mercoledì 29 settembre 2010

Tassazione agevolata lavoro notturno: risposte

L'Agenzia delle Entrate ha comunicato ufficialmente che la gestione dei rimborsi per lavoro notturno sono spostati nel modello CUD 2011 e dunque nel 730/2011.

Il datore di lavoro dovrà indicare nel CUD/2011 le somme erogate nel 2008 e 2009, oltre ovviamente alle somme del 2010.

Come ha sostenuto la CGIL in questi giorni, per le decisioni che stava maturando l'Ufficio delle Entrate, si sarebbe dunque rivelato inutile e costoso per i lavoratori fare la dichiarazione integrativa.

CGIL FRIULI VENEZIA GIULIA

Area Programmatica “La CGIL che vogliamo”: il futuro Movimento Anticapitalista italiano? di Eugenio Orso

Venerdì 24 settembre ho partecipato alla costituzione dell’Area Programmatica “La CGIL che vogliamo” in provincia di Trieste, città in cui lavoro e in cui risulto uno dei tanti tesserati Fiom.
L’incontro fondativo dell’Area è avvenuto di pomeriggio, nella Casa del Popolo [ebbene sì, le Case del Popolo esistono ancora, pur non essendo esattamente quelle dei tempi “arcadico-guareschiani” di Peppone e Don Camillo] in quel di Borgo San Sergio alla periferia di Trieste.
Le componenti sindacali presenti in loco, con prevalenza di membri dei direttivi, erano quelle solite dei metalmeccanici Fiom, della Funzione Pubblica e dei bancari all’interno della CGIL – coloro che hanno sostenuto la mozione congressuale numero due, per intenderci, in contrapposto alla CGIL burocratico-formale e “attendista” di Guglielmo Epifani – ma l’incontro era aperto a tutti i lavoratori interessati, senza preclusioni di sorta, così come dovrebbe essere quando si cerca di “riattivare” in situazioni sociali difficili l’efficacia dell’azione sindacale, e di estendere la base del consenso a tutta l’area del lavoro dipendente, intellettuale e materiale, impiegatizio e operaio, pubblico e privato, sfruttato e ri-plebeizzato da questo capitalismo con l’evidente complicità della politica “ufficiale” e del sindacalismo giallo.
Atteso in apertura dei lavori l’intervento di Giorgio Cremaschi, che personalmente si pone come uno fra i tanti fondatori dell’Area, ma che molti militanti riconoscono spontaneamente [è inutile negarlo perché in questo non c’è niente di male] come la figura di riferimento, e un vero leader, in un clima di libertà di pensiero e di critica che in futuro dovrà caratterizzare l’Area Programmatica ed estendersi a tutta la CGIL.
Quando le situazioni diventano difficili e i passaggi da affrontare sono passaggi storici, come accade oggi in Italia, gli aspetti burocratici e l’ordine gerarchico, se d’ostacolo all’elaborazione del nuovo e al cambiamento, si possono superare più facilmente, e la costruzione del nuovo, alla quale tutti sono chiamati a partecipare prescindendo dalle posizioni gerarchiche precedenti, non può che essere frutto di un’azione collettiva, in cui ogni singolo attore è importante, ed in cui pesa il libero contributo di ciascuno.
Abbiamo alle spalle quasi un trentennio di attacchi mirati al lavoro, di de-emancipazione, di manipolazioni giuslavoristiche orientate alla precarietà e alla demolizione delle garanzie pregresse, di privatizzazioni selvagge, di “liberalizzazioni” devastanti e di svendite al grande capitale del patrimonio pubblico.
Abbiamo alle spalle decenni di spostamento di quote sempre più ingenti del prodotto sociale dal Lavoro al Capitale, e di autentica e impoverente “oppressione finanziaria”, in nome di quella libera circolazione dei capitali [e delle merci, molto meno delle idee e delle persone] che è nota ai più con l’espressione di “globalizzazione neoliberista”.
Tutto questo è avvenuto sotto l’egida del Libero Mercato e della Società di Mercato, della Libertà di Iniziativa Economica quale unica libertà oggi riconosciuta e del Diritto alla Proprietà Privata, spacciato come diritto naturale che, di fatto, sta cancellando tutto il resto, e fra un po’ schiaccerà non soltanto il sacrosanto diritto al lavoro e ai mezzi di sussistenza, ma anche lo stesso diritto alla vita.
A ciò aggiungiamo pure le imposizioni di quella che è stata recentemente definita la “Globalizzazione senza veli”, fondata su una divisione internazionale del lavoro sempre e comunque penalizzante per i lavoratori e sull’asprezza di una concorrenza portata all’estremo, che presuppone la demolizione completa delle garanzie sociali in nome di produttività, efficienza e aumento dei volumi delle esportazioni.
Ma quale è oggi la reale situazione economica e sociale del paese, dopo le promesse di “modernizzazione” in cambio della rinuncia progressiva alle garanzie sociali?
Quali benefici ha ricavo dallo sviluppo di questi processi, imposti autoritariamente nel quadro di una democrazia liberale di facciata e della “piccola politica” fiancheggiatrice, la grande maggioranza della popolazione italiana?
I panorami sociali che abbiamo davanti, le stesse prospettive future di medio periodo sono desolanti e riportano, in prima approssimazione, alle asprezze del capitalismo della prima rivoluzione industriale sette-ottecentesca, con l’esaltazione delle libertà allora “borghesi” e la contestuale negazione dei diritti del lavoro dipendente e subordinato, come ha messo bene in rilievo Cremaschi.
In pratica, sempre secondo Giorgio Cremaschi, siamo arrivati all’assurdo che l’”opposizione” politica ufficiale [Pd, IdV, girotondini, popoli viola ed altri], si mobilita in grande stile nella difesa “libertà di stampa” e di espressione contro il monopolio governativo-berlusconiano, e poi trascura, sottostima o finge di non vedere le grandi questioni sociali e del lavoro poste dall’azione della Fiat in Italia, da Termini-Imerese in avanti, fino a Pomigliano a Melfi, rendendosi complice dei misfatti di questo capitalismo.
Un po’ come la borghesia francese ed europea sette-ottocentesca, che difendeva a spada tratta la cosiddetta Liberté de la Presse, ossia la libertà di espressione e di stampa, quale libertà fondamentale garantita all’astratto individuo di matrice liberale, e nel concreto ad una ristretta minoranza di privilegiati, ma ignorava ipocritamente le terribili condizioni di vita e lo sfruttamento di tutti coloro che vivevano negli slums delle prime “città industriali”, i proletari, gli operai di fabbrica, i minus habentes del tempo.
All’inclusione capitalistica e alla tradizionale irreggimentazione nella fabbrica, pur in presenza di estorsione del plusvalore, si sostituisce sempre più spesso l’esclusione capitalistica, ossia l’espulsione dai rapporti concreti produzione, che può valere, nei nuovi contesti sociali e culturali del capitalismo del terzo millennio, l’espulsione da tutti i rapporti sociali.
Restando all’interno dell’unico grande sindacato che ancora non ha svenduto la pelle dei lavoratori alla Confindustria, al governo, alla “piccola politica”, a differenza della CISL, della UIL e della UGL ormai perdute, è perciò necessario ed urgente promuovere una vera e propria Area di Resistenza Anticapitalistica, non soltanto per una difesa “statica” dei diritti acquisiti, ma soprattutto per elaborare una nuova proposta, che contrapponga alla visione assolutistica “liberoscambista” un altro modello di società, un’altra concezione dello sviluppo, delle relazioni industriali e complessivamente dei rapporti sociali.
Un’Area che deve nascere, nelle contingenze storiche attuali, in primo luogo dal consenso e dall’azione delle forze di base, pur suscitati dalle iniziative della parte più responsabile ed avanzata della dirigenza sindacale.
Un’Area che non intende permettere, come già in precedenza la Rete 28 Aprile ma con un respiro più ampio e con maggior efficacia, una deriva da parte della CGIL che semplicemente la “faccia rientrare nel grande gioco” al massacro del Lavoro, assieme alla CISL e alla UIL, assumendo un ruolo puramente testimoniale nel ratificare la sconfitta finale dei lavoratori, quale suggello di una lunga stagione di compressione dei diritti e di impoverimento materiale e culturale.
Ed in effetti, questo è stata la sostanza del messaggio lanciato da Giorgio Cremaschi in apertura del dibattito, ripreso poi dal segretario provinciale della CGIL triestina Antonio Saulle, di provenienza Fiom, e da molti altri partecipanti intervenuti nel dibattito.
Cremaschi ha citato Bruno Trentin, il quale, a suo dire, ha fatto cose buone e meno buone nel periodo in cui era alla guida della CGIL, ma certo ha compreso la differenza sostanziale fra un sindacato costituito da veri delegati dei lavoratori ed uno costituito da “fiduciari”, i quali sostanzialmente hanno la funzione di trasmettere alla base le decisioni dell’alta dirigenza, di bloccare qualsivoglia contestazione e qualunque iniziativa sgradita ai vertici.
L’Area vuole evitare che accada in CGIL ciò che accade regolarmente nella CISL, prototipo del sindacato giallo composto unicamente da “fiduciari”, in cui di recente, nonostante una prima adesione delle RSU Fim agli scioperi contro la Fiat vi è stata poi l’improvvisa ritirata, in seguito all’attivarsi della catena di comando e di trasmissione ordini, attraverso la quale l’impresentabile Bonanni [che forse già pregusta la presidenza dell’INPS dopo la scadenza del mandato sindacale, quale premio concessogli dal padrone] ha telefonato in Fim imponendo ai “fiduciari di bloccare l’agitazione, disposizione che gli stessi hanno diligentemente eseguito bloccando la partecipazione dei tesserati alle agitazioni.
Cremaschi, e assieme a lui tutti quelli che hanno aderito all’Area, vuole evitare, attraverso l’azione sindacale e politica concreta, che la CGIL “rientri nei ranghi” sistemici a testa bassa, trasformandosi in un “sindacato dei fiduciari”, in una copia della UIL, o ancor peggio della CISL.
Ma la prassi delle disposizioni calate dall’alto spesso si combina con le mancate consultazioni della base.
La nuova Area fondata sulla partecipazione e la libertà d’iniziativa, non vuole che in futuro la CGIL accetti condizioni contrattuali capestro senza consultare i lavoratori, tesserati e non tesserati, in una deriva tipica di CISL e UIL che temono il voto dei diretti interessati e decidono in totale spregio della democrazia sindacale.
In questi ultimi tempi, il sindacalismo giallo dei “fiduciari” ha sempre rifiutato le consultazioni che coinvolgono tutti i lavoratori, in occasione dell’approvazione di piattaforme ed accordi importanti, ed ha mistificato producendo i risultati [in qualche caso “bulgari”] di non ben definite “consultazioni” fra i soli iscritti.
E’ in ballo anche la stessa concezione di sindacato, che dovrebbe rappresentare tutti i lavoratori, e non operare come un “centro di assistenza e servizi” per i soli iscritti, gerarchizzato e in mano ai “fiduciari”.
Non è certo un caso se il punto quattro del documento congressuale e programmatico “La CGIL che vogliamo” rivendica che «Tutta l’azione sindacale deve essere fondata sulla democrazia, cioè sul diritto delle lavoratrici e dei lavoratori a scegliere chi li rappresenta e a decidere con il voto segreto sulle piattaforme e sugli accordi».
L’emarginazione della CGIL, che non si è piegata ai ricatti operati da Confindustria e Fiat, con la compiacenza ed il supporto del governo Berlusconi e l’acquiescenza di un’opposizione parlamentare “di facciata”, non ha però ancora prodotto una reazione adeguata da parte del maggiore sindacato italiano, a causa dell’affermazione al suo interno di una linea di maggioranza prudentemente attendista e ben poco incisiva sul piano della lotta.
Il primo e più ovvio obbiettivo dell’Area, dopo la necessaria formalizzazione della sua esistenza nella CGIL, sarà quello di fare opera di sensibilizzazione, in particolare fra gli iscritti ed i rappresentanti di base nelle aziende, per riuscire a conquistare la maggioranza dei consensi ed operare l’attesa svolta.
Per tale motivo non vi sarà, come ha assicurato Giorgio Cremaschi, un particolare interesse per l’entrata nel futuro direttivo nazionale, quando la Camusso succederà all’uscente Epifani, nel segno di una probabile continuità con la mozione di maggioranza che ha prevalso nell’ultimo congresso.
Anzi, essendo prioritario l’obbiettivo di cambiare l’unico sindacato rimasto in Italia, quale ultimo baluardo di milioni di lavoratori pubblici e privati, ci sarà piuttosto il netto rifiuto di un compromesso in cambio di “posti” nel direttivo.
Per non duplicare le strutture e superare la gerarchizzazione presente nelle federazioni, chi è già membro di un direttivo, di categoria o confederale, ed ha potere esecutivo nell’organizzazione, non necessariamente dovrà esserlo nell’Area, e le iniziative potranno partire da qualunque aderente, se condivise.
Del resto, il documento programmatico noto come mozione congressuale numero due, al punto 5 sottolinea l’irrinunciabilità della pratica della democrazia «che i dirigenti dell’organizzazione a tutti i livelli devono considerare un dovere assoluto nei propri comportamenti», anteponendo la democrazia sindacale quale pratica prioritaria dell’organizzazione a forme di centralismo verticistico.
Cremaschi non ha certo lesinato critiche all’attuale “gestione” Epifani, che oltre ad attendere una chiamata per ricostituire l’unità sindacale, possibile oggi soltanto aderendo alla linea collaborazionista di CISL e UIL, attacca l’esecutivo in carica e si “dimentica” di attaccare la Confindustria, che tanti colpi sta infliggendo ai lavoratori, ultimo dei quali la denuncia dell’accordo del 2008 con i metalmeccanici, siglato, guarda caso, anche dalla Fiom-CGIL.
E’ necessario comprendere da dove vengono i colpi, chi è il Nemico, e dirlo chiaramente ai lavoratori, perché altrimenti si potrebbe pensare che caduto il governo Berlusconi [come tutti noi ci auguriamo], finita la fase del berlusconismo che ha funestato quasi un ventennio della storia d’Italia, liquidati con qualche “buonuscita” Sacconi, Brunetta e Tremonti, tutto andrà a posto, e cesserà come per incanto l’attacco al contratto nazionale e al Lavoro in generale, mentre così non sarà, perché non è nelle intenzioni né della Marcegaglia né del suo compare Marchionne recedere, e interrompere l’attacco finale ai diritti dei lavoratori.
Per questo è necessario conquistare in futuro la maggioranza, all’interno della CGIL, e scioglierla definitivamente, come ha detto senza parafrasi Giorgio Cremaschi, dall’”abbraccio” del Pd.
E’ un po’ l’abbraccio del morto che trattiene il vivo ed impedisce l’affermarsi del nuovo, in una libera interpretazione della celebre espressione di Karl Marx in lingua francese «le mort saisit le vif».
Infatti, l’abbraccio del Pd potrà rivelarsi mortale, se farà scivolare l’unico sindacato rimasto lungo la china dell’accettazione passiva delle presenti dinamiche, imponendogli di assumere un ruolo minore di servizio e assistenza ai lavoratori, ormai rinchiusi in quel “recinto” che prospettano per loro la Confindustria, il governo Berlusconi-Lega [la Lega delle “gabbie salariali”, per intenderci] ed a parere di chi scrive lo stesso Pd acquiescente.
A questo riguardo mi sento di richiamare le parole di Bruno Trentin, citato da Cremaschi, il quale meglio di tanti altri ha stigmatizzato il “trasformismo politico” delle varie componenti della sinistra italiana contemporanea «alla ricerca di un “apriti Sesamo” che schiuda loro la strada dell’accesso nel club delle classi dirigenti», con il triste risultato che «sono entrate a far parte delle innovazioni "riformiste" della sinistra, di volta in volta, la riduzione dei salari per i nuovi assunti, la flessibilità del lavoro senza la sicurezza di una impiegabilità attraverso la formazione, la monetizzazione dell’articolo 18, il taglio delle pensioni di anzianità, senza riflettere sulle cause, tutte italiane, dell’esplulsione dal mercato del lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori anziani, condannandoli alla disoccupazione in attesa delle pensioni» [Bruno Trentin, Il pericolo del trasformismo, L’Unità, novembre 2003].
Cremaschi e l’Area vogliono, in poche parole, abbattere attraverso l’azione politica e sindacale il “recinto” che dovrebbe imprigionare i lavoratori nel prossimo futuro, sventando la manovra confindustriale di Marcegaglia e del suo vice Bombassei, e rispondendo adeguatamente, in termini di lotta concreta, ai “blitz” di manager globalisti come Marchionne.
Se la lotta di classe è oggi una prerogativa dei soli padroni, che la fanno contro il Lavoro, ed è interdetta ai lavoratori che devono soltanto subirla, pena l’accusa di fomentare “l’odio di classe” e la sovversione, ecco un’espressione che dovrà tornare in uso, in un contesto sindacale maggiormente dialettico, a fronte di azioni di lotta dure ed incisive, se necessario, che possano avere qualche efficacia e portare a casa qualche risultato concreto.
Una nuova stagione di lotta sembra l’unica via praticabile per opporsi efficacemente alla guerra globalista scatenata dai Marchionne e dai gruppi di dominio della Global class, che mettono l’uno contro l’altro, in un mortale gioco al ribasso dei salari e dei diritti, i lavoratori italiani, quelli tedeschi, quelli polacchi, quelli serbi, un po’ come gli imperialismi dello scorso millennio aizzavano l’uno contro l’altro i popoli nelle loro sanguinose guerre elitistiche.
E’ chiaro che una CGIL “ingessata” e attendista, sulle posizioni di Epifani e della Camusso, non può e non potrà affrontare le grandi sfide che questa autentica svolta di Evo drammaticamente ci impone, ma potrà soltanto cedere alle pressioni e “rientrare nel gioco” a capo chino, rinunciando alla sua storia e lasciando soli le lavoratrici e i lavoratori.
La mia personale speranza è che l’Area non si areni nelle secche del burocraticismo, del verticismo e dell’insufficiente partecipazione di base, ma riesca a sviluppare programmi nuovi, estendendo progressivamente le sue competenze e la sua influenza oltre i confini sindacali.
La “piccola politica” sistemica [per usare un’espressione gentile] ha prodotto programmi politici fotocopia, si è sottomessa agli interessi sovrani d’oltre oceano, di natura finanziaria e ultra-liberista, ha supportato le manovre de-emancipatrici dell’industria decotta che spesso si nutre di denaro pubblico [leggi Confindustria, Fiat], ha tollerato la grande e la piccola evasione fiscale e contributiva ed ha fatto pagare il conto di tutto ai lavoratori, ai pensionati, alle giovani generazioni.
Ma questa politica ha fatto di peggio, contribuendo a diffondere nel paese insicurezza, degrado, impoverimento culturale, illegalità ad ogni livello della scala sociale, che costituiscono i lasciti reali, per le classi subalterne, della cosiddetta società di mercato e del liberismo economico globale.
L’accusa non va rivolta esclusivamente all’attuale maggioranza di governo, ma va estesa a tutta l’area della politica sistemica, se è vero che durante lo sviluppo della vicenda Fiat, con minacce di chiusure di stabilimenti e di denuncia del CCNL metalmeccanici, i pidiessini discutevano di questioni quali l’opportunità di chiamarsi vicendevolmente “compagni”[!] nei loro inutili consessi, disinteressandosi bellamente dell’emergenza sociale che stava montando.
Ancor peggio dei bizantini nel quindicesimo secolo, quindi, che discettavano su questioni di natura teologica – un po’ più rilevanti e raffinate di quelle che interessano la nomenklatura del Pd – mentre gli Ottomani erano già sul Bosforo …
I territori abbandonati al degrado culturale e sociale dalla piccola politica, che vive nelle dimensioni del privilegio e si pone al servizio dei grandi interessi, sono grandi ormai quanto il deserto dei Gobi, e sono proprio questa “desertificazione” e questo abbandono che imporranno in futuro all’Area, se saprà crescere ed estendere la sua influenza all’interno della CGIL, di uscire da quelle sono le competenze storiche del sindacato per assumersi ben altre responsabilità ed oneri, diventando un vero e proprio Movimento Anticapitalista.

Grazie per l’attenzione

Eugenio Orso

Pensioni, cosa cambia La nostra guida

Per contenere la spesa previdenziale, il Governo, nella manovra finanziaria 2011/2012, con il decreto legge n. 78/2010 ha modificato, a partire dal prossimo anno, il regime delle decorrenze delle pensioni di vecchiaia e di anzianità attualmente in vigore ed ha introdotto le finestre sulle pensioni in totalizzazione.

In sede di conversione in legge, il decreto ha subito delle modifiche e sono state introdotte ulteriori innovazioni in materia previdenziale (legge n.122/2010): applicazione delle nuove decorrenze anche sulle pensioni di vecchiaia anticipata; aumento dell'età pensionabile delle lavoratrici del pubblico impiego; innalzamento dei requisiti pensionistici in relazione alla speranza di vita; introduzione dell'onere per le ricongiunzioni dei contributi dai fondi alternativi all'Inps; aumento dell'onere per la ricongiunzione dall'Inps ai fondi esclusivi; abrogazione delle disposizioni inerenti il trasferimento gratuito della contribuzione da vari ordinamenti pensionistici all'Inps.

Di seguito si riportano le principali novità introdotte dalla manovra in materia previdenziale.


Nuove decorrenze dei trattamenti pensionistici previsti dal 2011

1) Pensioni di vecchiaia e di anzianità
Per le persone che matureranno il diritto al pensionamento di vecchiaia o di anzianità a partire dal prossimo anno, la decorrenza della pensione non sarà più disciplinata in base al tipo di trattamento (pensione di vecchiaia, con 40 anni di contribuzione, di anzianità con meno di 40 anni di contributi), ma verrà unificata in una sola finestra, detta “mobile” o a “scorrimento”.

Infatti, a partire dall’anno 2011, una volta maturati i requisiti anagrafici e/o contributivi, il trattamento pensionistico decorrerà trascorsi 12 mesi per i lavoratori dipendenti e 18 mesi per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni mezzadri) e iscritti alla gestione separata (parasubordinati).

Le nuove decorrenze si applicheranno anche per le pensioni con 40 anni di contribuzione. Infatti, contrariamente a quanto inizialmente comunicato dal Governo non è stata prevista la salvaguardia per questi trattamenti. In questi casi, l’attesa è ancora più penalizzante considerato che l’ulteriore contribuzione versata dopo i 40 anni non viene utilizzata ai fini del calcolo della pensione.

Va sottolineato che, così come stabilito dall’art. 6, comma 2-bis, del decreto legge n. 248/2007 (convertito in legge n. 31/2008), nei casi di raggiungimento del 65° anno di età, il divieto di licenziamento nel settore privato è prorogato fino al momento della decorrenza del trattamento pensionistico. Un'analoga norma di salvaguardia, nel settore pubblico non è prevista, ma è auspicabile che venga tempestivamente definita.

In sede di conversione in legge è stato disposto che le nuove finestre si applicheranno anche alle pensioni di vecchiaia con età previste dagli specifici ordinamenti, quindi anche alle pensioni di “vecchiaia anticipata” (prevista per dipendenti invalidi all’80%, non vedenti, iscritti al fondo Volo, marittimi, minatori, ecc.).

Le nuove decorrenze opereranno anche per le pensioni di vecchiaia liquidate con il sistema di calcolo contributivo. L'impatto sugli uomini, sulle lavoratrici del pubblico impiego (per le quali dal 2012 l’età pensionabile slitterà a 65 anni) e sulle pensioni di vecchiaia totalizzate rischia di essere ancor più penalizzante poiché, andando in pensione a 66 anni (se dipendenti) o a 66 anni e mezzo (se autonomi e parasubordinati o richiedenti pensioni di vecchiaia totalizzate senza diritto autonomo a pensione), la pensione o la quota di pensione da liquidare con il sistema di calcolo contributivo sarà determinata applicando il “coefficiente di trasformazione” previsto per il 65° anno di età. La norma, infatti, non ha previsto da subito di aggiungere alla tabella dei coefficienti, quelli per gli ultrasessantacinquenni.

Per i lavoratori parasubordinati, la legge n. 243/2004 aveva disposto, per gli assicurati presso la gestione separata non iscritti ad altre forme di previdenza obbligatoria, l’applicazione delle disposizioni riferite ai lavoratori dipendenti, sia per quanto riguarda i requisiti per il diritto sia per la decorrenza della pensione. Il provvedimento, invece, include anche questi lavoratori nella decorrenza del trattamento pensionistico previsto per gli autonomi (attesa dei 18 mesi).

2) Pensioni derivanti dalla totalizzazione dei periodi assicurativi (dlgs n. 42/2006)
La norma introduce le decorrenze sulle pensioni di vecchiaia e con 40 anni di contribuzione derivanti dalla totalizzazione, applicando quelle previste per i lavoratori autonomi. La pensione totalizzata decorrerà, quindi, decorsi 18 mesi dalla maturazione dei requisiti anagrafici e/o contributivi.

La nuova formulazione, apportata in sede di conversione in legge, specifica che la finestra si applicherà solo a coloro che matureranno i requisiti dal 1° gennaio 2011.

Pertanto, una lavoratrice che perfezionerà i requisiti per la pensione di vecchiaia totalizzata (65 anni di età e almeno 20 anni di contributi) nel mese di marzo 2011, con l’attuale normativa poteva accedere al pensionamento dal 1° aprile 2011, mentre con la nuova dovrà attendere il 1° ottobre 2012: ben 18 mesi in più e a 66 anni e mezzo di età.

La decorrenza dei lavoratori autonomi è prevista anche quando si totalizzano periodi contributivi versati in fondi o gestioni da lavoro dipendente (ad esempio, Fondo lavoratori dipendenti Inps e Inpdap). In questi casi, una persona che ha svolto solo lavoro dipendente, con contribuzione versata in più fondi, viene equiparata al lavoratore autonomo, con la conseguenza di vedersi aumentare l'attesa che lo separa dalla pensione.


Lavoratori esclusi dall’applicazione della nuova decorrenza

1) Lavoratori che perfezionano i requisiti entro il 31.12.2010
Per i lavoratori che maturano i requisiti anagrafici e/o contributivi richiesti per il diritto alla pensione di vecchiaia e di anzianità entro il 31.12.2010, le finestre continueranno ad essere determinate in base alla normativa attualmente vigente, anche se l'uscita si collocherà dal 1° gennaio 2011.

Pertanto i lavoratori dipendenti, che perfezionano il diritto alla pensione di vecchiaia (20 anni di anzianità contributiva e 60 anni di età se donna; 61 anni se lavoratrice del pubblico impiego; 65 anni se uomo) o i 40 anni di contribuzione nell’ultimo trimestre del 2010, potranno accedere al pensionamento dal 1° aprile 2011. Invece, i dipendenti che raggiungono “quota 95” nell’ultimo semestre del 2010 (con almeno 35 anni di contributi ed un’età anagrafica non inferiore a 59 anni) potranno andare in pensione dal 1° luglio 2011.

Allo stesso modo, i lavoratori autonomi, con diritto alla pensione di vecchiaia (20 anni di anzianità contributiva e 60 anni di età se donna o 65 anni se uomo) o con 40 anni di contribuzione nell’ultimo trimestre del 2010, potranno accedere al pensionamento dal 1° luglio 2011. Invece, gli autonomi che raggiungono “quota 96” nell’ultimo semestre del 2010 (con almeno 35 anni di contributi ed un’età anagrafica non inferiore a 60 anni) potranno andare in pensione dal 1° gennaio 2012.

Per i lavoratori che maturano i requisiti richiesti per il diritto alla pensione in regime di totalizzazione (D.Lgs. n. 42/2006) entro il 31.12.2010 si applica la normativa in vigore fino alla predetta data: i trattamenti decorreranno dal mese successivo a quello di presentazione della domanda di pensione totalizzata.

2) Personale della scuola
Per quanto riguarda i dipendenti della scuola, è stato espressamente previsto che rimangono le disposizioni attualmente in vigore. La decorrenza continuerà, quindi, anche dopo il 2010, ad essere fissata all’inizio dell’anno scolastico o accademico (settembre o novembre) nel caso di maturazione dei requisiti entro il 31 dicembre dello stesso anno.

3) Lavoratori in preavviso al 30.6.2010 e che perdono il titolo abilitante
Sono esclusi dalla nuova finestra “mobile” i lavoratori dipendenti:
• con periodo di preavviso in corso alla data del 30.06.2010 che matureranno i requisiti anagrafici e contributivi per il conseguimento del trattamento pensionistico entro la data di cessazione del rapporto di lavoro;
• per i quali viene meno il titolo abilitante allo svolgimento della specifica attività lavorativa per raggiungimento del limite di età (es. autisti del trasporto pubblico).

4) Lavoratori in mobilità e in assegno straordinario
Le nuove decorrenze, inoltre, non si applicheranno, nel limite complessivo di 10.000 beneficiari, ai lavoratori:
• in mobilità ordinaria, licenziati da imprese ubicate nelle Aree del Mezzogiorno, sulla base di accordi sindacali stipulati prima del 30.04.2010, con maturazione dei requisiti entro il periodo di fruizione della relativa indennità;
• in mobilità lunga, per effetto di accordi collettivi stipulati entro il 30.04.2010;
• titolari di prestazioni straordinarie a carico dei Fondi di solidarietà di settore (credito e assicurazioni che operano per fronteggiare ristrutturazioni e crisi aziendali) alla data del 31.05.2010.

Va precisato che il monitoraggio verrà effettuato dall’Inps, in riferimento al momento di cessazione del rapporto di lavoro (data di collocamento in mobilità o in assegno straordinario).

In considerazione della grave crisi occupazionale che ha comportato un ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali fa emergere l'inadeguatezza del limite di 10 mila persone, previsto dalla norma. Aver inserito poi, per la prima volta, anche i lavoratori in mobilità lunga, che pure potevano andare in pensione con i vecchi requisiti in virtù di norme precedenti, riduce ulteriormente il numero delle altre tipologie di beneficiari, poiché sono 6.000 i lavoratori collocati in mobilità lunga entro il 31.12.2007 (L. n. 296/2006).


Innalzamento dei requisiti richiesti per il diritto a pensione

1) Aumento età pensionabile delle donne del pubblico impiego dal 2012
La legge n. 102/2009 aveva già innalzato in maniera graduale l'età pensionabile delle dipendenti delle amministrazioni pubbliche a partire dal 2010 (61 anni nel biennio 2010-2011, 62 anni nel biennio 2012-2013, ecc., 65 anni dal 2018).

In sede di conversione, per tali lavoratrici, la legge n. 122/2010, invece, fissa a 65 anni il requisito anagrafico per il diritto alla pensione di vecchiaia a partire dal 1° gennaio 2012.

L'aumento dell'età non riguarderà le lavoratrici ancora in servizio che hanno compiuto o compiranno 60 anni entro il 31.12.2009 o 61 anni entro il 31.12.2011 e con i requisiti contributivi richiesti per la pensione di vecchiaia. In questi casi è possibile chiedere all'ente di appartenenza la certificazione del diritto a pensione.

Con questo brusco innalzamento dell'età pensionabile si creeranno delle disparità tra chi è nata nel 1950 (61enne nel 2011) e chi invece nell'anno successivo. Infatti, quelle della classe 1951 dovranno aspettare il 2016 e, considerando gli effetti della “finestra mobile” (attesa dei 12 mesi), andranno in pensione di vecchiaia un anno dopo, cioè a 66 anni. L'unica alternativa per le donne di lasciare il lavoro prima è quella di perfezionare i requisiti richiesti per la pensione di anzianità: almeno 35 anni di contribuzione congiuntamente all'età anagrafica minima (compresa la possibilità di usufruire del regime speciale fino al 2015) oppure, 40 anni di contributi, a prescindere dall'età.

2) Aumento dei requisiti di accesso ai trattamenti pensionistici in relazione alla speranza di vita dal 2015
La legge n. 102/2009 aveva previsto, a decorrere dal 2015, per tutti i lavoratori – privati e pubblici - l'adeguamento dell'età pensionabile in ragione dell'incremento della speranza di vita, accertata dall'Istat.

Oltre all'innalzamento dell'età anagrafica prevista per il diritto alla pensione di vecchiaia, con la legge n. 122 del 2010 è stato disposto, sempre a partire dalla stessa data, l'aumento dell'età e della quota (costituita dalla somma dell'anzianità contributiva e dell'età anagrafica) richiesti per il diritto alla pensione di anzianità. L'adeguamento riguarderà anche l'età anagrafica richiesta per il diritto all'assegno sociale, attualmente riconosciuto a 65 anni.

Il primo innalzamento non potrà essere superiore a 3 mesi e decorrerà dal 1° gennaio 2015, mentre il secondo partirà dal 1° gennaio 2019. Successivamente l'adeguamento sarà effettuato con cadenza triennale.

L'incremento dei requisiti anagrafici riguarderà tutti, anche quelli che tradizionalmente erano esclusi da questi provvedimenti: donne del pubblico impiego già investite in precedenza dall'aumento dell'età pensionabile, minatori, personale militare, forze armate, forze di polizia, vigili del fuoco, ecc., tranne per i lavoratori che perderanno il titolo abilitante allo svolgimento della specifica attività lavorativa al raggiungimento dell'età.

La norma, così come è stata formulata, rischia di avere delle conseguenze negative soprattutto sui giovani, per i quali sarà difficile fare previsioni sulla effettiva data di accesso alla pensione.


Ricongiunzioni e trasferimenti di contributi

1) Non più gratuita la ricongiunzione della contribuzione dai fondi alternativi all'assicurazione generale obbligatoria Inps
La legge n. 122/2010 ha introdotto, per le domande presentate dal 1° luglio 2010, il pagamento dell'onere per le ricongiunzioni dei contributi nell'assicurazione generale obbligatoria dell'Inps, in precedenza effettuate a titolo gratuito.

I lavoratori sono tenuti a pagare le ricongiunzioni dei contributi che si vogliono trasferire dai fondi esclusivi (Inpdap, Ipost, Fondo ferrovieri), nonché dai Fondi elettrici e telefonici, al Fondo pensione lavoratori dipendenti dell'Inps.

2) Aumento dell'onere per la ricongiunzione della contribuzione dall'Inps ai fondi esclusivi
La legge ha altresì modificato i criteri di determinazione dell'onere di ricongiunzione della contribuzione dall'Inps ai fondi esclusivi (Inpdap, Ipost, Fondo ferrovieri).

Per le domande presentate dal 31 luglio 2010 saranno infatti adottati i coefficienti applicati per il settore privato (aggiornati dal 21 novembre 2007) in luogo dei coefficienti previsti con DM del 1964.

3) Abrogazione del trasferimento gratuito della contribuzione da vari ordinamenti pensionistici all'Inps
Il provvedimento ha abrogato le norme che consentivano il trasferimento gratuito della contribuzione maturata in vari ordinamenti pensionistici all'Inps.

In particolare, dal 1° luglio 2010, la disposizione è già diventata applicativa per gli iscritti ai Fondi elettrici e telefonici, mentre dal 31 luglio 2010, lo è diventata per gli iscritti ai fondi esclusivi (Inpdap, Ipost, Fondo ferrovie), nonché per i militari in servizio di leva prolungata (costituzione della posizione assicurativa presso l'Inps). Sono esclusi dalla nuova normativa solo coloro che hanno presentato la domanda prima dell'entrata in vigore delle modifiche, nonché i dipendenti civili e militari dello Stato (ministeriali) che hanno lasciato il servizio entro il 30.7.2010, anche se non hanno fatto domanda, poiché il trasferimento avviene d'ufficio.

L'abrogazione della costituzione gratuita della posizione assicurativa presso l'Inps è fortemente penalizzante per le dipendenti pubbliche che vorranno accedere al pensionamento di vecchiaia con i requisiti anagrafici più favorevoli previsti nel settore privato. Queste lavoratrici saranno costrette a ricorrere alla ricongiunzione della contribuzione, ora diventata onerosa. Altrettanto penalizzati saranno tutti i lavoratori che hanno versato la contribuzione in diverse gestioni pensionistiche. Contestualmente, bisognava quindi rivedere anche la normativa sulla totalizzazione gratuita dei periodi assicurativi (D.Lgs. n. 42/2006) e sulla pensione supplementare, estendendone l'operatività nei casi attualmente non previsti.

lunedì 27 settembre 2010

Sciopero di 8 ore della cantieristica navale pubblica con manifestazione nazionale a Roma. 1° ottobre 2010.


Giorgio Cremaschi, responsabile Fiom-Cgil per la cantieristica navale, ha rilasciato in serata la seguente dichiarazione.


“Se le dichiarazioni attribuite oggi dalle agenzie di stampa al ministro del Lavoro, Sacconi, sono state effettivamente da lui rilasciate, costituiscono un atto irresponsabile e gravissimo. Il Ministro non può irridere a commesse pubbliche finalizzate a difendere l’occupazione. Tali commesse non solo sono state richieste da tempo dal sindacato, ma sono state promesse e disattese dal Governo.”


“In tutto il mondo, rispetto alla cantieristica navale vengono effettuati investimenti pubblici e vengono coordinate le politiche industriali allo scopo di difendere il patrimonio produttivo e l’occupazione. L’assenteismo del Governo italiano è scandaloso e le dichiarazioni di Sacconi, se rappresentano la posizione di tutto il Governo, confermano ancora di più la necessità di un incontro urgente a Palazzo Chigi, così come richiesto unitariamente dai sindacati dei metalmeccanici. Se invece tali dichiarazioni fossero solo una battuta estemporanea del ministro Sacconi, dimostrerebbero, ancora una volta, la sua assoluta incompetenza rispetto alla vicenda Fincantieri.”

mercoledì 22 settembre 2010

Fincantieri, specchio del disastro italiano

Quella di Fincantieri è una tipica storia italiana. Il gruppo con i suoi 9mila dipendenti diretti e i 25mila addetti negli appalti e nell’indotto, rappresenta uno dei punti di forza del sistema industriale del Paese. Vent’anni fa le partecipazioni statali volevano dismetterlo perché considerato un settore maturo. Il sindacato riuscì a impedire questa scelta e la Fincantieri si riprese costruendo grandi navi per tutto il mondo. Quattro anni fa l’azienda tentò di entrare in borsa, attualmente è di proprietà al cento per cento della Fintecna, cioè del ministero del Tesoro. Una grande mobilitazione della Fiom e di tutte le intelligenze del gruppo riuscì a conquistare un vasto consenso di opinione pubblica e a fermare la privatizzazione. L’azienda rimase pubblica e fu una fortuna, perché altrimenti, dopo la crisi borsistica, il gruppo sarebbe già stato venduto all’asta.
E poi è arrivata la grande crisi economico-finanziaria. Il settore delle costruzioni navali ne ha risentito moltissimo in tutto il mondo e così anche la Fincantieri.
Ancora una volta si è tentata però una strada completamente sbagliata.
Mentre partiva la crisi l’azienda ha aperto uno scontro sul salario legato alla produttività con tutti i lavoratori del gruppo. Questo scontro ha portato prima a degli accordi separati, poi a degli accordi unitari che solo parzialmente hanno risolto la questione. Fatto sta che l’azienda ha speso un anno e mezzo a spiegare che i suoi problemi principali erano di produttività del lavoro. E così arriviamo ai giorni nostri nei quali un’indiscrezione giornalistica ben accreditata lancia la chiusura di Castellammare di Stabia e Riva Trigoso, il dimezzamento di Sestri Ponente, ampi tagli occupazionali in tutto il gruppo. Questo disastro cancella la questione della produttività: uno degli stabilimenti che l’azienda vorrebbe chiudere è, secondo le tabelle aziendali, tra i più produttivi e pone invece la questione di fondo: l’assenza di politiche industriali e di strategie aziendali atte ad affrontare davvero la crisi.
Accanto agli errori periodici dell’azienda, infatti, abbiamo dovuto registrare il solito ridicolo balletto delle promesse e degli impegni mancati da parte del governo. Prima ancora di dimettersi, il ministro Scajola non aveva mantenuto gli impegni per gli indispensabili interventi pubblici nel settore. E’ chiaro infatti che senza una forte politica dello Stato i cantieri navali sono destinati a chiudere. In tutti i paesi ove si vuole mantenere questa produzione, lo Stato interviene sia con le commesse sia con il finanziamento degli investimenti necessari a potenziare davvero la produttività, ove questo non accade i cantieri chiudono.
Come al solito nel balletto della politica italiana si è parlato di produttività, di commesse di carceri galleggianti, di navi ecologiche. Tutte le più varie fantasie sono state spese nella pubblicità mediatica, ma il risultato è stato neanche un bullone di lavoro. Si arriva così alla crisi attuale dove si misura tutta l’incapacità di una classe dirigente politica ed economica di difendere davvero l’industria e il lavoro. La chiusura di alcuni cantieri navali non è solo una drammatica operazione sociale, che devasta interi territori dalla Liguria alla Sicilia e che, in Campania, distrugge un’intera comunità. E’ anche l’ennesimo sciocco errore di politica industriale. Quello di chi non punta al futuro, ma semplicemente pensa di razionalizzare i conti tagliando tutto quello che si può tagliare. Così se domani dovessero esserci nuove commesse navali, Fincantieri non avrebbe più i siti dove produrre.
Lo scontro che si è aperto con le lotte durissime dei lavoratori in tutto il gruppo, e prima di tutto a Castellammare, Palermo e Liguria manda quindi un messaggio a tutti. Alla politica, come sempre attardata e depistata su altro. Alla Confindustria e alle imprese perché la vicenda Fincantieri dimostra ancora una volta che le offensive contro i diritti, sulla produttività e sulla flessibilità del lavoro sono un puro e semplice depistaggio dai problemi reali. Il 1° ottobre tutti i lavoratori Fincantieri verranno in sciopero a Roma per chiedere che la presidenza del Consiglio affronti la crisi e per dire con tutta l’indignazione del caso no alla chiusura di un settore strategico e sì, finalmente, a una politica industriale degna di questo nome.


Articolo di G.Cremaschi su Liberazione

Superliquidazioni? E’ ora di tornare alla lotta di classe di G.Cremaschi

40 milioni di euro, di cui 2 in beneficienza, è la piccola liquidazione per il licenziamento dell’amministratore delegato di Unicredit, Profumo.
Immaginiamo che a questo punto ci sarà un po’ di moralismo in giro, soprattutto perché Profumo ha perso e quindi è meno potente di prima. Ma la realtà è che le superliquidazioni e le superetribuzioni dei manager sono una costante in crescita.
Da Passera a Marchionne, da Geronzi a Tronchetti Provera, tutto il gotha economico manageriale italiano si spartisce milioni di euro, a ogni passaggio dell’economia. L’amministratore delegato della Fiat ha recentemente risposto piccato a una giornalista che gli chiedeva delle sue maxi retribuzioni: “ma lo sapete che vita faccio io?”. Certo la vita dei grandi manager non ha sicuramente nulla di paragonabile con i lussi che si concedono quei privilegiati dei lavoratori dipendenti, specie se in cassa integrazione.
Ogni tanto una cifra fa effetto particolare, certo 40 milioni sono proprio tanti, ma vuoi metterli con quanto è costato, nel calcio, Cristiano Ronaldo? Così si accetta come dato normale che i manager moltiplichino di centinaia di volte i redditi di coloro che dirigono. Il tocco finale della beneficienza, poi, dimostra che non tutta la farina del diavolo va in crusca, ma che una parte invece va in opere buone.
Stiamo precipitando a passi velocissimi verso un medioevo tecnologico, nel quale i ricchi e i potenti guadagnano quello che vogliono e, al massimo, devolvono verso i più sfortunati una piccola parte dei loro introiti.
Al di là dei soliti inutili moralismi che sentiremo, c’è una sola ricetta per fermare questo precipitarsi verso l’ingiustizia: che le lavoratrici e  i lavoratori ritornino  a una sana, convinta, democratica lotta di classe.

domenica 12 settembre 2010

Maurizio Landini. Perché manifestiamo il 16 ottobre

 
"Il lavoro è un bene comune": manifestazione nazionale 16 ottobre 2010 per i diritti, il lavoro, la legalità, la democrazia e il contratto. Videolettera di Maurizio Landini, segretario generale della Fiom-Cgil.

martedì 7 settembre 2010

La disdetta della Federmeccanica: un atto in malafede che apre la stagione dello scontro sociale

La decisione della Federmeccanica di disdettare formalmente il contratto nazionale sottoscritto nel 2008 con tutti i sindacati è la dimostrazione della malafede e, nello stesso tempo, della volontà di scontro frontale degli industriali. Disdettando il contratto ora, a molti mesi dalla sottoscrizione dell’accordo separato con Fim e Uilm che avrebbe dovuto rinnovare il contratto nazionale, la Federmeccanica dimostra che aveva ragione la Fiom quando sosteneva che il contratto del 2008 era ancora in vigore. Non si può disdettare una cosa che non esiste più. Nello stesso tempo con questa scelta la Federmeccanica dà l’avvio all’attacco finale al contratto nazionale. Solo pochi illusi potevano pensare che con Pomigliano si affrontasse una situazione particolare. Come hanno mostrato queste settimane da Pomigliano è partito l’attacco al contratto nazionale, allo Statuto dei lavoratori, alla stessa Costituzione della Repubblica.
Quella della Federmeccanica è una scelta eversiva senza precedenti a cui si dovrà rispondere sia sul piano legale, sia sul piano del più diffuso conflitto sociale. Anche se gli effetti formali di questa disdetta sono rinviati nel tempo, visto che il contratto resta comunque in vigore fino al 2012, quelli politici si dispiegano subito. Dimostrano che gli industriali italiani vogliono competere con i paesi a più basso costo del lavoro, senza investimenti, tagliando diritti e salario. Non solo la Fiom, ma tutta la Cgil, tutti gli spiriti liberi e le forze democratiche del paese, devono opporsi alla distruzione del contratto nazionale voluto da Marchionne, dal Governo, dalla Confindustria e dalla Federmeccanica.
L’epoca delle parole è finita, adesso si deve passare ai fatti con il massimo del rigore e dell’intransigenza nella mobilitazione.

Giorgio Cremaschi

Federmeccanica disdetta il contratto

Il direttivo di Federmeccanica ha dato mandato al presidente, Pierluigi Ceccardi, di comunicare il recesso dal contratto nazionale dei metalmeccanici siglato il 20 gennaio 2008. Lo riferiscono oggi (7 settembre) fonti di agenzia. La disdetta dell'accordo come ha spiegato lo stesso presidente, è avvenuta "a fronte delle minacciate azioni giudiziarie della Fiom relative all'applicazione di tale accordo" e viene comunicata "in via meramente tecnica e cautelativa allo scopo di garantire la migliore tutela delle aziende". La disdetta avviene dall'1 gennaio 2012.

L'organizzazione, inoltre, ha deciso di formare una commissione per attivare un tavolo di confronto con i sindacati, con lo scopo di definire norme specifiche per il settore auto. "E' stato dato incarico ad un'apposita commissione - si legge in una nota - di attivare un tavolo di confronto con le organizzazioni sindacali al fine di definire norme specifiche per il comparto".


Il direttivo, prosegue, "ritenendo urgente una regolamentazione condivisa del sistema di rappresentanza (sulla cui necessità esiste generale consenso e disponibilità dichiarata delle parti), ha espresso l’auspicio che le Confederazioni attivino al più presto un tavolo per regolamentare la materia per via pattizia".


Ceccardi respinge l'ipotesi di una pressione della Fiat: "Non ha spinto per niente, l'accelerazione che abbiamo imposto è per tutelare le esigenze delle aziende metalmeccaniche". Dopo la vicenda di Pomigliano d'Arco, aggiunge, "è emerso il convincimento unanime che è necessario proseguire con determinazione nell'adeguamento delle relazioni industriali, alla domanda di maggiore affidabilità e flessibilità che viene dalle imprese".


Landini, grave strappo alla democrazia

La decisione di Federmeccanica  è "grave", uno "strappo alle regole democratiche del nostro paese". E' questo il commento del segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, sull'esito del direttivo. A suo giudizio, la Federazione vuole "abolire il contratto nazionale contro il parere dei lavoratori e con il coinvolgimento di sindacati minoritari. Il contratto del 2008 rimane in vigore fino al 2011. La Fiom valuterà nel rapporto con i lavoratori metalmeccanici come e quando presentare una piattaforma per il suo rinnovo". Domani si riunirà il comitato e "valuteremo le azioni da intraprendere".

"Per noi il contratto del 2008 era già decaduto dal punto di vista formale e sostanziale
e quindi non si tratta di alcuna novità". Così il numero uno della Fim Cisl, Beppe Farina, commenta la decisione di Federmeccanica di disdettare il contratto 2008. "Ripeto - aggiunge -, nessuna novità sotto il cielo dal punto di vista sindacale". Sulla stessa linea anche la Uilm. "Con la disdetta annunciata da Federmeccanica, per i lavoratori non cambierà nulla: per noi della Uilm esiste un solo contratto, ed è quello firmato nel 2009, che scadrà nel 2012". Lo dice il segretario generale, Rocco Palombella, interpellato dall'Adnkronos.

Brevi note in merito al Comunicato Stampa di Fim-Cisl in relazione alla riforma del Ccnl dei metalmeccanici di Eugenio Orso

Leggo il comunicato e l’unica parola che al momento riesco a sussurrare è: gravissimo.
Come nel 49 a.C., valicato il Rubicone in spregio delle leggi e del Senato non rimane che Roma da occupare, e sembra che il potente e variopinto esercito che oggi attacca il lavoro dipendente in Italia – del quale la Cisl è l’”ala sinistra” mercenaria – è ormai arrivato a quel punto.
Dopo l’iniziale sorpresa deve però subentrare la riflessione.
Ma vediamo se ho capito bene, nell'essenziale, la "proposta" dei sindacalisti gialli, nonché la sua vera sostanza.
Dichiarandosi favorevole alla riforma del Contratto nazionale dei metalmeccanici, la quale non potrà che essere peggiorativa in termini economici e di garanzie al lavoro, la Fim-Cisl svela definitivamente il suo vero volto, vende all'incanto i lavoratori del settore ed offre una sponda a Confindustria, se non allo stesso Marchionne, mettendo in chiaro che la sua azione non è rivolta alla tutela del lavoro ma ad una progressiva flessibilizzazione dello stesso.
La manovra contro il lavoro di Fim assume come pretesto l'attacco Fiat, con la prospettiva dell'uscita della Fiat stessa da Federmeccanica/ Confindustria e la denuncia del contratto nazionale, cosa che innescherebbe una sorta di "reazione a catena" fra le aziende del comparto ed una vanificazione, di fatto, delle garanzie del Ccnl.
Si apre la strada all'utilizzo della contrattazione aziendale quale cavallo di Troia per scardinare la garanzia del contratto nazionale.
Le "deroghe" alle norme del Ccnl, stabilite in caso di crisi dell'organismo aziendale o per favorire un sempre più chimerico e improbabile sviluppo dell'occupazione, poggiano su motivazioni volutamente generiche, tali da consentire alle direzioni aziendali di valersi del predetto cavallo di Troia, usando per i loro scopi di precarizzazione/ flessibilizzazione del lavoro la contrattazione di secondo livello, ovviamente con il pieno supporto mercenario dei sindacalisti Fim-Cisl.
Questa "proposta" truffaldina, che consiste nel derogare al Ccnl aprendo, nei fatti, la strada ad un suo futuro superamento, poggia sulla paura [corrispondente ad un rischio reale dopo la minaccia della Fiat] che il contratto nazionale lo superino le stesse aziende con una nuova prassi, seguendo una strada tracciata da Marchionne.
Nel contempo, la "proposta" dei gialli Fim di fonda sulla lusinga di poter per questa via dare un contributo all'occupazione, ma oggettivamente attraverso la "deroga" al Ccnl apre la strada ad ulteriori de-emancipazioni.
Questo gioco sporco del bastone [la paura di un superamento del Ccnl da parte delle aziende, trascinate dal “creativo” Marchionne] e della carota [improbabili impulsi occupazionali che la deroga al Ccnl dovrebbe garantire] mi ricorda un po’ il gioco, altrettanto sporco, che è stato fatto con il cosiddetto accordo di San Valentino, il 14 febbraio dell’ormai lontano 1984, per demolire la scala mobile.
Gli attori politici erano diversi [al posto di Craxi oggi c’è Berlusconi, o meglio, il gruppo di potere che lo circonda], il clima sociale e culturale non troppo comparabile con quello odierno, ma di mezzo c’era sempre la Cisl [all’epoca quella di Pierre Carniti, sostenitore dell’accordo di San Valentino, non certo peggiore di quella attuale, con Raffaele Bonanni], pronta ad offrire una sponda a chi voleva superare una volta e per tutte il meccanismo della scala mobile, quale difesa del potere d’acquisto di salari e stipendi dall’inflazione.
In breve, anche in quella storica occasione si usarono bastone e carota, nel gioco truffaldino della paura e della lusinga.
La paura era quella dell’inflazione, che erodeva il potere d’acquisto dei redditi di lavoro dipendente, difesi dagli automatismi della scala mobile, e la lusinga consisteva nel far credere ai lavoratori che era proprio la scala mobile, con i suoi recuperi di potere d’acquisto ad alimentare il “mostro” depauperante dell’inflazione, e che solo abolendo tali meccanismi si poteva efficacemente combatterlo.
Tutto falso, come si è constato con il senno di poi, ma questa visione – alla quale aderiva anche l’ambigua Cisl di Carniti, “geloso” dell’influenza della Cigl sui lavoratori – ha indubbiamente trionfato, producendo i suoi frutti nefasti.
Oggi in gioco c’è la fondamentale garanzia rappresentata dal Ccnl e non più gli automatismi a salvaguardia del potere d’acquisto del lavoro, ma di mezzo c’è sempre il sindacalismo giallo della Cisl, auxilia di Confindustria e del governo in carica, con l’intento dichiarato di “lasciarsi coinvolgere” nelle scelte importanti della vita dell’impresa, nella loro gestione e nella distribuzione della ricchezza prodotta.
Intenzioni apparentemente lodevoli che riportano agli altrettanto truffaldini paradigmi, sostenuti in ambienti Cisl e nei suoi centri studi, della cosiddetta responsabilità sociale dell’impresa e del chimerico capitalismo sociale.
Perché dunque essere conflittuali, visto che della lotta di classe è stata proclamata ufficialmente la morte, o almeno la scomparsa, perché scegliere la via del conflitto e dei rapporti di forza?
Meglio essere condiscendenti, dice la Fim-Cisl, e “agevolare relazioni industriali che assumono l’impresa come luogo di interessi non necessariamente contrastanti”.
Il che equivale, in pratica, dati gli attacchi di Marchionne, le intenzioni di Confindustria e del governo, l’indifferenza della debole opposizione politica sistemica, al piegarsi a novanta gradi esatti davanti alle richieste “modernizzanti” di questo osceno Capitalismo Transgenico Finanziarizzato!
 

giovedì 2 settembre 2010

Lo stato dell’arte del disastro italiano di Eugenio Orso

E’ bene gettare uno sguardo nell’abisso, ritraendosi in fretta, cioè dare un’occhiata alla situazione politica, sociale ed economica italiana senza indulgere troppo e lasciarsi fagocitare dalle dinamiche sistemiche, per un rapido monitoraggio della stessa e per censire i peggioramenti in termini di prospettive future intervenuti dall’inizio dell’estate a oggi.

Gli eventi più recenti ed eclatanti si possono così riassumere:
1)     L’attacco della Fiat ai diritti dei lavoratori in Italia, ben simboleggiato dai licenziamenti nello stabilimento di Melfi e dal rifiuto di reintegrare concretamente i lavoratori licenziati, in spregio ad una sentenza della magistratura.
2)     La crisi di governo non dichiarata e non ancora formalmente esplosa, con la probabile dissoluzione dell’attuale maggioranza ed il ricorso alle urne, alla quale si aggiungerebbe un fantomatico [ma non troppo] “complotto” per far fuori Berlusconi e sostituirlo con un elemento più facilmente gestibile dai globalisti e dalla finanza privata sovrana.
3)     La recente visita del dittatore libico Gheddafi in Italia, appena conclusasi, che pone diversi problemi: dipendenza italiana dall’estero, per quanto riguarda non solo la decisione politica ma anche le materie prime, l’efficacia del business [micro]aziendalistico berlusconiano, in sostituzione di vere politiche economiche e industriali, ed eventuali ricadute positive per l’economia nazionale, l’occupazione, i redditi, la subordinazione della “dignità nazionale” e soprattutto dell’Etica alle esigenze del business, con la questione dell’immigrazione perennemente sullo sfondo.
A questi eventi aggiungiamo pure:
4)     La minaccia del federalismo “realizzato” che incombe da tempo sul paese e che potrebbe provocare fermenti secessionisti nel meridione.

Per quanto riguarda il punto 1, è chiaro che la Fiat, oltre a manovrare per riuscire a bypassare le garanzie del contratto nazionale di lavoro in tutti i suoi stabilimenti, e non soltanto in quello di Pomigliano, pretende anche l’”extra-territorialità”, creando in Italia l’equivalente delle famigerate Zone Franche di Esportazione nei paesi in sviluppo, in cui non si applicano vere garanzie normative a favore dei lavoratori, soggetti ad un libero sfruttamento integrale, e in cui, addirittura, non si rendono pienamente operative le sentenze dei tribunali a loro favorevoli.
Ma forse Marchionne e i suoi “azionisti” vogliono ancor di più, in ossequio al Liberoscambismo Assolutizzato, ed aspirano ad una completa extra-territorialità degli stabilimenti in loco, anche rispetto alla stessa legge penale del paese ospitante.
Potremo aspettarci anche qui, nel prossimo futuro, condizioni di lavoro paragonabili a quelle praticate nelle maquilladoras messicane, ed anche l’assassinio di sindacalisti scomodi e antagonisti, come ad esempio quelli della Fiom, sull’esempio dell’azione contro i diritti dei lavoratori delle multinazionali e dei narcos in Colombia?
Certo è, vista l’aria che tira, che si vuole estendere forme di sfruttamento intensivo del lavoro, in passato limitate ai paesi “in via di sviluppo”, al tessile, al lavoro femminile, anche alla vecchia Europa e al mondo “ex-ricco”.
Di certo, un “modo più moderno e dinamico” di intendere il rapporto di lavoro per poter affrontare l’accesa competizione globale che abbiamo davanti, un segno del percorso emancipativo tracciato per tutti noi dal liberismo e dalla liberaldemocrazia egemoni!
In pratica, la Zona Franca sul territorio nazionale pretesa da Marchionne e dai suoi referenti globalisti, in cambio della carota rappresentata da 20 miliardi di euro di investimenti sull’italico suolo nei prossimi anni, corrisponde in linea di massima a quella che Paolo Barnard, nel suo saggio “Il più grande crimine”, definisce una “sacca di Cina” in Italia, e se riuscirà a stabilirsi si rivelerà un efficace cavallo di troia dei globalisti – mascherati come sempre da Mercati e Investitori – che sono abbondantemente infiltrati nei gangli vitali dell’amministrazione Obama, ed anche attraverso quel contenitore impongono la realizzazione delle loro strategie in occidente e nel mondo.
La Fiat non è più un’azienda italiana e non è neppure un’azienda propriamente definibile americana, come molti mostrano di credere, ma bensì uno strumento di penetrazione della Global class in Italia, per l’ultima grande colonizzazione e per gli ultimi espropri vampireschi.
Le aziende globali, come ormai dovrebbero sapere anche i bimbi e i liberisti più tonti, non hanno nazionalità alcuna, non hanno obblighi verso alcun popolo e richiedono con sempre maggior arroganza l’extra-territorialità, in ossequio alla supremazia della libertà d’iniziativa economico-finanziaria e della proprietà privata, quali diritti naturali che mettono in ombra lo stesso diritto alla vita e che valicano ogni confine geografico, politico, doganale.
L’azienda ingrata e infedele oggi rappresentata dal laureato in filosofia [!] Marchionne, ha pur sempre ricevuto, negli ultimi anni, parecchi miliardi di euro in regalo dagli esecutivi italiani, sottratti alla spesa sociale, recuperati con le tasse, e trasformatisi poi in dividendi per l’intangibile Proprietà, con la scusa della difesa dei posti di lavoro sul patrio suolo che inesorabilmente e beffardamente si sono ridotti, e minacciano di assottigliarsi ancora nel breve.
Il terreno per un possibile, storico e definitivo successo della penetrazione globalista nel belpaese, non si è formato improvvisamente, ma è stato preparato negli ultimi due decenni con le manovre de-emancipatrici del lavoro, l’introduzione dei contratti di precarietà e flessibilità, la messa in discussione di contratto nazionale e dello statuto dei lavoratori, nonché con la compressione dei redditi da lavoro dipendente, in una sostanziale continuità che in tal senso hanno espresso le politiche-replicanti dei governi cosiddetti di centro-destra e di centro-sinistra.
D’altra parte, se per la Creazione del Valore finanziario le aziende sono diventate come limoni da spremere, nel breve, estraendone valore in borsa e poi gettandole, o vendendole dopo sanguinose ristrutturazioni giustificate dalla necessità di “riposizionamenti” sui mercati, perché non fare la stessa cosa con interi stati, siano asiatici o europei, appartenenti al sud del mondo od anche al settentrione?
Che differenza c’è, per gli agenti strategici del Capitale Transgenico del terzo millennio, fra i dipendenti della Fiat, quelli di Wal-Mart, o l’intero popolo italiano, o fra un grande organismo produttivo e lo stato italiano?
Nessuna differenza, in linea di principio, trattandosi nel caso dei dipendenti e dei popoli di “risorse” da spremere, direttamente o indirettamente, e nel caso delle grandi company e dei vecchi stati nazionali di organismi utili per la Creazione del Valore, diretta o indiretta.
Il Partito Unico della Riproduzione Capitalistica sta conducendo un'intensa campagna giornalistico-mediatica a favore del manager globale Marchionne, della “ventata di modernizzazione” che i suoi piani, se realizzati, porterebbero nel sistema produttivo nazionale, consentendogli finalmente di affrontare le “sfide globali”.
Si esalta il suo vivere “dopo Cristo” e non prima di Cristo che ha suscitato nel consueto meeting estivo di Rimini gli applausi della “cristianissima” platea di Comunione e Liberazione, più devota, con tutta evidenza, a Smith, a Friedman, a Soros che a Gesù Cristo …
La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone”, ha dichiarato Marchionne in relazione ai tre dipendenti Fiat di Melfi da lui licenziati ma da reintegrare pienamente, intendendo con questa ipocrita sentenza, in realtà, che dignità e diritti dei lavoratori devono essere superati nel suo allucinante “dopo Cristo”, che esclude qualsiasi vera Etica, compresa quella cristiana, ed ammette soltanto la falsa etica del valore creato e del profitto.
La vera sostanza del messaggio/ diktat all’Italia è la seguente: o si accettano queste condizioni-imposizioni o si resta esclusi dai mercati mondiali e dalle grandi correnti globali di “sviluppo”.
In poche parole, “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”, essendo il governo italiano palesemente diviso fra impotenza e forzata accondiscendenza.
Ah sì, quasi dimenticavo: Il Quirinale, nella persona del suo attuale dormiente, ossia il migliorista-comunistachehastudiatoinamerica Giorgio Napolitano, non ha mancato di ringraziare pubblicamente Marchionne per la sua disponibilità al dialogo!
In relazione al punto 2 non si può non riconoscere la ferale capacità di “resistenza” espressa da Silvio Berlusconi, davanti agli attacchi esterni di potenti entità mediatico-finanziarie principalmente albioniche e americane [iniziati sulla stampa nazionale ed internazionale con la pubblicità data agli scandali sessuali, le escort, le orge nei suoi palazzi privati, le feste di compleanno di ragazze neomaggiorenni], in relazione agli “attacchi” di una magistratura politicizzata che lo ha sommerso negli anni di avvisi di garanzia e impegni processuali, ed anche in relazione alle recenti fronde interne al suo stesso cartello elettorale.
Nonostante la sostanziale pochezza che finora ha dimostrato, Berlusconi resiste, no se rinde nei suoi sontuosi Alcazar, fucilino pure chi vogliono, ma non lui, organizza cene di lavoro nel comodo Fuhrerbunker di Palazzo Grazioli, senza il fragore dell’artiglieria comunista in sottofondo, stabilisce cinque punti irrinunciabili dell’azione di governo con i suoi ministri-avvocati-impiegati, primo fra i quali evitare i processi, e mostra di essere come la caparbia sanguisuga, che si potrà staccare soltanto con il fuoco.
Del resto, quello che vuole il cavaliere è soltanto mettere il suo culo al sicuro, raggiungere il Quirinale in tempo o più realisticamente giungere ad uno stabile compromesso con la potente mafia finanziario-globalista, dotata di mezzi incomparabilmente maggiori di quelli a disposizione della sua piccola mafia locale, la quale dovrà concedergli un buon salvacondotto per toglierselo dalle scatole.
Lo attende una vecchiaia su qualche isola offshore, in villa, con tutto il codazzo di escort e giullari di corte di cui ama circondarsi?
Salverà il suo impero aziendal-privato distribuito alla figliolanza?
Per ora, in luogo delle solenni note di Wagner [anche se il Götterdämmerung pare un po’ esagerato per Berlusconi], nei corridoi dei suoi palazzi risuona al più l’armoniosa voce partenopea di Apicella accompagnata dalla chitarra, a dimostrazione di quanto può essere grottesca e casereccia anche la tragedia.
Certo è che non soltanto il [presunto] blocco sociale berlusconiano è tenuto insieme con lo sputo – dall’egoismo di gruppi sociali retrivi, dall’ignoranza, dal plagio, dalla paura – ma anche il suo amato PdL, la sua creatura pseudo-politica fulcro del partito dell’amore e del predellino, frutto di un calcolo che si sta rivelando sbagliato, troppo frettoloso, a dimostrazione che il gruppo di potere che circonda Berlusconi e sfrutta la sua immagine non dispone di grandi strateghi, ma solo di mediocri impiegati, yesman e piccole tacche.
L’imprenditorialità tanto cara al cavaliere che questi suoi dipendenti, collaboratori e sodali dovrebbero esprimere si concretizza in misure raffazzonate, tipiche di un “navigare a vista” evitando fortunosamente gli scogli, e non certo di una razionale pianificazione strategica d’ampio respiro.
Da due mesi il ministero dello sviluppo economico è soggetto all’interim di Berlusconi, e ciò vale a dire che è completamente scoperto, come se si trattasse di cosa di secondaria importanza, durante una lunga crisi economica e sociale.
Del resto, essendo il gruppo di potere berlusconiano per certi versi erede del craxismo, non può non essere attorniato da nuovi contingenti di “nani e ballerine”, ed essendo il PdL un partito “leggero”, ossia principalmente una sorta di grande comitato elettorale/ club liberal-salottiero, non ha adeguate strutture per radicarsi nel territorio, all’infuori di quelle “ereditate” da AN, a suo tempo, dal vecchio MSI, quella stessa componente del PdL oggi spaccata dalla cosiddetta fronda finiana.
Con buona probabilità, le ultime settimane hanno chiarito che la fronda finiana non potrà più rientrare all’ovile, che non si potrà scordare il passato pur di continuare a governare, dopo un’accesa lotta ai coltelli, con attacchi personali, colpi bassi, diffamazioni e colluttazioni.
L’ambizioso e cinico “gerarca” [ex]berlusconiano Gianfranco Fini tenterà prossimamente altri colpi di mano, fuori o dentro il PdL, pur di far cadere lo scettro a Berlusconi ed aprirsi la strada verso la presidenza del consiglio o verso qualche altro importante incarico di governo.
In parallelo alla crisi del partito del fare, dell’amore e delle faide interne, se la piratesca Lega che ha raggiunto o quasi il suo massimo storico, dopo il quale non potrà che scendere o precipitare a vite, vuole elezioni subito per fare il pieno di consensi un’ultima volta e “fottere” con la consueta eleganza il suo malconcio alleato, il vergognoso partito di plastica chiamato Pd, senza programma politico e senza dignità, cerca penosamente di ritardarle, invocando, ad esempio, la necessità di una nuova legge elettorale condivisa, un superamento del porcellum, e sicuramente sarebbe favorevole a torbide soluzioni istituzionali, con l’alto patrocinio di Napolitano, che allontanino Berlusconi dalla presidenza del consiglio, ma che non portino allo scioglimento delle camere.
Infuria nel Pd, dimentico di ogni drammatica questione sociale in atto [Melfi, Pomigliano, ricatti Fiat, precari della scuola in angoscia, disoccupazione giovanile dilagante, condizione operaia degradata] alla quale le sue squallide burocrazie non sono evidentemente interessate, la polemica che divide trasversalmente la nomenklatura post-post comunista e post-post democristiana, fuse nell’unico “blocco” – non di granito, ma di merda, e quindi prossimo a sfaldarsi o a liquefarsi – che oggi discute accoratamente di sistemi elettorali alla francese o alla tedesca, mentre ieri discuteva su altri bizantinismi, come l’opportunità dell’uso della storica espressione “compagno” nei suoi inutili consessi.
Nel frattempo rischiano di aumentare le tensioni nord-sud, quale effetto congiunto della crisi economica e del malgoverno, e qui si innesta bene il punto 4.
Il federalismo-fiscal-burocratico-bossiano concesso da Berlusconi al Bossi opportunista e ricattatore puramente per mantenersi in sella, se veramente si realizzerà nella sua versione più hard, comporterà aggravi di costi insostenibili, tagli draconiani di risorse a [quasi] tutte le regioni meridionali già malconce, e fin d’ora questa minacciosa prospettiva moltiplica i fermenti fra gli stessi politici sudisti del PdL, fermenti e malcontenti nei quali si può cogliere una ancor embrionale minaccia secessionista, ma destinata a svilupparsi rapidamente nel caso si vada verso il baratro … pardon, verso il “federalismo fiscale” voluto dalla Lega.
Ultimo viene Muammar Gheddafi, di cui al punto 3, il pagliaccesco dittatorello libico che fuor dalla Gran Giamahiria Araba solo in Italia può sentirsi veramente importante, come se fosse un “conquistador” prodotto da una sorta di colonialismo di ritorno e nel contempo un grande uomo di stato che finalmente trova la sua platea e può pontificare.
Più che dall’evidente cattivo gusto nell’abbigliamento, a metà fra l’avanspettacolo e una sorta di uniformologia dadaista, nella scelta delle automobili, o nello sfoggio di agguerrite Amazzoni in funzione di guardie del corpo, più ancora dell’invito a convertirsi all’islam, rivolto a un paio di pool di hostess locali assunte a termine, l’attenzione dovrebbe essere attratta dai cinque miliardi di euro l’anno richiesti all’Europa dell’Unione allo scopo di arrestare il flusso migratorio verso il vecchio continente, che altrimenti, invaso da legioni di disperati, potrebbe a sua volta diventare Africa, cioè nero o almeno caffellatte …
Evidente l’intento levantino di contrattare alzando il prezzo, nonché il velato ricatto contenuti nelle richieste di Muammar Gheddafi, tanto che l’Unione ha dichiarato che la cifra è un’esagerazione, che si potrebbe far molto con capitali più ridotti.
Il dilettante Frattini al ministero degli esteri farà da tramite fra il dittatore libico e l’Unione, fino a che si troverà il “prezzo giusto”, stabilendo magari un tot di euro per ciascun disperato che giunge in Giamahiria dall’Africa subsahariana, sulla base di flussi migratori annualmente stimati …
Ciò che non si considera minimamente, in tutto questo mercimonio e in primo luogo nella democraticissima e liberale Europa, sugli organi di stampa “politicamente corretti” come nelle dichiarazioni politiche ufficiali o ufficiose, è la condizione dei migranti detenuti in Libia, la loro sorte, la necessità di riconoscergli almeno qualche fondamentale diritto e di tutelarli.
Ma l’imbroglio sta nel fatto che i flussi migratori potranno veramente arrestarsi, o ridursi significativamente, impedendo così la temuta africanizzazione–islamizzazione dell’Europa, solo e soltanto se si interromperanno le dinamiche di questo capitalismo, perché sono queste che li suscitano, che rendono inevitabile lo spostamento di intere masse umane verso nord e verso occidente, mentre i paesi più poveri del continente nero perdono circa un terzo della loro preziosa manodopera specializzata.
Ben poco può il regime di Gheddafi, nella piccola Libia, sia con 5 sia con 15 o più miliardi di euro annui erogati dalla UE, se agguerrite organizzazioni criminali transnazionali gestiscono i flussi di immigrati, fra i quali ben pochi possono viaggiare liberamente, per scelta, con mezzi decenti, dato che l’”economia criminale”, la quale fra le sue lucrose attività annovera anche il traffico di braccia e di schiavi, si sviluppa in parallelo con quella globale liberista, e le due si alimentano a vicenda.
E infine, chi può credere seriamente alla storiella che sarà Gheddafi [lautamente pagato] il difensore di un'Europa che rischia di essere sommersa da schiere di “nuovi barbari”?
Per chiudere il capitoletto dedicato al surreale colonnello libico, va ricordato che due anni fa è stato stipulato il Trattato di Bengasi fra Libia e Italia, che ha ufficializzato l’amicizia fra i due paesi [su questo, niente in contrario] e quella, sicuramente interessata, fra il colonnello esternatore e il cavaliere istrionico.
Nel Capo II dell’accordo, relativo alla chiusura del capitolo del passato e dei contenziosi, l’Italia si impegnava a reperire fondi finanziari per la realizzazione [in Libia] di progetti infrastrutturali di base per la bellezza di 5 miliardi di dollari in 20 anni, mentre la Giamahiria garantiva alla parte italiana e alle aziende esecutrici l’esenzione dalle tasse [art. 8 del trattato].
A ciò faceva seguito tutto un complesso di disposizioni, per la verità generiche, riguardanti materie quali la cooperazione negli ambiti scientifici e culturali, collaborazione economica, industriale e in campo energetico, collaborazioni militari ed altro.
Importante fu la rimozione di ostacoli procedurali e di regolamenti restrittivi, da parte del governo libico, che limitavano le possibilità d’azione delle aziende italiane.
I rapporti economici fra Libia e Italia, da allora, si sono effettivamente sviluppati ed oggi le importazioni di gas libico coprono oltre il dieci per cento del fabbisogno annuo nazionale, mentre oltre un terzo del greggio libico è destinato all’Italia.
Inoltre, il relativamente ricco fondo sovrano della Libia attratto da investimenti nella penisola non ha tipicamente velleità coloniali – a differenza di quello russo o cinese – ma principalmente “normali” scopi d’investimento.
Ma nonostante la relativa positività dei rapporti economici e finanziari Italia-Libia, che hanno avuto nuovo impulso in questi ultimi anni – forse uno dei pochi “meriti” che taluni riconoscono al IV governo Berlusconi – non si può che concordare con lo storico Franco Cardini che scrive, nel suo “Il Colonnello in maschera”: Gheddafi appare oggi, dal nostro punto di vista, quello che è: un “uomo di sponda” dell’affarismo berlusconiano, che si spinge perfino all’avventura criptofiloiraniana e alla russofilia strisciante, giustificate sempre dal nostro “interesse nazionale” (che poi sarebbe quello di alcune imprese italiane il cui business ha ben scarsa ricaduta sul benessere del paese).
Infatti, nonostante il Trattato di Bengasi del 2008, il petrolio e il gas libici, una certa apertura alle aziende italiana nei territori della Giamahiria libica, araba, islamica, socialista [eccetera, chi più ne ha più ne metta], e nonostante gli accordi Eni-Gazprom, nonché altri accordi e trattati minori con entità non troppo gradite ai globalisti occidentali e americani, non rileviamo da allora a oggi rilevanti e decisivi effetti benefici per l’economia nazionale, nonché ricadute positive sui redditi da lavoro e sull’occupazione.
Ciò che rileviamo, nonostante i supposti, importanti benefici che dovrebbero discendere dai richiamati accordi, è l’inesorabile prosecuzione del processo di de-emancipazione di massa, della compressione di salari e stipendi, della costruzione sociale di un “uomo nuovo”, costretto alla precarietà lavorativa ed esistenziale, e tutto ciò anche a causa dell’azione/ inazione dell’esecutivo berlusconiano.
E’ bene precisare con chiarezza, sulla scorta delle acute osservazioni di Cardini, che nonostante queste secondarie, timide “manifestazioni di indipendenza” dalla grande finanza anglo-americana che vuole privatizzare e colonizzare completamente la penisola, gestendola attraverso Quisling politici locali, non si inverte ma si approfondisce la tendenza complessiva al declino economico-produttivo e all’impoverimento della popolazione, una tendenza che è iniziata con gli anni novanta e che ormai può dirsi storica.

In definitiva, dopo questo breve excursus sperabilmente non troppo frammentario e superficiale, fuor di metafora, con linguaggio non eccelso ma sicuramente a tutti comprensibile, possiamo concludere che siamo sempre di più nella merda, e che, come disse a suo tempo un certo Paco d’Alcatraz, quando si tocca il fondo, ci si mette a scavare.