggioritari del mondo sindacale, ivi compresa la Cgil che ha unito una politica sostanzialmente appiattita su quella dei governi moderati di centrosinistra ad alzate di testa quanto mai opportune, sebbene simboliche e sporadiche, contro i governo di centrodestra.
Parte della società italiana ha saputo reagire al propagarsi del virus della politica delle tangenti, dell’abbandono dei beni comuni in favore di una loro svendita a privati, di una politica fatta di giorno per giorno, di ritorno alla guerra come strumento di politica estera, e se non si è mai veramente data per vinta. Testimonianze: il movimento altermondista di Genova nel 2001 e il Forum sociale di Firenze, le oceaniche manifestazioni per la pace, il canto del cigno dei 3 milioni del Circo Massimo, l’Onda degli studenti, fino a tutti i più recenti episodi di rilancio della partecipazione popolare, come i successi nei referendum per un bene comune come l’acqua e la gigantesca manifestazione di metalmeccanici e studenti del 16 ottobre scorso. Settori del sindacato sono stati coinvolti in questi movimenti, altri hanno subito passivamente questi sussulti della società.
Oggi ci troviamo di fronte ad una realtà fatta di impoverimento della classe media mascherata da austerità e della pressione delle aziende che competono nei mercati internazionali che intendono far cassa risparmiando sulla forza lavoro piuttosto che concentrandosi su qualità del prodotto e innovazione. E’ per questo che si chiedono modifiche del modello contrattuale tali da garantire più lavoro e la stabilità nelle aziende attraverso il coinvolgimento di tutti gli attori dotati di peso e di capacità organizzativa. Il principale ostacolo a questo progetto è ancora rappresentato da una società non totalmente addormentata cui però stanno venendo meno tutti i supporti legislativi per agire e un modello culturale cui rifarsi.
In questa situazione la scelta della Cgil di siglare l’accordo interconfederale del 28 giugno, nonché le recenti dichiarazioni su un necessario "patto per la crescita", appaiono una resa su tutta la linea. Appare una resa formale perché organizzazioni che avevano siglato ogni tipo di contratti separati vengono premiate da Susanna Camusso con una stretta di mano che verrà fatta pesare nei prossimi mesi. Peggio ancora, è una resa sostanziale perché contiene clausole e un sottotesto che completerebbero la lenta trasformazione del sindacato in un organismo sempre più impermeabile ai movimenti sociali e civili, principalmente teso alla sua conservazione, alla ricerca delle legittimazione che gli viene offerta dalle controparti, siano esse quelle imprenditoriali, sindacali, che quelle politiche e governative.
Due cose in particolare nell’accordo fanno capire come la Cgil stia volontariamente abbandonando la lunga tradizione di rappresentanza del movimento dei lavoratori per trasformarsi in una più burocratica organizzazione degli iscritti.
In primo luogo, e proprio nel momento in cui il riferimento al sindacato nella società italiana è in forte crisi, si impedisce ai lavoratori non iscritti qualsiasi ruolo nel decidere delle proprie condizioni lavorative. Sui contratti collettivi nazionali non è prevista dall’accordo alcuna partecipazione attiva dei lavoratori nemmeno in sede di validazione finale, se non una clausola che impone ai sindacati una rappresentatività minima del 5 per cento dei lavoratori di un determinato settore. Nei contratti aziendali, cui si attribuisce una sempre maggiore importanza, dove vi sono le Rappresentanze Sindacali Unitarie questi contratti possono essere firmati a maggioranza e anche qui senza nessun voto diretto dei lavoratori.
In secondo luogo, e a completare il modello maggioritario previsto, alle organizzazioni  sindacali, che abbiano o meno firmato gli accordi, potrebbero essere applicate clausole di tregua che in sostanza ne limiterebbero il diritto di proclamare lo sciopero. 
Con il modello prefigurato da questi accordi, i lavoratori, e sono la stragrande maggioranza, che non sono iscritti al sindacato – così come i tutti i lavoratori precari anche iscritti al sindacato ma per forza maggiore con tessere a tempo – non potranno in nessun modo esprimersi sulle proprie condizioni di lavoro. Mentre quelli iscritti al sindacato conteranno solo ed esclusivamente al momento delle elezioni delle Rsu, dopodichè dovrebbero cedere ogni potere ai rappresentanti sindacali. Proprio in un momento in cui emergono cittadini che si mobilitano e desiderano essere protagonisti, quello che resta ancora il maggiore sindacato italiano acconsente a modificare il modello delle decisioni nei luoghi di lavoro oggettivamente a discapito della possibilità di partecipazione diretta.
Si dice che la Cgil non avrebbe potuto fare altrimenti; che avrebbe corso il rischio di rimanere isolata. L’unico isolamento che la Cgil dovrebbe temere è l’isolamento dai lavoratori, in primo luogo da quelli non iscritti al sindacato, nonché dall’esercito di milioni di precari che non hanno trovato alcun sostegno reale nel sindacato e che restano disorganizzati. Le uniche riforme che dovrebbe prevedere riguardano una maggiore partecipazione nel momento delle scelte, la disarticolazione delle logiche burocratiche interne con una maggiore alternanza fra lavoro e attività sindacale, una attenuazione del peso dei pensionati nelle decisioni sul lavoro nonché sugli assetti di potere interni ai sindacati confederali, l’inclusione a pieno titolo dei precari nelle attività e nelle decisioni, la riduzioni delle forme contrattuali, la sfida di impegnarsi a conquistare ogni anno i propri iscritti magari rinunciando autonomamente alle detrazioni automatiche in busta paga.
E per evitare di rimanere isolata dal mondo che comunque inarrestabile viene avanti, la dirigenza della Cgil ha adesso una principale strada da percorrere: quella di seguire la voglia di partecipazione della società e promuovere un vero referendum sull’accordo interconfederale. Un referendum in cui siano previste assemblee che diano voce ai comitati del sì così come a quelli del no, con regole chiare e osservatori di entrambi i comitati. Un referendum che chiami a votare gli iscritti alla Cgil, anche e soprattutto i precari, e di tutte le categorie, visto che l’accordo prefigura un modello di relazioni  che non vale solo per l’industria ma  potrebbe ripercuotersi con i suoi effetti su tutto il mondo del lavoro.
Insomma invece di pensare al nuovo patto sociale il sindacato dovrebbe pensare a migliorare i processi democratici al suo interno e a ragionare su un modello di crescita alternativo a quello esistente, alternativo a quello proposto da Confindustria, Cisl e Uil.
di Giuliano Garavini

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