"Nella Costituzione il lavoro è un diritto, la riforma Fornero invece lo  declassa a mera funzione del profitto. E' in gioco l'interpretazione  della convivenza civile": intervista alla costituzionalista Silvia  Niccolai. 
«Nella Costituzione il lavoro è un diritto,  cioè un'espressione della personalità degli esseri umani. Il lavoratore è  interessato a conservarlo a prescindere dal ritorno economico. Per la  Carta il lavoro ha un valore che non coincide puramente con il profitto  che il datore ne trae. La proposta dal governo, almeno secondo la bozza  che è stata licenziata «salvo intese», rovescia questa impostazione. E  stabilisce che il lavoro vale anche meno di altri beni della persona». 
Professoressa Silvia Niccolai, docente di diritto costituzionale all'Università di Cagliari, può spiegare questa innovazione?
Lo  faccio con un esempio. Nel testo del governo il reintegro del  lavoratore è previsto nel caso di licenziamento discriminatorio, ovvio, e  anche in caso di licenziamento disciplinare quanto i motivi addotti  dall'azienda risultassero falsi. Evidentemente la logica del reintegro,  in questo caso, è quella di riparare a un'offesa nell'onore personale,  esempio: ti ho accusato di rubare in fabbrica e non era vero. Invece se  ti ho licenziato per motivi economici, anche se poi risulta che questi  motivi non esistevano, non è previsto il reintegro. Significa che  sottrarre il lavoro a una persona per un motivo che non può essere  dimostrato non offende quella persona in un bene paragonabile all'onore  personale.
È una sua deduzione?
Non c'è  bisogno di dedurre alcunché: è scritto. Leggo dal documento del governo:  "La tutela nei confronti del licenziamento discriminatorio rimane,  pertanto, piena ed assoluta, comportando esso la lesione di beni  fondamentali del lavoratore, di rilievo costituzionale". Come dire che  il diritto al proprio lavoro non fa più parte dei beni fondamentali  costituzionalmente rilevanti. Viene declassato a funzione del profitto.
Solo perché la reintegra è sostituita con il risarcimento?
Secondo  lo statuto dei lavoratori la reintegra non è solo una sanzione. È  soprattutto il riconoscimento del diritto della personalità del  lavoratore di esprimersi nel lavoro. Per questo oggi è previsto che chi è  stato licenziato ingiustamente possa rientrare, portando con sé tutto  quello che magari non piace al datore: l'attività sindacale o le proprie  esigenze di orario legate allo sviluppo della sua vita.
Le imprese, si obietta, non possono affidare il loro destino ai giudici.
Poter  discutere davanti a un giudice le ragioni del licenziamento economico,  poter sostenere che quelle ragioni non c'erano o erano altre, esprime  l'idea che le ragioni dell'impresa siano confrontabili con altri punti  di vista, altri beni e altri valori. La garanzia giurisdizionale quando è  piena e sensata serve a dire che le relazioni che si svolgono nel  lavoro sono relazioni che si svolgono nell'intera società. Non sono  chiuse nel rapporto tra imprenditore e lavoratore. Che cosa è giusto  chiedere a un lavoratore? Che cosa non è giusto? La risposta a queste domande sviluppa un'idea della convivenza.
La disparità di trattamento tra  licenziamento economico e quello disciplinare è tanto forte da violare  il principio di uguaglianza?
La Corte Costituzionale potrebbe  ritenere non irragionevole e non incoerente questa disparità solo  stabilendo che in effetti l'onore è un diritto fondamentale e il lavoro  no. Potrebbe farlo, ma a mio avviso sarebbe una rivoluzione, un  cambiamento nella scala dei valori. È in gioco l'interpretazione della  convivenza civile.
Eppure la tutela per il licenziamento discriminatorio non è stata intaccata.
Non  è così, sarebbe sbagliato e persino pericoloso crederlo. Mi spiego:  oggi il licenziamento discriminatorio fa corpo con quello senza giusta  causa o ingiustificato motivo. La tutela è identica: il reintegro. Di  conseguenza vengono tutelate anche situazioni che non sono tecnicamente  discriminatorie, ad esempio il licenziamento di una persona non per il  colore della sua pelle, la sua religione o il suo orientamento sessuale,  ma magari perché usa la flessibilità dell'orario di lavoro per stare a  casa la mattina con un figlio piccolo. Queste situazioni oggi sono  tutelabili, almeno se ne può discutere. Sotto l'egida di un diritto  antidiscriminatorio in senso stretto non si può. Perché chi non  appartiene alla categoria protetta non può avvalersi di quella clausola.
Cioè il licenziamento dev'essere dichiaratamente discriminatorio?
Sì  ed è una novità pesante. Con l'attuale statuto dei lavoratori tanti  comportamenti ingiusti e sproporzionati che offendono la dignità possono  essere respinti. Non c'è bisogno di provare di essere stati trattati  peggio rispetto ad altri in virtù del fatto che si appartiene a una  categoria protetta. Per la nostra tradizione giuridica, ogni  comportamento che offende la persona nella sua individualità può essere  ritenuto discriminatorio. Secondo la concezione europea e americana che  si vuole affermare, invece, hanno diritto alla protezione determinate  categorie, non la persona. E hanno diritto alla protezione sulla base di  una concezione utilitaristica. Come a dire: è un bene per la società  che le donne non siano discriminate, così lavorano di più.
Andrea Fabozzi - 03/04/2012
il Manifesto
 
 
 
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