Il caso Telecom Italia è in queste ore balzato
all’onore delle cronache, ricordando all’opinione pubblica come il
nostro paese stia drammaticamente perdendo i suoi cespiti più
importanti. L’informazione moderna è frenetica e la memoria del pubblico
corta: probabilmente la notizia, e il dibattito attorno ad essa,
saranno già dimenticati nel giro d’un paio di giorni. Lo dimostra il
fatto che il clamore suscitato oggi dal passaggio della compagnia
telefonica nazionale in mani spagnole sia in realtà ingiustificato,
trattandosi solo dell’ultimo episodio d’un processo di privatizzazione,
parcellizzazione e vendita all’estero dei cespiti italiani che prosegue
da oltre un ventennio. Processo che va di pari passo con la collocazione
del debito pubblico all’estero, l’incremento della pressione fiscale
per pagare i sempre più onerosi interessi, la cessione della politica
monetaria a un’entità esterna, la rinuncia ad un ruolo statale
nell’economia, ed altro ancora. Tutti fenomeni interrelati tra loro, che
rispondono ad una carenza strategica dell’Italia e hanno il loro esito
nella retrocessione del paese a un ruolo completamento subalterno. Ma
andiamo per ordine.
Nel 1963 la nazionalizzazione del comparto elettrico, varata da
Amintore Fanfani, conferì il monopolio nel settore all’ENEL. La SIP, una
società elettrica rilevata negli anni ’30 dall’IRI e che fin dagli anni
’20 aveva investito nel settore telefonico, sfruttò le entrate
derivanti dalla vendita dei cespiti all’ENEL per dedicarsi interamente a
quest’ultimo settore, in cui già era da alcuni anni monopolista di
fatto controllando tutti gli operatori. La storia della SIP è di
successo, d’un operatore all’avanguardia mondiale. Ad esempio, è
italiana l’introduzione della prima scheda telefonica al mondo (1976),
una tecnologia protagonista per alcuni decenni della telefonia nonché
antesignana della scheda ricaricabile. Anche questa seconda tecnologia,
decisiva per lo sviluppo della telefonia mobile, fu un’invenzione
italiana: la prima scheda ricaricabile al mondo fu emessa dalla TIM, nel
1996.
Nel 1973 la SIP creò invece RTMI, la prima rete italiana
radiomobile integrata nel sistema telefonico nazionale: è lo stesso anno
in cui negli USA la Motorola lanciava il primo telefono mobile. Nel
1979 l’azienda statale italiana pose i primi 16 km di fibra ottica a
Roma: si tenga presente che tale tecnologia era stata applicata per la
prima volta negli USA solo due anni prima. All’inizio degli anni ’90 la
SIP era l’azienda europea col maggior numero d’abbonati al servizio
radiomobile. La STET, la società tramite cui l’IRI controllava la SIP,
aveva più di 135.000 dipendenti e un fatturato di quasi 14.500 miliardi
di lire. Tra le controllate di STET erano anche imprese strategiche come
Selenia (produzione di radar, avionica, elettronica di bordo, sistemi
missilistici) e Sistel (sistemi missilistici).
Nel 1985 cominciò il processo di privatizzazione, con la quota STET
in SIP che decrebbe dall’82% al 54%. Nel 1994 dalla fusione di SIP con
altre società controllate dalla STET nacque Telecom Italia, che nel 1997
si fuse con la STET stessa mantenendo il proprio nome.
Nel 1995 fu
invece scorporata TIM (che Telecom Italia avrebbe riacquistato nel 2005,
aggravando il proprio indebitamento); SEAT fu invece scorporata e
privatizzata a vantaggio d’una cordata guidata da De Agostini.
Nel 1997,
sotto il governo Prodi e con Guido Rossi a capo della società, il
Tesoro cedette quasi tutte le sue azioni (il 35,26% del capitale)
ricavando 26.000 miliardi di lire. Quasi 13 miliardi e mezzo di euro,
allora decisivi per l’ingresso dell’Italia nell’Euro, ma ben poca cosa
di fronte a un debito pubblico che oggi ha superato i 2000 miliardi di
euro.
All’epoca fallì il progetto di conferire il controllo di Telecom
Italia a un “nocciolo duro” costruito attorno agli Agnelli e
cominciarono le scalate: prima quella della cordata guidata da Roberto
Colaninno e riunita nella società Hopa (1999), poi quella della Olimpia
di Marco Tronchetti Provera (2001), infine quella della Telco composta
da banche italiane e dalla società spagnolo Telefonica (2007).
L’OPA lanciata dalla cordata guidata dal Colaninno nel 1999 ebbe
dimensioni imponenti: un affare da 100.000 miliardi di lire, il più
grande (ancora oggi) nel suo genere in Italia e tra i maggiori al mondo.
Eppure, tanto Colaninno quanto i suoi soci misero direttamente sul
piatto poco denaro, facendosi invece forti del credito ottenuto da varie
banche, con in testa la statunitense Chase Manhattan che
garantì da sola metà dell’importo. Anche quello della Olimpia fu un
acquisto a debito, e questa particolare modalità di scalata si è
ripercossa sullo stato di salute della Telecom Italia. Sebbene i
protagonisti abbiano sempre respinto l’accusa di aver scaricato sulla
società i debiti maturati per acquistarla, è un fatto che dalla
privatizzazione a oggi la Telecom abbia sostanzialmente bloccato
gl’investimenti sulla rete, dimezzato i dipendenti (da 120.000 a
55.000), ceduto il proprio patrimonio immobiliare (con ingenti ricavi ma
acquisendo l’onere d’affitti che ogni anno costano alla società varie
centinaia di milioni di euro), passato di mano investimenti e
controllate (Italtel, Digitel, Tim Hellas, Alice France e altre ancora).
Malgrado questo ingente piano di dismissioni e ridimensionamento, il
debito della società è esploso, dagli 8,1 miliardi di euro del 1998 ai
36 miliardi di euro di oggi. Ma, mentre la Telecom Italia accumulava
questi ulteriori 28 miliardi di debiti, la società ha continuato a
distribuire generosi dividendi ai suoi azionisti: ben più di 20 miliardi
di euro.
Oggi politica e opinione pubblica fanno mostra d’indignazione per
l’acquisizione della Telecom Italia da parte di Telefonica. La società
spagnola con un investimento di poco più di 800 milioni di euro
acquisisce il controllo di una che sul mercato vale 11 miliardi; i
giornali hanno poi ben descritto come Telefonica, già indebitata di suo
(54 miliardi di euro di debito netto), difficilmente investirà sulla
rete italiana, ma anzi il suo principale interesse è sbarazzarsi della
concorrenza che le sussidiarie Telecom Italia in Sudamerica fanno alla
compagnia spagnola. Eppure, il disastro della Telecom Italia – da
multinazionale dello Stato italiano all’avanguardia nel mondo a
indebitato carrozzone svenduto a una compagnia straniera – si è
consumato, lentamente e inesorabilmente, nel giro di un quarto di
secolo, ed epitoma una sorte simile toccata a tante altre eccellenze
italiane coinvolte nel processo di privatizzazione – un mantra che,
sempre per un quarto di secolo e più, è stato ripetuto e presentato come
taumaturgico dalla politica e dell’intellighenzia italiana. Alitalia e
Cirio sono esempi di compagnie che, dopo l’uscita dall’IRI, non hanno
certo brillato. Finmeccanica, rimasta in mano pubblica, ha mantenuto e
consolidato il suo ruolo nel mercato globale, ma oggi è nel mirino della
prossima tornata di privatizzazioni.
Il passaggio in mano straniera di determinate compagnie non è una questione di prestigio nazionale. Pecunia non olet.
Il problema è altresì strategico e di tenuta del sistema Italia. La
rete telefonica (ivi inclusa Internet) del nostro paese è passata in
mano spagnola. Il sistema agroalimentare italiano è stato in larga parte
acquisito dai francesi. Nell’informatica sono lontani i tempi in cui la
Olivetti gareggiava con i marchi statunitensi nell’introduzione dei
primi PC. L’industria degli armamenti, economicamente ancora sana, a
causa della pressione della politica e di quella dell’opinione pubblica
dopo il disvelamento d’alcuni scandali di corruzione, ha avviato la
cessione di cespiti all’estero. L’Italia sta perdendo non solo il
controllo di elementi strategici della sua economia e capacità
produttiva, ma il processo di privatizzazione – a prescindere che sia
avvenuto a vantaggio di compagnie stranieri o di “capitani coraggiosi”
di casa nostra – si è accompagnato generalmente al radicale calo
degl’investimenti nell’ammodernamento delle strutture e nella ricerca
scientifica, nonché alla delocalizzazione d’impianti e produzioni
all’estero. Vi è inoltre il problema fiscale: l’acquisizione da parte di
grosse multinazionali favorisce quei processi di elusione in virtù del
quale corporation dai fatturati miliardari versano in tasse cifre irrisorie (vedi il caso Apple, capace di pagare nel 2011 dieci milioni di tasse pur avendo entrate da 22 miliardi).
La perdita di controllo su strutture strategiche, il calo
dell’occupazione, l’uscita da settori ad alta tecnologia (la progressiva
sparizione della grande industria in Italia è all’origine di
quell’incapacità del sistema d’assorbire i laureati italiani, con
conseguente “fuga dei cervelli” istruiti a caro prezzo), sono problemi
che l’Italia patisce non da oggi, ma da decenni, e che sono indipendenti
dalla nazionalità dell’acquirente del cespite privatizzato. Gioielli
dell’industria italiana, oggi finiti in mano straniera o in procinto di
farlo, vi sono giunti dopo che il capitalismo nazionale li ha demoliti
con una gestione poco lungimirante, e certo incosciente, mirante solo a
massimizzare i profitti a breve termine. Uno Stato debole e guidato da
funzionari poco coscienziosi, che si sono fatti scudo strumentalmente
del tema del debito pubblico (le privatizzazioni hanno inciso e
incideranno minimamente a vantaggio delle casse statali), ha svenduto
beni così faticosamente creati e accumulati dall’Italia in sforzi
pluridecennali. Inutile oggi stracciarsi le vesti perché Telecom Italia
diventa spagnola, e il giorno dopo svendere ENI o Finmeccanica. Inutile
anche recuperare la rete per decreto – e un nuovo sacrificio
finanziario, dal momento che non si può espropriarla senza indennizzo –
salvo poi perseverare nel non investirvi per ammodernarla, cosa più che
probabile visto che nessuno più in Italia, né lo Stato né le banche né
gl’industriali, hanno i soldi necessari e la volontà di spenderli.
Il problema è a monte.
È in un’adesione ideologica e dottrinaria al neoliberalismo, coi suoi mantra del laissez-faire,
della non ingerenza dello Stato nell’economia, del privatizzare, del
lasciar fare al mercato. È nell’assenza di una pianificazione strategica
da parte dello Stato e di una riflessione strategica da parte della
società civile. È nell’incapacità della società italiana di mantenere
una coesione morale e un minimo di patriottismo necessari a salvarla
dagli ovvi assalti di competitori stranieri giustamente decisi a
massimizzare i propri profitti. Sono questi gl’ingredienti della crisi
del nostro paese, ch’è non solo la crisi del debito che l’attanaglia
ormai da alcuni anni, ma è una più generale retrocessione dell’Italia
dal suo rango di paese tra i più avanzati al mondo. Senza affrontare
questi macro-problemi il declino proseguirà inarrestabile. E Telecom
Italia che passa a Telefonica, nel libro di questo declino, è
paragonabile a non più di un breve paragrafo.
D. Scalea - 25/09/2013
http://www.geopolitica-rivista.org
venerdì 27 settembre 2013
mercoledì 25 settembre 2013
Un Paese in (s)vendita
Finmeccanica si vende i gioielli
Ansaldo Sts, Breda ed Energia verso terre straniere. Il gruppo si
concentra sul militare. Sindacati allarmati: «È una delle ultime aziende
che investe in ricerca». Sembra tramontare anche l'ingresso di Cassa
depositi e prestiti. E intanto Telecom diventa spagnola. A rischio
migliaia di posti di lavoro
Borse che festeggiano, valorizzando il titolo
del 4% in una seduta per il resto negativa. Sindacati preoccupatissimi e
pronti alla mobilitazione. Governo tentennante, di fatto incapace di
una politica industriale degna di questo nome. Nel caso Finmeccanica e
nelle sue previste dismissioni c'è la fotografia di un paese che si
riduce perfino a smantellare uno dei suoi ultimi grandi presidi
industriali e tecnologici. Salvaguardando il solo comparto militare, a
scapito di due eccellenze del settore civile come Ansaldo Energia e
Ansaldo Sts, e dell'unico polo ferroviario nazionale rappresentato da
Ansaldo Breda.
A Fiom, Fim e Uilm che erano stati convocati proprio
per parlare delle tre Ansaldo, l'ad di Finmeccanica, il «finanziario»
Alessandro Pansa, ha ribadito che la sua politica non cambia: «Pansa ha
confermato la strategia per il gruppo decisa nello scorso giugno 2011 -
riepilogano i sindacati - tesa a concentrare le opportune risorse allo
sviluppo dei settori considerati core business: aeronautica,
elicotteristica, elettronica della difesa e spazio». Finché c'è guerra
c'è speranza. Tanto che dell'ipotesi di vendere la controllata americana
Drs, per fare un po' di cassa, proprio non si è parlato.
Al
contrario Finmeccanica, che pure conta 40 mila addetti e in un paese
tecnologicamente desertificato ha investito in ricerca e sviluppo 10
miliardi di euro negli ultimi cinque anni, sostiene che «anche a fronte
dell'eccessivo indebitamento e della scarsa generazione di cassa, non ha
le risorse necessarie per sviluppare le attività di tutte le società».
Quindi si (s)vende: «Le trattative per la cessione di Ansaldo Energia ai
coreani (di Doosan, ndr) sono a uno stadio molto avanzato - riassumono
Fiom & c. - Inoltre l'ad Pansa ci ha informato dell'esistenza di
un'altra trattativa aperta per il settore del trasporto ferroviario con
importanti gruppi manifatturieri esteri». Che sono General Electric per
l'altro gioiello di famiglia, Ansaldo Sts, e i giapponesi di Hitachi per
Ansaldo Breda.
Allo shopping delle multinazionali potrebbe opporsi,
almeno in teoria, il governo. Solo due giorni fa Stefano Fassina aveva
fatto accarezzare una ipotesi «riformista»: nonostante che il ministero
dell'Economia sia il primo azionista di Finmeccanica (con circa il 33%),
il suo numero due spiegava: «Noi vogliamo una soluzione che, attraverso
la Cassa depositi e prestiti, consenta alle tre Ansaldo unite di poter
rimanere in modo molto trasparente e fermo sotto il controllo italiano,
con la ricerca di partner industriali disponibili». Posizione analoga a
quella del ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. Ma a
giudicare dalle parole dell'ad Pansa ai sindacati, anche la (s)vendita
soft incontra resistenze.
Di più: chiamata in causa («Tocca ora a
Cassa depositi e prestiti farsi avanti con una proposta»), ieri la Cdp
per bocca del suo presidente Franco Bassanini ha detto papale papale:
«Non siamo la vecchia Iri, dobbiamo porre un'attenzione rigorosa alla
sostenibilità economico-finanziaria degli investimenti e dei
finanziamenti che facciamo. Anche i vincoli della Ue ci impongono di
comportarci secondo i criteri degli investitori di mercato». Come se
Ansaldo Sts e Ansaldo Energia fossero aziende decotte, e non dei
gioielli del made in Italy.
Il sindaco genovese Marco Doria, che ha
Ansaldo Energia in casa, la vede così: «Il governo Letta è stato troppo
silenzioso su Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, una vicenda che ha
un'importanza assoluta per l'industria nazionale. Lasciare la decisione
sul futuro delle nostre aziende soltanto a un gruppo che legittimamente
guarda ai suoi equilibri di bilancio mi è sembrato molto riduttivo». Del
resto, quando Letta ha parlato in difesa di Ansaldo Breda - e
dall'agenzia di consulenza tecnica indipendente Mott MacDonald emerge
che non c'è nulla che non vada nel treno ad alta velocità Fyra
contestato da belgi e olandesi - poi non è successo niente.
R.Chiari - il Manifesto - 24/09/2013
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lunedì 23 settembre 2013
Comunicato Rete 28 aprile - Verona
IL RICATTO E’ LA NUOVA
POLITICA
INDUSTRIALE DEI PADRONI.
La nuova politica
industriale non è fatta di investimenti, ricerca e innovazione ma di ricatti.
Da Marchionne ai Riva questa è la nuova strategia dei
padroni contro le lotte dei lavoratori e i loro diritti ormai quasi
completamente cancellati.
La crisi è ben
lontana dalla soluzione, anche se governo di ladre intese e padroni hanno
inventato una ripresa che serve solo a distribuire denaro pubblico alle imprese,
ma che dai dati ufficiali non ha alcun riscontro, giacché la disoccupazione e
la precarietà sono aumentate anche quest’anno ed il Pil “è deludente”, come
afferma la commissione dell’Unione Europea; che usa un eufemismo per dire che
il nostro PIL è semplicemente disastroso.
In parole più semplici la ripresa è una
ripresa per i fondelli.
Di fronte a questi ricatti la risposta del governo è di fare
decreti ad hoc per permettere ai padroni di turno di continuare a sfruttare
sempre più i lavoratori e a continuare ad inquinare il territorio provocando
disastri e dissesti ambientali e morte.
Le cosiddette “parti
sociali”(una volta si chiamavano sindacati e la Confindustria era il
sindacato dei padroni che era la controparte sociale) balbettano e aspettano commissariamenti salvifici che salvano solo
i profitti delle imprese che ricattano e inquinano.
E di tutto ciò si
finisce per scaricare la colpa sulla magistratura che applica le leggi di
questo Stato e ne pretende il rispetto. Applausi alla magistratura quando
colpisce gli immigrati ma guai a toccare i padroni e i condannati per frode
fiscale che reclamano “agibilità politica”.
La Costituzione Italiana, che
un parlamento nominato vuole stravolgere perché indigesta a chi vuole le “mani
libere”, sancisce
che:
Art. 41: L'iniziativa economica
privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale
o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
E
l’art. 43: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o
trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti
pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie
di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di
energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente
interesse generale.
Nel caso di Riva Acciaio, ancor di più, in quanto attività d’interesse
generale giacché ha il monopolio dell’acciaio nazionale, vi sono gli estremi per la nazionalizzazione
e senza indennizzo, giacché dovrebbe essere riva ad indennizzare lo Stato
e i lavoratori per i danni provocati agli esseri umani e al territorio. Non ci si può limitare a chiedere lavoro perché il lavoro
senza diritti fondato sui ricatti non è lavoro ma schiavitù.
La Rete 28 Aprile – opposizione CGIL esprime la propria solidarietà ai
lavoratori con la propria presenza nelle piazze
e sui luoghi di lavoro, contro
ogni ricatto e attacco ai diritti del lavoro e costituzionali.
La Rete 28 Aprile si
impegna a continuare nella CGIL il dibattito e, quando necessario, il conflitto
democratico, per un’opposizione più incisiva contro la linea di governo e
padroni per riportare nella lotta e nella contrattazione nazionale i diritti
cancellati e per una più forte risposta complessiva fuori fa ogni compatibilità
e responsabilità che non riguardano i lavoratori che troppo hanno già dato
senza ricevere in cambio che disoccupazione, precarietà e miseria.
Rete 28 Aprile – opposizione CGIL Verona,
Via G. dai Libri, 4 37.131 Verona – tel. 338-8717731
Via G. dai Libri, 4 37.131 Verona – tel. 338-8717731
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venerdì 13 settembre 2013
CC Fiom - ODG su manifestazione 12 ottobre
Dichiarazione di voto di astensione di Sergio Bellavita. Segue il documento approvato dalla maggioranza (...)
Odg “Manifestazione 12 ottobre 2013”
Dichiarazione di voto di Sergio Bellavita
Ci asteniamo per due ragioni, in primo luogo non è stata accolta la nostra proposta di valorizzare e accogliere tutte le iniziative di mobilitazione che sono già preannunciate per ottobre, in secondo luogo consideriamo che la manifestazione a difesa della Costituzione non possa prescindere da una denuncia netta e radicale delle responsabilità del presidente Napolitano e del Pd sulla manomissione della Costituzione repubblicana.
Ordine del giorno
Manifestazione 12 ottobre 2013
Il Comitato centrale impegna tutta l’organizzazione alla piena riuscita della manifestazione nazionale indetta per il 12 ottobre sui contenuti del manifesto: “La via maestra: la Costituzione” e su cui si è svolta l’Assemblea aperta dello scorso 8 settembre.
Ciò in coerenza con la piattaforma con cui la Fiom ha svolto la manifestazione dello scorso 18 maggio e con le lotte per la difesa dei diritti nel lavoro, della democrazia, della legalità, rappresentate emblematicamente, dalle lotte per l’occupazione e contro la precarietà, per la riconquista del Ccnl, dalle vicende Fiat e dalla sentenza della Corte costituzionale.
Approvato con 77 voti favorevoli, 1 contrario, 14 astenutiDichiarazione di voto di Sergio Bellavita
Ci asteniamo per due ragioni, in primo luogo non è stata accolta la nostra proposta di valorizzare e accogliere tutte le iniziative di mobilitazione che sono già preannunciate per ottobre, in secondo luogo consideriamo che la manifestazione a difesa della Costituzione non possa prescindere da una denuncia netta e radicale delle responsabilità del presidente Napolitano e del Pd sulla manomissione della Costituzione repubblicana.
Ordine del giorno
Manifestazione 12 ottobre 2013
Il Comitato centrale impegna tutta l’organizzazione alla piena riuscita della manifestazione nazionale indetta per il 12 ottobre sui contenuti del manifesto: “La via maestra: la Costituzione” e su cui si è svolta l’Assemblea aperta dello scorso 8 settembre.
Ciò in coerenza con la piattaforma con cui la Fiom ha svolto la manifestazione dello scorso 18 maggio e con le lotte per la difesa dei diritti nel lavoro, della democrazia, della legalità, rappresentate emblematicamente, dalle lotte per l’occupazione e contro la precarietà, per la riconquista del Ccnl, dalle vicende Fiat e dalla sentenza della Corte costituzionale.
www.rete28aprile.it - 13/09/2013
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giovedì 12 settembre 2013
Colpiscine 9 per educarne 7000 (piccoli (?) fascismi avanzano...)
Accusati 9 lavoratori per le proteste contro la Fornero
|
In settembre a Modena, presso gli uffici del Prefetto cominceranno a Modena le audizioni per i 9 lavoratori sanzionati per l'occupazione dell'Autostrada A1, avvenuta il 31 marzo 2011 nell'ambito della campagna nazionale di lotta contro la Riforma Fornero e per la difesa dell'art.18. Il 31 marzo del 2012, più di 7000 operai metalmeccanici, giunti davanti al casello di Modena Nord, rompendo spontaneamente cordoni e trattative improvvisate con la Digos, decisero di entrare in A1 e di bloccarne la circolazione. L'inziativa si concluse senza danni o tensioni, con ulteriori blocchi di “ritorno” lungo la via Emilia. L'entusiasmo dei lavoratori quel giorno era alle stelle, per aver finalmente partecipato ad un'inziativa non rituale ed essere riusciti persino a “forzarne” l'esito verso l'azione diretta. Alcuni mesi dopo, arriva la rappresaglia: a 9 lavoratori (su 7.000!) viene contestata l'azione del 31 marzo, con la richiesta di pagare 2500 euro ognuno per l'infrazione commessa. Ora: in un Italia in cui dalla Val Susa alla Sicilia fioccano arresti e criminalizzazioni di ogni tipo, questi provvedimenti possono risultare blandi o secondari. Ma qualche considerazione va fatta: 1) è la prima iniziativa della CGIL che a Modena subisce una sanzione giudiziaria/amministrativa da decenni a questa parte. Un brutto calcio in culo, per un sindacato che in questa città è sempre stato nella stanza dei bottoni. Un chiaro segno dei tempi. 2) La sanzione pecuniaria, lungi dall'essere una misura debole o affievolita, rappresenta un pericolo crescente per le lotte sociali: Procure, Questure e Prefetture, spesso evitano la via scivolosa della denuncia penale (i processi sono lunghi e possono sfuggire di mano) e mirano nell'immediato a fare quanti più danni possibili sul piano economico a singoli soggetti, mirati o pescati a caso nella massa. Questo sistema è usato spesso con gli studenti: la novità è l'utilizzo contro delegati e iscritti del sindacato più rappresentativo. 3) La CGIL modenese ha sempre taciuto sulla vicenda, mentre la Fiom l'ha subita come un'infortunio da non ripetere: ma la massa di operaie e di operai che quel giorno si sono riversati sulla carreggiata della Milano Napoli, nell'azione di lotta più importante della storia sindacale modense negli ultimi vent'anni, rappresentano una lezione da non dimenticare per i profeti del “... tanto i lavoratori non ci seguono...”. Quando si fa sul serio, gli obiettivi sono forti, il terreno di lotta è chiaro, non solo i lavoratori “...ci seguono”, ma spesso e volentieri corrono avanti più veloci delle mediazioni di piazza o di palazzo. Per le burocrazie e le Questure questo può essere un bel problema da risolvere con denunce e maxi multe. Ma per chi agita il conflitto sindacale e sociale, è una lezione preziosa. Adesso c'è da capire la volontà di andare fino in fondo da parte della Prefettura (l'organo di appello alle sanzioni). Nel caso si confermasse tale volontà punitiva, le lavoratrici e i lavoratori che quel giorno erano in autostrada con la FIOM dovranno tutti essere nuovamente mobilitati nella solidarietà ai loro compagni colpiti, così come la CGIL dovrà schierarsi apertamente, mettendoci la faccia, a tutela dei propri iscritti. G. Iozzoli http://www.rete28aprile.it - 12/09/2013 |
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mercoledì 11 settembre 2013
Rinazionalizzare le pensioni conviene
Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia si riprende la parte pubblica
dei fondi privati. Nella gestione privata c'è solo un vincitore, i
fondi pensione che fanno la cresta.
Non c'è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia
governata da un liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico.
Il
governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a trasferire
forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37
miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito
pubblico di un valore pari all'8% del Pil. Con la debacle del sistema
cileno di qualche anno fa - che però è una storia un po' diversa - la
disfatta dell'offensiva contro la previdenza pubblica guidata una
ventina d'anni fa dalla World Bank è completa. E pour cause. Quello che i
primi tre paesi fecero fu semplicemente trasferire la gestione del
sistema pensionistico pubblico ai privati sicché, mentre il sistema
restava fondamentalmente il medesimo, i costi di gestione si
accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei
profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo
indietro. Semplicissimo.
Nel sistema pensionistico pubblico gli enti
mutualistici (come l'Inps) prelevano i contributi dei lavoratori
(supponiamo 100 euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati
correnti (diciamo 98, con 2 euro che sono i costi di gestione del
sistema pubblico che è molto più efficiente del sistema privato). I
lavoratori sono consenzienti perché contribuendo oggi acquisiscono il
diritto alla pensione da anziani.
Con le privatizzazioni, invece, gli
stessi 100 euro dell'esempio venivano devoluti a fondi pensione i quali
li investivano nel mercato finanziario. La promessa era che le pensioni
future non sarebbero state più erogate dallo stato, bensì dal riscatto
dei fondi investiti incluso il rendimento realizzato.
Ma è proprio così?
Intanto gli enti mutualistici come fanno a pagare le pensioni correnti
una volta che vengano meno i contributi (se questi vanno ai fondi
pensione)? Ciò che accade è che il Tesoro emette titoli di stato (per
100 euro) per pagare le pensioni correnti. E chi li compra? Gli stessi
fondi pensione coi contributi dei lavoratori.
Insomma, prima della
riforma i lavoratori davano 100 allo stato e questo ci pagava le
pensioni.
Ora danno 100 ai fondi pensione che ci acquistano 100 titoli
di stato con cui quest'ultimo ci paga le pensioni.
È cambiato qualcosa?
Nella sostanza no: i 100 di contributi servono sempre a pagare le
pensioni correnti - com'è nella logica di qualunque sistema
pensionistico in cui chi lavora sostiene gli anziani - solo che fanno un
giro più tortuoso. E in questo giro c'è chi ci perde e chi ci guadagna.
Lo stato deve pagare degli interessi sui titoli che emette. Per esempio, a un tasso del 5% per erogare 100 euro di pensioni deve pagare 5 euro di interessi
all'anno su 100 di titoli emessi. E chi si intasca gli interessi?
Supponiamo che i gestori dei fondi attribuiscano il rendimento dei
titoli ai lavoratori, è questo un guadagno netto per loro? No, perché
nella veste di lavoratori o di pensionati (e nella vita capitano
entrambi i ruoli) lo stato chiederà loro 5 euro di imposte di più
all'anno. Inoltre è molto probabile che dei 100 euro di contributi
investiti in titoli di stato, i fondi pensione ne restituiscano ai
lavoratori quando andranno in pensione solo, diciamo, 80 o 90, per le
spese di gestione, marketing e profitti.
C'è solo un vincitore, i fondi
pensione che fanno la cresta.
Questi fatti erano chiarissimi già a
fine anni '90 a economisti come Stiglitz e altri. Meno chiari erano a
presunti tecnici nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a
potenti interessi finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni
vicini alla sinistra radicale).
Gli economisti della World Bank, la
principale paladina delle riforme, non erano così sciocchi da non
vedere che si trattava di un gioco delle tre carte. Ma avevano un
argomento di riserva. Con la riforma il debito pubblico cresce perché,
come s'è visto, lo stato si indebita per pagare le pensioni correnti. Ma
nella logica del tanto peggio tanto meglio della World Bank, ciò
avrebbe aperto la strada a ridurre altre voci della spesa sociale.
«Il
fatto eclatante - nota uno sconcertato Vittorio Da Rold su Il Sole del
6/9 - è che i fondi pensione non saranno minimamente risarciti». Ma il
giornalista si dà da sé la ragione: il governo polacco ritiene, infatti,
«che i bond siano stati acquistati con i contributi dei dipendenti che
altrimenti sarebbero andati al governo».
Lo stato cioè si riprende
titoli che appartengono ai lavoratori, e li cancella dal proprio debito,
garantendo a questi ultimi le pensioni future, probabilmente più certe
ed elevate, visto che chi ci rimette sono solo i fondi pensione che
dovranno smettere di fare la cresta alle spalle di stato, lavoratori e
pensionati.
S. Cesaratto - 10/09/2013
il Manifesto
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martedì 10 settembre 2013
Italia in vendita, a partire da ENI?
"Il Governo sta lavorando al Piano Destinazione Italia, che a fine
settembre presenteremo e approveremo, con dentro un grande pacchetto di
dismissioni e incentivazioni per l'attrazione degli investimenti esteri"
Enrico Letta, primo ministro italiano (8 settembre 2013)
Prima di questa dichiarazione, la Cassa Depositi e Prestiti deteneva il
27% di ENI e un altro 4% scarso lo Stato lo controllava direttamente.
Poi bisogna vedere quanto 'autonomamente' erano fatte le scelte
manageriali pubbliche, quanto in un'ottica pubblica e repubblicana e
quanto in un'ottica cieca al "servizio" della nazione, ovvero asserviti a
leggi di mercato.
Dopo questa dichiarazione di Letta, a chi andranno a prezzo scontato
parti dell'ENI? Alla Russia? Ai cinesi? O ci sposteremo a chiedere
moneta fino nel Golfo Persico?
Vendere macchine, aziende, persone in cambio di liquidità è un sistema che non funziona
per rimettere in piedi un paese, d'altra parte è da 4 secoli che
l'Occidente deruba ad esempio l'Africa, pigliando risorse in cambio di
carta straccia.
Avremo (pochi) soldi in cambio di manodopera, di
produzione e trasformazione di materie prime, per comprare a caro prezzo
energia e manufatti finiti ai nostri vicini.
L'Italia diventerà un
paese di zombi, giovani senza più alcun progetto realizzabile ed anziani
che ricevono pensioni sempre più magre giusto per comprare la mela
quotidiana.
Il progetto di Letta, che di Letta non è ma viene
dall'estero, è il progetto di chi stringe ancora un po' il cappio
attorno al collo.
Svendere, smontare, spostare, portar via, è sempre stata e sempre sarà una perdita. Spesso irreversibile.
Ma questo ci impongono i padroni del vapore.
Ma questo ci impongono i padroni del vapore.
Amen
http://petrolitico.blogspot.it
08/09/2013
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giovedì 5 settembre 2013
Il "caso Fiat" riapre la partita sulla rappresentanza
La Fiat ha dato ieri disposizioni interne che rendono possibile la nomina dei delegati della Fiom nei
propri stabilimenti. Non è un gesto di resipiscenza da parte di
Marchionne, ma semplicemente l'effetto concreto della sentenza della
Corte Costituzionale che ha riconosciuta l'incostituzionalità di quella
parte dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori che vincolava il
“riconoscimento” di un sindacato – e quindi la sua agibilità all'interno
dei posti di lavoro – alla firma sotto gli accordi aziendali e ai
contratti.
Una delle tante stronzate
fatte dalla Cgil – e dal Pci e suoi successori – che avevano pensato
bene di immaginare una norma ad goc per far fuori, circa 20 anni fa, i
nascenti sindacati di base. Immaginavano. I furbi, che per loro non ci
sarebbe mai stato problema di riconoscimento reciproco tra sindacato e
azienda. E invece la “svolta” di Sergio Marchionne, con
l'imposizione del “modello Pomigliano a tutto l'universo Fiat presente
in Italia, fa puntato a far fuori anche la Fiom; ovvero i metalmeccanici
della Cgil, riottosi e a volte apertamente conflittuali, ma pur senpre
“pronti a obbedir tacendo” pur di restare dentro la casa madre.
La decisione della Consulta ha
messo la Fiat in una posizione insostenibile, costringendola infine ad
accettare la presenza di delegati Fiom nelle Rsa (uscendo da Confindustria
e disconoscendo il contratto nazionale di categoria, il Lingotto ha
annullato anche il sistema delle Rsu elette direttamente dai
dipendenti). Ma ha subito rilanciato: o si fa una legge sulla
rappresentanza sindacale che dia certezza legale alle aziende, oppure è
pronta a lasciare lItalia. “Un intervento legislativo è ineludibile”,
segnala il Lingotto, sottolineando che “la certezza del diritto in una
materia così delicata come quella della rappresentanza sindacale e
dell’esigibilità dei contratti è una condicio sine qua non per la continuità stessa dell’impegno industriale di Fiat in Italia”.
Non è comunque del tutto convinta
di doverlo davvero fare, interpretando a suo modo la sentenza. “Peraltro
questa fissa, come ovvio, un principio di carattere generale; la
titolarità dei diritti di cui all’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori alle organizzazioni sindacali
che abbiano partecipato alle trattative per la sottoscrizione dei
contratti applicati in azienda; la cui riferibilità alla Fiom nella
concreta situazione Fiat è più che dubbia”.
Un ricatto vero e proprio e una
messa in discussione persino della Corte Costituzionale. Perché è ovvio
che alla Fiat non andrà bene nessuna “legge sulla rappresentanza” che
non accolga la sua pretesa di discriminare i sindacati “non complici”.
Può del resto contare su Cgil-Cisl-Uil che sono ampiamente disponibile a
darle ragione (vedi il documento “unitario” con Confindustria siglato
ieri a Genova) e su un governo che è pronot a superare a destra anche le
richieste delle imprese.
La Fiom ha cantanto giustamente
vittoria, sostenendo che “rientra in fabbrica dalla porta principale”.
Ma ha cercato anche di non farsi spiazzare dal rilancio di Marchionne.
“Che in questo Paese ci sia
bisogno di una legge sulla rappresentanza, la Fiom lo sostiene da tempo.
Infatti, tre anni fa abbiamo raccolto le firme e presentato in
Parlamento una legge di iniziativa popolare su questo tema”, ha detto subito Maurizio Landini.
Il segretario del Fismic (sindacato fondato direttamente dalla Fiat, ai tempi di Valletta, allora chiamato Sida), Roberto Di Maulo, non ha trovato di meglio che attaccare il governo: “ci
troviamo fronte all’inettitudine del governo Letta che, pur investito
formalmente della questione, non fa nulla e al silenzio delle grandi
centrali sindacali nazionali. E questo non può essere scaricato sulle
spalle dei lavoratori di Mirafiori, di Cassino e più in generale di
tutti i lavoratori italiani. Il governo Letta si sta assumendo una
gravissima responsabilità: si balocca con questioni sovrastrutturali, ma
non risolve nessun problema del Paese”.
Che in Italia ci sia un problema
serio di legge sulla rappresentanza sindacale lo dicono da anni anche i
sindacati di base, a cominciare dall'Usb, promotrice a sua volta di una
proposta di legge di iniziativa popolare. Il problema è dunque “quale
legge” potrebbe venir fuori dati gli attuali rapporti di forza
politico-parlamentari, che certo non testimoniano a favore dei
lavoratori; una che attribuisce ai lavoratori il potere di scegliersi
liberamente i propri delegati e sindacati, oltre che di approvare o
bocciare gli accordi (sembra difficile), una che consente alle aziende
di scegliersi o inventarsi i "sindacati" con cui contrattare o un
pastrocchio immondo che dà sostanzialmente tutto il potere alle aziende
ma con molte formule confuse che sembrano anche delle "aperture"?
E problemi ci sono anche in casa Cgil. Lo stesso Landini, tornando sul tema oggi, ha sottolineato che la
Fiom è favorevole a una legge sulla rappresentanza, ma ritiene che non
sia accettabile il mero recepimento dell'accordo interconfederale con la
Confindustria. Sembra un
cauto cambiamento di posizione rispetto a quanto detto a caldo, in
occasione dell'accordo firmato il 31 maggio.E anche un nuovo smarcamento
rispetto alla linea perseguita finora dal segretario generale della
confederazione, la ex craxiana Susana Camusso. Del resto la Cgil
dovrebbe tenere il suo congresso nella prossima primavera (se non si
andrà alle elezioni anticipate), e non è un mistero che Landini possa
contrapporsi come candidato alternativo.
"Che
serve una legge sulla rappresentanza - ha affermato - noi lo diciamo da
tre anni, ma non si può fare solo per fare un favore alla Fiat. Il
fatto che questo accordo funzioni è tutto
da dimostrare: proprio nella nostra categoria Fim e Uilm stanno facendo
di tutto per non farlo applicare sulle elezioni delle Rsu ma anche
sugli accordi. Una legge sulla rappresentanza non può semplicemente
rispondere a un accordo tra privati, ma deve rispondere ai principi
previsti dalla Costituzione sulle libertà sindacali. Inoltre c'è bisogno
che il Governo cancelli l'articolo 8 che ha introdotto in Italia la
possibilità di fare accordi tra privati in deroga alle leggi del nostro
Paese, cosa che non esiste in nessun Paese europeo".
Materia complicata, come si vede, e dal
futuro oscuro. Perché anche Landini ha mostrato spesso di esser pronto a
sacrificare posizioni di principio al “calcolo politico” interno alla
Cgil.
http://www.contropiano.org
03/09/2013
mercoledì 4 settembre 2013
kvelli 'fighi' - II puntata
Crisi, anche i tedeschi sfruttano:
paghe da fame e abusi nel libro di Wallraff
Nel panificio della Lidl a sei euro l'ora, ustionato da padelle roventi. Turni da 14 ore a Starbucks. O 15 ore al volante per il corriere Gls. Il giornalista specializzato in inchieste sotto copertura, ospite al festival di Mantova, racconta il lato oscuro del lavoro nella ricca Germania
Visto come stanno andando le cose in Italia dal punto di vista lavorativo, con picchi di disoccupazione (soprattutto giovanile) da far rabbrividire, la voglia di andarsene a cercar migliori condizioni altrove è sempre più forte e diffusa. Ma andare dove? Certo, in Germania. Il paese dove l’economia è solida, l’euro è più forte e detta le condizioni del mercato, i diritti dei lavoratori rispettati, i salari ottimi e l’assistenza sanitaria garantita. Sarà proprio così? Günter Wallraff, l’inventore del giornalismo d’inchiesta sotto copertura, non è d’accordo. Non in tutta la Germania le condizioni dei lavoratori sono idilliache. E la sua tesi l’ha confortata con i fatti. Quelli che lui stesso, travestito da operaio piuttosto che da fattorino o magazziniere, ha vissuto sulla propria pelle.
articolo completo qui
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martedì 3 settembre 2013
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