martedì 3 aprile 2012

La rivoluzione tecnica: il lavoro fuori dalla Costituzione

"Nella Costituzione il lavoro è un diritto, la riforma Fornero invece lo declassa a mera funzione del profitto. E' in gioco l'interpretazione della convivenza civile": intervista alla costituzionalista Silvia Niccolai. 


«Nella Costituzione il lavoro è un diritto, cioè un'espressione della personalità degli esseri umani. Il lavoratore è interessato a conservarlo a prescindere dal ritorno economico. Per la Carta il lavoro ha un valore che non coincide puramente con il profitto che il datore ne trae. La proposta dal governo, almeno secondo la bozza che è stata licenziata «salvo intese», rovescia questa impostazione. E stabilisce che il lavoro vale anche meno di altri beni della persona».


Professoressa Silvia Niccolai, docente di diritto costituzionale all'Università di Cagliari, può spiegare questa innovazione?
Lo faccio con un esempio. Nel testo del governo il reintegro del lavoratore è previsto nel caso di licenziamento discriminatorio, ovvio, e anche in caso di licenziamento disciplinare quanto i motivi addotti dall'azienda risultassero falsi. Evidentemente la logica del reintegro, in questo caso, è quella di riparare a un'offesa nell'onore personale, esempio: ti ho accusato di rubare in fabbrica e non era vero. Invece se ti ho licenziato per motivi economici, anche se poi risulta che questi motivi non esistevano, non è previsto il reintegro. Significa che sottrarre il lavoro a una persona per un motivo che non può essere dimostrato non offende quella persona in un bene paragonabile all'onore personale.


È una sua deduzione?
Non c'è bisogno di dedurre alcunché: è scritto. Leggo dal documento del governo: "La tutela nei confronti del licenziamento discriminatorio rimane, pertanto, piena ed assoluta, comportando esso la lesione di beni fondamentali del lavoratore, di rilievo costituzionale". Come dire che il diritto al proprio lavoro non fa più parte dei beni fondamentali costituzionalmente rilevanti. Viene declassato a funzione del profitto.


Solo perché la reintegra è sostituita con il risarcimento?
Secondo lo statuto dei lavoratori la reintegra non è solo una sanzione. È soprattutto il riconoscimento del diritto della personalità del lavoratore di esprimersi nel lavoro. Per questo oggi è previsto che chi è stato licenziato ingiustamente possa rientrare, portando con sé tutto quello che magari non piace al datore: l'attività sindacale o le proprie esigenze di orario legate allo sviluppo della sua vita.


Le imprese, si obietta, non possono affidare il loro destino ai giudici.
Poter discutere davanti a un giudice le ragioni del licenziamento economico, poter sostenere che quelle ragioni non c'erano o erano altre, esprime l'idea che le ragioni dell'impresa siano confrontabili con altri punti di vista, altri beni e altri valori. La garanzia giurisdizionale quando è piena e sensata serve a dire che le relazioni che si svolgono nel lavoro sono relazioni che si svolgono nell'intera società. Non sono chiuse nel rapporto tra imprenditore e lavoratore. Che cosa è giusto chiedere a un lavoratore? Che cosa non è giusto? La risposta a queste domande sviluppa un'idea della convivenza.



La disparità di trattamento tra licenziamento economico e quello disciplinare è tanto forte da violare il principio di uguaglianza?
La Corte Costituzionale potrebbe ritenere non irragionevole e non incoerente questa disparità solo stabilendo che in effetti l'onore è un diritto fondamentale e il lavoro no. Potrebbe farlo, ma a mio avviso sarebbe una rivoluzione, un cambiamento nella scala dei valori. È in gioco l'interpretazione della convivenza civile.


Eppure la tutela per il licenziamento discriminatorio non è stata intaccata.
Non è così, sarebbe sbagliato e persino pericoloso crederlo. Mi spiego: oggi il licenziamento discriminatorio fa corpo con quello senza giusta causa o ingiustificato motivo. La tutela è identica: il reintegro. Di conseguenza vengono tutelate anche situazioni che non sono tecnicamente discriminatorie, ad esempio il licenziamento di una persona non per il colore della sua pelle, la sua religione o il suo orientamento sessuale, ma magari perché usa la flessibilità dell'orario di lavoro per stare a casa la mattina con un figlio piccolo. Queste situazioni oggi sono tutelabili, almeno se ne può discutere. Sotto l'egida di un diritto antidiscriminatorio in senso stretto non si può. Perché chi non appartiene alla categoria protetta non può avvalersi di quella clausola.


Cioè il licenziamento dev'essere dichiaratamente discriminatorio?
Sì ed è una novità pesante. Con l'attuale statuto dei lavoratori tanti comportamenti ingiusti e sproporzionati che offendono la dignità possono essere respinti. Non c'è bisogno di provare di essere stati trattati peggio rispetto ad altri in virtù del fatto che si appartiene a una categoria protetta. Per la nostra tradizione giuridica, ogni comportamento che offende la persona nella sua individualità può essere ritenuto discriminatorio. Secondo la concezione europea e americana che si vuole affermare, invece, hanno diritto alla protezione determinate categorie, non la persona. E hanno diritto alla protezione sulla base di una concezione utilitaristica. Come a dire: è un bene per la società che le donne non siano discriminate, così lavorano di più.
Andrea Fabozzi - 03/04/2012
il Manifesto

venerdì 30 marzo 2012

L’articolo 18 non serve a niente? Leggete questa storia.

Mi chiamo Viola, i miei ultimi tre anni di vita sono stati inaspettati, terribili e travolgenti. La banca nazionale per cui lavoravo e lavoro, in qualità (al tempo) di direttore di una delle agenzie di Milano – per questo chiedo l’anonimato-,  un’azienda che conta circa cinquemila dipendenti, mi ha licenziata, e da un giorno all’altro mentre, all’apice della mia carriera, in odore di promozione.
Sono donna, ho cinquantadue anni, sono divorziata, ho un mutuo per la prima e unica casa, un prestito personale per la ristrutturazione, e un figlio di ventisei anni, insomma una persona normale che lavora e vive un’esistenza impegnativa e banalmente dignitosa.

Esattamente tre anni fa, mi sono addormentata stanca ma tranquilla, e orgogliosa della mia vita, e mi sono risvegliata in un incubo, devastata da un licenziamento che non ho mai capito né mai accettato. Stando ai dirigenti, io non avrei accettato di collaborare a un’operazione per conto terzi.
Dopo i primi tre/quattro mesi nei quali disperata, attonita e incredula, ero sostenuta dall’amore vero e disinteressato di pochi amici e familiari che dopo la caduta mi erano rimasti accanto – perché sì, è solo quando cadi in disgrazia che ti accorgi di quanta poca compassione ci sia- ho iniziato a capire. Tamponati grazie a chi ha creduto in me, non certo al welfare, i troppi, e improvvisi problemi economici, abbandonati i sensi di colpa -in quanto impiegata da trentacinque anni non avevo neppure il coraggio di andare dal panettiere per non dover giustificare la mia presenza fuori ufficio in ore lavorative-, è cominciata la mia battaglia.

Proprio grazie all’Articolo 18, dovevo e potevo riconquistare la mia dignità, lottando s’intende ma piena di speranza.
Faccio causa alla mia azienda con la certezza di vincere e tornare al mio lavoro perché, il licenziamento era ingiusto e lo Statuto dei Lavoratori in questo mi avrebbe tutelata.
Dopo un anno e mezzo di umiliazioni e tutto quanto non posso raccontare per ragioni di spazio, ho vinto. Il giudice ha ritenuto assente la “giusta causa”, il licenziamento illegittimo, e ha imposto all’azienda il mio reintegro (sebbene in un’agenzia non più in città, ma in provincia).
Senza l’articolo 18 avrei finito la mia esistenza lavorativa e non solo, perché nella migliore delle ipotesi, con le attuali proposte di legge, avrei avuto ventisette mesi di stipendio -che oggi sarebbero finiti- e sarei una disoccupata di cinquantacinque anni piena di esperienze e idee ma in miseria.

Tutto ciò che sento dire in giro è falso.

Le Aziende licenziano da sempre e nonostante l’Articolo 18: dal gruppo Facebook “lavoro e dignità” leggo alcuni dati: dal 2007 al 2011 ci sono state 31000 cause per licenziamenti illegittimi di cui vinte 300. E probabilmente una buona ragione ci sarà.
L’Articolo 18 non è un deterrente al licenziamento ma una FONDAMENTALE TUTELA per i lavoratori licenziati ingiustamente.
Di fronte al pagamento di ventisette mensilità, qualsiasi Azienda si permetterà di licenziare chiunque e senza motivi validi.
Vincerà la strafottenza dei superiori che ti girano le spalle perché guadagni troppo, perché improvvisamente non servi più, perché c’è stata una fusione, perché -ma chi se ne frega di quella-, perché non piace il giornale che leggi, perché porti i calzini azzurri e per mille ragioni che si possono addurre per sbarazzarsi di te. Punto.

Nel periodo di disoccupazione ho percepito 900 euro mensili per 12 mesi a fronte di un mutuo di 1000 euro e un prestito di 700.
Non ho potuto usufruire della sospensione del mutuo (una moratoria inutile per i miserabili e chi ne ha veramente bisogno) perché il mutuo era superiore ai 150mila euro. Mi hanno sbattuto le porte in faccia perché vecchia, perché prima del licenziamento guadagnavo troppo perché “macchiata” da un licenziamento, perché troppo qualificata, perché poco specializzata o troppo… non lo so più. Comunque, troppo giovane per la pensione e troppo vecchia per un nuovo lavoro.

All’improvviso mi sono trovata in un limbo, in una non esistenza dal futuro che ha il nome di MISERIA. Corsi di riqualificazione modello tedesco? Zero. Offerte di lavoro? Zero. Corsi della Regione?  Zero.
L’ufficio di collocamento non ha mai funzionato e che non ci raccontino balle visto che in Italia funziona tutto per vie traverse. Parlano i dati, non io.
La difesa dell’Articolo 18 è importante per chi, come me, sa di essere stata licenziata illegittimamente e può, combattendo, e credendo fermamente nelle legge, ottenere giustizia.

Se passerà questa legge, saremo tutti vinti, per sempre sepolti dalle ingiustizie, e alla fine, drammaticamente sepolti vivi, cremati assieme al ricordo della nostra semplice, quotidiana e dignitosa esistenza…, improvvisamente in un mattino qualunque.

29/03/2012
glialtrionline.it

giovedì 29 marzo 2012

L'Art. 18 non si tocca - Maurizio Landini

La lezione di Mario sbarca in Europa: i paletti per incrociare le braccia

Mario monti colpisce ancora, stavolta a livello continentale: il 21 marzo scorso la Commissione europea ha varato un testo che rischia di imbrigliare il diritto di sciopero. Autore: l'allora libero docente Super Mario
Mario Monti colpisce ancora. Ma questa volta, data la sua nota vocazione europea, colpisce a livello - per ora - continentale. Il 21 marzo la Commissione europea ha varato un testo basato sul documento chiesto da Barroso all'allora libero docente Mario Monti, che rischia di imprigionare il diritto di sciopero.
Il testo va sotto il nome di «consigli di regolamentazione dell'esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel contesto della libertà d'impresa e della garanzia dei servizi». La filosofia insita nel testo varato dalla Commissione sulla base del documento Monti è semplicissima: i diritti dei lavoratori vanno armonizzati con quelli economici. Siccome non esiste sciopero degno di tale nome che non vada in contrasto con l'impresa contro cui esso è rivolto, è ovvio che si vuole fortemente ingabbiare ogni possibilità di conflitto. A meno che, naturalmente, l'esercizio di un diritto sacrosanto non sia ritenuto «compatibile» con gli interessi, tanto per essere espliciti, del padrone. Cioè mai, almeno sul piano della logica.


Da Strasburgo, dove il testo della Commissione Josè Manuel Barroso è appena stato recapitato, arrivano i primi allarmi. Innanzitutto a preoccuparsi sono alcuni parlamentari italiani che hanno imparato a conoscere la filosofia del presidente del consiglio Monti. Tra questi c'è sicuramente Sergio Cofferati, il cui rapporto con l'articolo 18 non va certo spiegato ai lettori del manifesto. Quando il parlamento europeo incaricherà le commissioni competenti di analizzare il testo della Commissione, l'ex segretario generale della Cgil si occuperà, molto probabilmente, di spiegare ai suoi colleghi europarlamentari la pericolosità di una tale svolta nell'area geografica del perduto «modello sociale europeo». Le commissioni non hanno possibilità di emendare il documento ma soltanto di «proporre alcune modifiche», oppure di rigettarlo in toto, che sarebbe l'opzione più tranquillizzante.


Quel che emerge dal testo Monti-Barroso è che i diritti connessi alla sfera economica vengono prima dei diritti dei lavoratori. Di conseguenza, il diritto del lavoro può essere condizionato quando non impedito da quello dell'impresa. Se questa filosofia dovesse essere approvata dall'europarlamento, i vincoli già esistenti per i dipendenti pubblici sarebbero estesi anche ai lavoratori occupati nei settori privati. E di conseguenza si estenderebbero a tutti i limiti al diritto di sciopero. Per fare un esempio, l'essenzialità del lavoro di un operaio alla catena di montaggio sarebbe equiparata a quella di un medico ospedaliero. Si va oltre il liberismo per sfociare nell'assurdo e nella provocazione. C'è di più. Cosa potrebbe accadere per la rappresentanza dei lavoratori nelle aziende? Il libero esercizio dell'attività sindacale potrebbe addirittura essere considerato in contrasto con i «diritti dell'impresa», visto che è nelle facoltà delle rappresentanze sindacali indire scioperi e in generale iniziative di lotte a tutela della condizione e dei diritti di chi lavora.



C'è un filo logico che tiene insieme la cosiddetta «riforma del mercato del lavoro» e questa fantastica trovata europea. Se guardiamo all'impianto dei provvedimenti presi sul mercato del lavoro, è evidente nell'approccio dei professori la priorità dell'impresa sui lavoratori. Il presidente Monti sta attraversando l'Estremo Oriente per spiegare che finalmente in Italia si è introdotta la libertà di licenziamento. Persino il giudice è stato tolto di mezzo e ora finalmente i diritti connessi alla sfera economica sono considerati prevalenti sui diritti connessi al lavoro.
Il padrone ha sempre ragione, al massimo sarà tenuto a monetizzare il danno prodotto. Addirittura l'onere della prova in caso di licenziamento per motivi economici non è più dell'imprenditore, ma dell'operaio che dovrà dimostrare che invece il suo licenziamento ha ben altre motivazioni, rappresenta cioè una discriminazione. Questa filosofia, che grazie al presidente Monti da Roma rischia di estendersi all'intera Unione europea, segna il rovesciamento del fondamento stesso della nostra Carta costituzionale, nonché evidentemente dello Statuto dei lavoratori, basati sul presupposto che il soggetto più debole va protetto con maggiori tutele. Oggi invece il soggetto degno di maggiori tutele e diritti rischia di diventare il più forte, cioè l'impresa. Alla base di tutto c'è il mercato, alle cui esigenze tutto va piegato: leggi e uomini.


Il testo consegnato al parlamento europeo ha già subito una prima serie di correzioni che ne hanno addolcito il gusto, senza però privarlo del suo veleno. Tant'è che, secondo l'ufficio giuridico della Cgil, «i rischi di impatto sui sistemi di relazioni sindacali sono ridimensionati, seppur non scongiurati». La partita è aperta e ora il mazzo delle carte passa nelle mani dell'Europarlamento di Strasburgo. Sarebbe utile che le organizzazioni sindacali facessero sentire la loro voce, non solo nel ruolo di «mediatori» istituzionali ma anche di promotori di conflitto sociale in difesa di quel che resta del modello sociale europeo. 

Loris Campetti - 28/03/2012
il Manifesto

mercoledì 28 marzo 2012

Pensioni - Manifestazione unitaria il 13 aprile a Roma

Anticipata l'iniziativa della Cgil del 17 aprile. La leader: "Agitazioni e mobilitazioni in tutto il Paese, le tensioni sono evidenti". Bonanni (Cisl): "Governo e Parlamento rispondano agli esodati"



“Abbiamo deciso comunemente con Cisl e e Uil, di anticipare al 13 aprile la manifestazione di tutti i lavoratori” contro la riforma delle pensioni e gli interventi sugli esodati e “su tutti quei soggetti che pagano un prezzo altissimo di una riforma che è stata fatta senza considerare la realtà. Lo ha annunciato Susanna Camusso, spiegando che sarà quindi anticipata l’iniziativa Cgil prevista per il 17.

La leader della Cgil ha anche risposto a Mario Monti, convinto che il governo incasserà l’ok della Commissione europea anche sulle pensioni, come è accaduto per il lavoro, visto che “non ci sono motivi per ritenere che non avvenga lo stesso”.

“Credo che nessuno possa impedire al Parlamento di decidere legittimamente quali sono i testi finali che voterà rispetto al testo, tutt’ora non noto, che dovrebbe arrivare alle Camere”, ha commentato la Camusso. E ha aggiunto: “Credo che non sia mai stato in discussione che il Parlamento approverà la riforma, il tema in discussione è come la cambia”.

E’ intervenuta anche in merito alla situazione dei lavoratori di oggi e ha sottolineato che “le tensioni sociali sono già evidenti” visto che l’Italia è attraversata da scioperi e mobilitazioni. “Ci sono scioperi in tutti i luoghi di lavoro, continueranno a esserci e a essere programmati. I lavoratori – ha osservato – sono giustamente preoccupati che in una stagione così difficile invece di preoccuparsi di fisco, crescita e creazione di occupazione si cerca di licenziare più facilmente”. Inoltre ritiene che “convenga a tutti costruire di nuovo un effetto deterrente a fronte dell’illegittimità dei licenziamenti, e ragionare del licenziamento illegittimo e non delle singole tipologie”.

La Camusso non è stupita che siano “i metalmeccanici i primi che danno un segno, anche formale, di proclamare gli scioperi”, visto che “è uno dei settori che più ha crisi e difficoltà, e più teme che venga usato quello strumento per risolvere problemi che invece andrebbero risolti diversamente”. Alla richiesta dei giornalisti di una stima sull’impatto della riforma dell’articolo 18 in termini di occupazione ha risposto che “le stime si fanno su cose credibili, noi non riteniamo credibile che si possa andare ai licenziamenti facili”.

Interviene anche il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni secondo cui lo la manifestazione del 13 serve affinché governo e Parlamento risolvano “il problema di centinaia di migliaia di persone che sono rimaste già senza stipendio e senza pensione per effetto della riforma”. Bonanni ha ricordato che il sindacato aspetta di essere convocato su questo tema, come ha già annunciato il ministro Fornero ma, ha avvertito, “deve essere chiaro che su questo problema delle pensioni non faremo sconti a nessuno”. Si tratta di infatti di “una questione di giustizia sociale e di equità”, ha detto, perché “non possiamo far pagare a questi lavoratori ‘esodati’ il prezzo della riforma delle pensioni che si scarica essenzialmente su di loro, visto che sono rimasti senza ammortizzatori e senza pensione”. Esodati di cui ancora non si conosce il numero, come ha detto oggi nel corso di un’audizione alla Camera il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua.
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il Fatto Quotidiano - 28/03/2012

martedì 27 marzo 2012

Nel modello tedesco il reintegro c'è

di Giovanni Orlandini

Nel testo troppi i margini di discrezionalità al datore che vuole licenziare, ma gli studi più seri dicono che la flessibilità in uscita non produce occupazione. Ok solo alle misure su dimissioni in bianco e disabili.

Si è fatto un gran parlare in questi giorni di “modello tedesco” di licenziamento (ma anche di relazioni industriali), spesso senza conoscerne realmente i contorni e spesso piegandolo alle convenienze. Non sembra però che quel modello sia preso in considerazione dal governo, a giudicare dalla proposta di riforma presentata. In Germania spetta in primo luogo al consiglio di fabbrica valutare la fondatezza delle ragioni del licenziamento, mentre da noi manca perfino una legge sindacale che riconosca ai lavoratori il diritto di scegliere chi li rappresenta in azienda. In quel paese poi il controllo del giudice sui licenziamenti economici è molto accurato e può sempre portare alla reintegra del lavoratore.
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lunedì 26 marzo 2012

Stangata in busta paga per pensionati e dipendenti


Brutte sorprese in busta paga per dipendenti e pensionati: l'assegno di marzo sarà più leggero. Se non bastassero infatti i continui aumenti dei prezzi cui far fronte, guidati dall'impennata dei prezzi della benzina (che ormai viaggia inesorabilmente verso i 2 euro al litro), i cittadini dovranno fare i conti anche con lo sblocco delle addizionali regionali e comunali. A fare i conti in tasca a questo nuovo aumento del prelievo é il Caf-Cisl nazionale. Ecco cosa emerge.

IRPEF REGIONALE, STANGATINA PER TUTTI
L'aumento del prelievo scatterà per tutti sulle addizionali regionali e sarà dello 0,33%, con un effetto che varierà dai 51 euro per un salario da 1.200 euro mese ai 137 per uno stipendio da 3.200 euro per l'Irpef Regionale. Pagheranno invece 73 euro i contribuenti con 1.700 euro di stipendio e 94 euro quelli che con una busta paga mensile di 2.200 euro.

IRPEF COMUNALE, SOLO PER CHI HA GIA' DELIBERATO
C'é però l'incognita Irpef Comunale. L'aumento in questo caso va deciso dalle singole amministrazioni comunali che, se non lo hanno ancora deliberato, farà scattare l'eventuale aumento solo dopo. Qualche Comune ha però già deciso di utilizzare questa leva per aumentare i propri introiti tanto che, in questo caso, l'impatto annuale sulle buste paga potrà salire - è il caso di Chieti - fino a a 193 euro.

POCHI I COMUNI CHE HANNO GIA' DELIBERATO Fortunatamente i Comuni che hanno deliberato aumenti allo stato non sono molti. La manovra di Ferragosto firmata Tremonti-Berlusconi ha riconosciuto ai Comuni la possibilità di deliberare, a partire dal 2012, aumenti dell'addizionale comunale fino a raggiungere un'aliquota massima complessiva pari allo 0,8%, possibilità che era stata 'congelata' nel 2008 dallo stesso Tremonti. Ma nei casi in cui l'aumento sia già stato deliberato il conto arriverà martedì prossimo (altrimenti scatterà successivamente): si andrà, ad esempio, da un aumento (comunale) di 47 euro a Catanzaro (+51 euro per l'addizionale regionale, in tutto 98 euro in più) per un pensionato o lavoratore dipendente con 1.200 euro mensili (lordi) fino ad arrivare ai 193 euro di un pensionato/dipendente con 3.200 euro lordi mensili di Chieti (+137 euro di addizionale regionale e 56 euro per quella comunale). Insomma non un vero e proprio salasso ma una mini-stangata che si aggiungerà a tutte le altre in attesa del temuto arrivo dell'Imu a giugno e del 'temutissimo' rincaro di 2 punti delle aliquota Iva da ottobre prossimo, anche se in quest'ultimo caso il Governo sembra stia cercando vie alternative.

NIENTE PRELIEVO PER I REDDITI BASSISSIMI
Ad essere salvaguardati saranno solo i pensionati e i dipendenti con i redditi più bassi, che hanno redditi talmente sottili non dover pagare nemmeno l'Irpef principale. In particolare non dovranno alcuna addizionale i pensionati fino a 75 anni che guadagnano fino a 7.535 euro l'anno e quelli oltre 75 anni che guadagnano fino a 7.785 euro. I lavoratori, invece, saranno esenti fino a 8.030 euro.

IMU E IVA, STANGATE IN ARRIVO
Ma il vero salasso per le tasche degli italiani arriverà a giugno con l'Imu. La nuova imposta municipale è una nuova Ici che si pagherà anche sulle prime case e che sarà ancora più alta sulle seconde. La chiamata alla cassa, per il debutto di questa nuova tassa, è per il 20 di giugno. Ad ottobre, poi, è in arrivo l'aumento dell'Iva dal 21 al 23%. Introdotto come norma di "salvaguardia" per raggiungere il pareggio di bilancio potrà essere sostituito da altre fonti di entrata come la riduzione delle agevolazioni o il taglio delle spese con la spending review.

l'Unità - 26/03/2012