di Eugenio Orso
Di seguito presento un’analisi di Giorgio Cremaschi, della FIOM-CIGL e fondatore della Rete 28 Aprile, riguardante l’attacco ai diritti dei lavoratori in una fase di dissesto economico-sociale in atto nel nostro paese, dal titolo eloquente “Al capitalismo piace questa crisi”. La finalità del sindacalista, autore dello scritto, è quella di spiegare le ragioni più profonde dello sciopero generale del 12 dicembre prossimo venturo, che la CGIL ha proclamato in splendida solitudine per contrastare una manovra complessiva dell’esecutivo pidiellino-leghista, la quale sembra rivolta a “riformare” il mondo del lavoro italiano in senso favorevole alla sola industria decotta, riunita sotto le bandiere di Confindustria e decisa a continuare sulla via della compressione dei salari, della progressiva eliminazione delle garanzie ai lavoratori e dello sfruttamento della flessibilità selvaggia del lavoro in ogni settore.L’azione governativa dell’esecutivo pidiellino prevede tutta una serie di misure – da quelle relative alla detassazione dei soli straordinari, che rafforza la componente discrezionale della retribuzione a scapito di quella fissa e garantita, alla deregolamentazione che indebolisce il contratto nazionale [legge n° 133 del 2008], dal ripristino del lavoro a chiamata al peggioramento delle condizioni di salute e sicurezza del lavoratore – che delineano un quadro futuro molto fosco per gran parte della popolazione italiana, che di lavoro dipendente vive. Ritengo che l’analisi di Cremaschi sul tema del nuovo sfruttamento di un lavoro con sempre meno difese e protezioni sociali sia molto lucida, forse la migliore che ho avuto occasione di leggere in queste ultime settimane, e per tale motivo mi sento quasi in dovere di proporla.Dal mio punto di vista – per altro non troppo dissimile da quello del sindacalista della FIOM – insisto nell’affermare che tutti i segnali ci portano a concludere che il capitalismo internazionalizzato della terza età riassume i duri comportamenti, con effetti dirompenti di vistoso arretramento sul piano sociale, caratteristici del primo capitalismo ottocentesco.In particolare, torna d’attualità la spietata visione dell’economista classico David Ricardo, con la compressione della quota di prodotto riservata ai salari, nell’esaltazione finale di una vera e propria tara genetica del capitalismo: il principio della comparazione dei costi, con la ricerca del più basso costo di produzione che negli ultimi anni ha avuto respiro planetario ed ha conosciuto sempre meno limiti.Ricerca del più basso costo di produzione e massimizzazione del tasso di profitto – al di là di qualsiasi considerazione di ordine sociale, politico ed etico – significa, nella nostra realtà, compressione del costo del lavoro, in particolare se si privilegia, in un ottica meramente “difensiva” rispetto alla concorrenza di mercato, l’innovazione di processo in luogo dell’innovazione di prodotto, caratteristica dell’industria italiana in molti settori, negli ultimi due o tre decenni.Nella postmodernità, dunque, il capitalismo – assunta una dimensione finanziaria di moltiplicazione fittizia della ricchezza e un nomadismo senza uguali nelle epoche precedenti – ha proceduto nel tentativo di “smantellare” gli stati nazionali e le federazioni, ridotti a semplici catene di trasmissione dei suoi interessi, e di depotenziare, in particolare e per ciò che qui interessa, le tutele e coperture sociali assicurate al lavoro dal compromesso fordista e dalla nascita del welfare.Questo processo di autentica distruzione della dimensione politica e sociale, a solo vantaggio di quella privata e finanziaria del capitale, sembra non arrestarsi anche di fronte alla crisi che avanza, la quale potrà essere sistemica, portando a svolte epocali nella storia umana, e non rappresentare soltanto una “congiuntura” come ci fanno credere in molti.Fino a quali livelli si può comprimere il monte salari, a vantaggio della quota del prodotto sociale che va ai profitti?Secondo David Ricardo – che era un agente di cambio figlio di un banchiere ebreo, non dimentichiamolo – fino al minimo livello che può garantire la sopravvivenza del lavoratore e del suo nucleo familiare.In tali contesti e all’interno di questa logica socialmente aberrante, la forza-lavoro deve perciò poter riprodursi, fornire risorse il più possibile “intercambiabili” al capitale, ma non è richiesto né necessario che si emancipi o che gli sia garantito il raggiungimento di un livello di vita materiale più alto.Quanto precede spiega la recente, pelosa “carità pubblica” del IV governo Berlusconi, rivolta esclusivamente agli indigenti – ad esempio attraverso l’uso di una social card caricata mensilmente con pochi spiccioli – e senza vere ed estese misure di sostegno dei redditi da lavoro dipendente.Berlusconi si è detto dispiaciuto di non poter procedere alla detassazione delle tredicesime di operai e impiegati, eppure il pacchetto anti-crisi – di cui si vanta il super ministro dell’economia Giulio Tremonti – può contare su ben “sette strumenti” che si applicano ad un volume della bellezza di 80 miliardi di euro, detassazioni e trasferimenti netti compresi.Nella realtà, si vuole legare sempre di più i livelli retributivi – estendendo la parte variabile e discrezionale del salario a scapito di quella fissa, lasciando dilagare il precariato – agli andamenti economici aziendali, nella privatissima esaltazione della “efficienza”, della “produttività”, della crescita indefinita del tasso di profitto e nell’adorazione totemica del mercato. In paesi deboli e privi di autonomia nel decidere autonomamente le politiche economiche e sociali – quale è, in effetti, l’Italia – pur davanti all’imminenza del disastro non vi potrà essere un’inversione di tendenza, fintanto che ciò non avverrà nel cuore del “sistema” in cui è iniziata l’ultima mutazione del capitalismo, cioè negli Stati Uniti d’America e fino a che il vento del cambiamento non inizierà a soffiare con prepotenza anche nella periferia dell’Europa.Diamo spazio, dopo di questo non brevissimo e spero non inutile commento, alle parole di Cremaschi:
“Al capitalismo piace questa crisi”di Giorgio Cremaschi
Dobbiamo smetterla di discutere delle chiacchiere e guardare alla sostanza dei provvedimenti che vengono presi. Per ora non c'è un solo paese occidentale che abbia deciso misure per far aumentare i salari e fermare i licenziamenti. Anche Obama tace sul salario minimo di legge, che negli Usa è fermo al 1998. Al contrario tutte le decisioni che vengono concretamente varate servono a sostenere le banche, la finanza, i programmi d'investimento, di ristrutturazione, di licenziamento delle imprese. Sotto l'onda dell'emergenza globale si affermano criteri sociali che sono quelli di una vera e propria economia di guerra. E anche gli investimenti militari veri e propri aumentano. Mentre i poveri reali crescono a dismisura, si definiscono ristrette categorie di poveri ufficiali. In Italia stiamo sperimentando l'elemosina di stato che tocca, con la carta sociale del governo, un milione e duecento mila persone.C'è del metodo in questa follia. Si usa la crisi per selezionare un nuovo tipo di lavoratore, e costruire attorno ad esso una società ancora più ingiusta e feroce di quella attuale. Da noi hanno cominciato con la scuola e l'Università. Le controriforme del governo sono state scritte su dettatura della Confindustria e partono dall'assunto che è impossibile avere una scuola di massa pubblica ed efficiente. Così si abbandona a se stessa gran parte della scuola pubblica e si seleziona, assieme alle imprese, l'élite per il mercato e per il profitto. In Alitalia si è fatto lo stesso. L'intervento pubblico è servito a socializzare le perdite, che pagheremo tutti noi. I padroni privati invece potranno scegliere dal contenitore della vecchia società il meglio delle rotte, delle strutture, e naturalmente dei lavoratori. E chi non ci sta attenta all'interesse nazionale.Il Sole 24 ore ha dedicato un editoriale ai nuovi nemici del popolo, piloti, musicisti, lavoratori specializzati, che pretendono di difendere il proprio status. La macina del capitalismo diventa ancora più dura quando questo va in crisi. Nel 1994 la Fiat buttò in Cassa integrazione gran parte di quegli impiegati e capi, che sfilando a suo sostegno nell'ottobre del 1980, le fecero vincere la vertenza contro gli operai. Oggi si parla tanto di merito, ma tutte le categorie professionali subiscono gli effetti di un'organizzazione del lavoro sempre più parcellizzata e autoritaria, mentre l'unico merito che davvero viene riconosciuto è quello della fedeltà e dell'obbedienza.L'amministratore delegato della Fiat vuole che la sua azienda somigli sempre di più alla catena di supermercati Wall-Mart. Si dice che Ford abbia installato le prime catene di montaggio ispirandosi a come si lavorava nei magazzini della carne di Chicago. Il modello giapponese a sua volta nasce copiando la logistica dei moderni supermercati. Ora la Fiat annuncia un futuro copiato dalla più grande catena di supermercati a basso costo. Ma Wall-Mart è anche una società brutalmente antisindacale, che schiavizza i propri dipendenti. Il programma di Marchionne è dunque anche un programma sociale, che prepara ulteriori assalti all'occupazione e ai diritti dei lavoratori Fiat.Le leggi sul lavoro flessibile che centrosinistra e centrodestra hanno varato in questi anni, ora mostrano la loro vera funzione. Esse permettono di licenziare centinaia di migliaia di persone senza articolo 18 o altro che l'impedisca. E così la tutela contro i licenziamenti diventa un privilegio, quello che permette di essere almeno dichiarati come esuberi. E i soliti commentatori di entrambi gli schieramenti annunciano che con tanto precariato, i privilegi non si possono più difendere. Per i migranti la perdita dei diritti sociali diventa anche distruzione di quelli civili. Chi viene licenziato, grazie alla Bossi-Fini, diventa clandestino e con lui tutti i suoi famigliari.E la crisi avanza. Che essa fosse ben radicata nell'economia reale e non solo in quella finanziaria, lo dimostra la velocità con cui si ferma il lavoro, si licenziano o si mettono in cassa integrazione i dipendenti. Una velocità superiore a quella della caduta della Borsa.
Le ristrutturazioni nelle aziende non sono solo crisi. Esse, come sostengono tanti dottori Stranamore dell'economia, hanno una funzione "creatrice". Esse servono a frantumare le condizioni sociali e di lavoro, a dividere e contrapporre gli interessi, a fare entrare nel Dna di ogni persona che la sconfitta e di uno è la salvezza di un altro. La riforma del modello contrattuale vuole suggellare questa situazione. Distruggendo il contratto nazionale e limitando la contrattazione aziendale al rapporto tra salario e produttività, essa punta a selezionare una nuova specie di lavoratori super flessibili, super obbedienti e super impauriti. E per il sindacato resta la funzione della complicità, come è scritto nel libro Verde del governo.
Se è vero che le crisi sono occasioni, quella italiana sta delineando la possibilità di distruggere ogni base materiale dei principi contenuti nella Costituzione della Repubblica. Bisogna fermarli, bisogna travolgerli come stava scritto in uno striscione degli studenti. Non ci sono mediazioni rispetto al disegno di selezione sociale che sta avanzando sotto la spinta della Confindustria e del governo. O lo sconfiggiamo o ne verremo distrutti. Per questo lo sciopero del 12 dicembre non può concludere, ma deve dare l'avvio a un ciclo di lotte in grado di imporre un'altra agenda politica e sociale. Alla triade privato, mercato, flessibilità, bisogna contrapporre la difesa e l'estensione del pubblico sociale, dei diritti e dei salari. E l'Europa di Maastricht è nostro avversario così come il governo Berlusconi. C'è sempre meno spazio per quella cultura riformista che pensava di coniugare liberismo economico ed equità sociale. Per questo ci paiono sempre più stanchi e inutili i discorsi sull'economia sociale di mercato di tanti benpensanti di centrosinistra e centrodestra.
Solo un cambiamento radicale nell'economia e nella società può sconfiggere il disegno reazionario dei poteri e delle forze che ci hanno portato alla crisi attuale e che pensano di farla pagare interamente a noi. O si cambia davvero, o si precipita in una società mostruosa che avrà come necessario corollario l'autoritarismo nelle istituzioni. Forse è proprio la dimensione e la brutalità delle alternative che ci spaventa e frena, ma se questa è la realtà allora è il momento di avere coraggio.