domenica 22 aprile 2012

Direttivo Cgil - Documento finale

20/04/2012

Passa il sì sul 18 con ampio dissenso.Con 90 si 35 no e 6 astenuti il Direttivo della Cgil ha approvato la linea della maggioranza della segreteria sull'articolo 18. Il documento approvato esprime un giudizio positivo sul progetto del governo considerandolo un primo risultato. Contro questo giudizio si sono pronunciati tra gli altri Nicolosi, Rinaldini, Redavid e Cremaschi. Pantaleo (Flc) e  Dettori (Fp) sono tra gli astenuti.
DOCUMENTO FINALE
Dopo oltre quattro anni di crisi, l’Italia è un Paese impoverito con tassi di disoccupazione crescenti. Le politiche scelte dall’Europa e tradotte dal nostro Paese determinano un ciclo recessivo che aggrava ulteriormente la situazione e non permette di vedere un’uscita dalla crisi.
Le politiche europee, esclusivamente legate al controllo dei debiti sovrani, sono l’opposto di una scelta di crescita. Decisioni per liberare risorse finalizzate agli investimenti (TTF Eurobond) sono improcrastinabili, in assenza di questo sono l’eurozona e la sua moneta ad essere sempre più in difficoltà.
I patti europei assunti dal Governo determinano una strada molto stretta e difficile per salvaguardare politiche di crescita, ma se non vengono intraprese la situazione del Paese diverrà intollerabile.
Il Governo, che si era presentato all’insegna di rigore, crescita, equità, ha invece realizzato provvedimenti non equi e senza crescita, che hanno determinato un peggioramento delle condizioni di vita e di reddito dei lavoratori e dei pensionati generando un forte e crescente disagio sociale.
La stessa politica fiscale ha determinato un crescente prelievo sul lavoro, sulle pensioni e sulle famiglie senza alcuna equità distributiva, mentre bisognerebbe agire sulle rendite e sulle grandi ricchezze.
Le politiche di nuovo riproposte nel DEF e nel PNR, che indicano nelle riforme strutturali la fonte della futura crescita, non determinano nessuna inversione di tendenza e negano l’obiettivo principale ovvero creare lavoro.
Cambiare questa politica è l’obiettivo fondamentale per la CGIL. Redistribuzione fiscale, contrasto all’evasione e al sommerso, lotta alla corruzione, piano per il Lavoro, nuovo welfare in funzione dello sviluppo e allentamento del Patto di Stabilità sono le proposte necessarie ed urgenti per determinare una prospettiva di uscita dalla crisi.
A tal proposito è positivo che CISL e UIL, nei loro rispettivi organismi, abbiano discusso di una mobilitazione unitaria con questi obiettivi.
La segreteria della CGIL, su mandato del CD, proporrà a CISL e UIL di riunire le segreterie unitarie per concretizzare una piattaforma e le conseguenti iniziative di mobilitazione.
Le scelta del Governo di abbandonare il confronto con le parti sociali sul mercato del lavoro, per ripetere lo schema della riforma pensionistica con l’aggravante della volontà, fallita, di isolare la CGIL, è una scelta sbagliata che si dimostra di giorno in giorno più miope.
Il Governo, dopo essersi presentato come il paladino dei giovani, della riduzione della precarietà e dell’universalità degli ammortizzatori sociali, produce un disegno di legge che tradisce quegli obiettivi.
L’enfasi del Governo sull’art. 18, ovvero sui licenziamenti facili, si è invece tradotta nel primo vero passo indietro del Governo stesso.
L’iniziativa della CGIL, la forte mobilitazione di lavoratori, lavoratrici e pensionati, ha costruito le condizioni per una mediazione politica che ha reintrodotto il reintegro per i licenziamenti economici individuali e collettivi, ricostruendo l’effettuo di deterrenza e ripristinando un principio di civiltà giuridica.
Il mantenimento dell’onere della prova in capo alle aziende e la definizione della procedura di conciliazione che può determinare un effettivo ruolo della rappresentanza sindacale, insieme al reintegro, rappresentano un primo importante risultato, come già indicato nel documento della Segreteria.
E’ essenziale oggi, che lo squilibrio sulla precarietà e sugli ammortizzatori non si traduca nella riproposizione della presunta contrapposizione di una CGIL impegnata a difendere una parte e disattenta ai giovani e precari.
Abbiamo detto che avremmo giudicato l’equilibrio del ddl se si fosse invertita la pratica della moltiplicazione delle forme di ingresso e si fossero indirizzati gli ammortizzatori alla universalità, se si fosse aperto un vero confronto per l’attuazione del contrasto alla precarietà nei settori pubblici, per i quali si propone invece una inaccettabile e generica mobilità, presupponendo esuberi mai dimostrati. Questa ipotesi è tanto più inaccettabile mentre è ancora del tutto oscuro come il Ministro per la Pubblica Amministrazione intenda esercitare la delega contenuta nell’art.2 del DDL sul Mercato del Lavoro. La scelta del Governo va respinta con ogni azione di contrasto fino allo sciopero generale del lavoro pubblico che sarà, ovviamente, proclamato dalle categorie. La CGIL conferma la propria volontà di aprire invece un negoziato sul lavoro pubblico come mezzo per riqualificare ed estendere il welfare nel nostro Paese.
Insieme abbiamo sottolineato l’esigenza di mantenere l’istituto della mobilità con una particolare attenzione al Mezzogiorno.
In ragione di queste valutazioni, confermando il nostro giudizio sulla complessiva inadeguatezza del ddl presentato dal Governo, abbiamo proposto alla commissione lavoro del Senato emendamenti su tutti i capitoli del ddl stesso, per segnare un cambiamento sulla precarietà, rafforzare gli ammortizzatori, rendere più lineare l’interpretazione dell’art. 18 e determinare un effettivo contrasto alle dimissioni in bianco.
La CGIL con le mobilitazioni in corso, quelle programmate e con la scelta di una giornata nazionale di iniziativa dei e con i giovani sulla precarietà il 10 maggio, continuerà a caratterizzare la sua iniziativa per la discussione in Parlamento. Il CD, dando il mandato alla Segreteria di definire la data dello sciopero generale in rapporto all’andamento dell’iter parlamentare del ddl, impegna tutte le strutture ad articolare la loro iniziativa anche sui temi del Piano per il Lavoro, del fisco, della crescita e del welfare.
Questo percorso è reso ancor più necessario dalla offensiva del sistema delle imprese che, mancato l’obiettivo della libertà di licenziamento, propone uno stravolgimento negativo ed ulteriormente peggiorativo di tutto il ddl confermando la scelta di una via basata sul lavoro debole e povero e non sulla qualità, sulla formazione e sull’innovazione.
La stessa necessità del susseguirsi dei vertici politici e il nervosismo del Governo dimostrano quanto sbagliata sia la strada dell’esclusione del confronto con le parti sociali e della negazione degli accordi.
La CGIL è impegnata ad attuare l’intesa sulla rappresentanza del 28 giugno 2011, iniziativa che va collegata alla riapertura di una campagna per la democrazia e la modifica dell’art. 19, ed aprendo su questo un confronto con CISL e UIL.
Infine, la mobilitazione unitaria del 13 aprile sulle pensioni ha visto una grande partecipazione e reso evidente a tutto il Paese i guai prodotti da una riforma sbagliata, priva anche delle tradizionali clausole di garanzia.
Con il mondo variegato dei lavoratori in mobilità, in esodo volontario, in ricongiunzione e con i licenziati abbiamo preso l’impegno di attivare un confronto con il Governo, che nuovamente sollecitiamo , e della prosecuzione della mobilitazione.
Servono risposte non solo per dare soluzione alle tante domande individuali ed alle tante preoccupazioni, ma anche per riaprire il tema della riforma delle pensioni che produce tante ingiustizie ai lavoratori ed ai pensionati.
Le risorse per affrontare il problema si devono trovare, a partire dal pagare in titoli di Stato retribuzioni e pensioni d’oro che ad oggi contribuiscono alla solidarietà proporzionalmente meno dei pensionati a cui è stata bloccata la rivalutazione. 

Il guaio è la subalternità al Partito democratico

di Giorgio Cremaschi - 20/04/2012
Nel direttivo della Cgil non si sono solo scontrati due opposti giudizi sulla controriforma del lavoro ma si sono anche confrontati due diversi modi di concepire il rapporto con il governo e la politica nella crisi attuale.
Sul piano del merito la differenza è evidentissima. Da un lato, la maggioranza con i suoi 90 voti, ha affermato che sull’articolo 18 si è ottenuto un primo risultato e che sostanzialmente si è difesa la tutela contenuta in quell’articolo dello Statuto dei lavoratori.

Chi ha votato contro (35 con 6 astenuti, della Fiom, della conoscenza e della Funzione pubblica, della minoranza congressuale, di Lavoro società), ha invece sostenuto l’esatto contrario. Cioè che la controriforma del lavoro avviene prima di tutto sull’articolo 18, con il passaggio dalla reintegra all’indennizzo anche nel caso di licenziamento riconosciuto ingiusto da parte del giudice. Ci si scontra quindi non solo sul bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, com’è nella tradizione sindacale, ma proprio sul senso del risultato. Per chi ha votato contro il risultato è completamente negativo, per chi ha votato a favore invece è un passo avanti. E’ difficile trovare nella storia recente della Cgil una contrapposizione così netta e così inconciliabile. Se nel 1984 la maggioranza della Cgil invece che respingere il decreto Craxi che tagliava la scala mobile lo avesse approvato, forse avremmo un precedente. Oggi purtroppo si ha la sensazione che le posizioni e le maggioranze siano esattamente ribaltate rispetto a quel momento.
E questo perché la maggioranza della Cgil oggi è strettamente connessa alle scelte, alle sofferenze, alle difficoltà e alle contraddizioni del Partito democratico. Il documento finale finisce con una sorta di ringraziamento a quelle forze politiche che hanno permesso i primi risultati. In realtà dovrebbe essere il Pd a ringraziare la Cgil, perché l’accettazione da parte di questa organizzazione dell’accordo sul lavoro tra Monti, Alfano, Bersani e Casini, suona soprattutto come copertura nei confronti di questo partito. Di un partito che deve sostenere una delle politiche più antipopolari e antisociali della storia della Repubblica. Se fosse stato al governo Berlusconi la Cgil non si sarebbe minimamente sognata di  accettare una manomissione dell’art. 18. Lo fa oggi unicamente perché il suo gruppo dirigente pensa che non si possa andare allo scontro frontale con questo governo. E qui c’è il nodo di tutto.
Nel dibattito del direttivo le critiche, l’insofferenza, l’ostilità verso il governo sono stati enormi, eppure sono sembrati più segno di frustrazione e impotenza che di reale volontà politica. Nella Cgil la maggioranza si lamenta di quanto sia di destra questo governo, ma poi non riesce a sottrarsi al vincolo del quadro di unità nazionale che lo sostiene. In questo modo anche la polemica con l’antipolitica diventa profondamente ambigua. E’ il governo di unità nazionale che taglia le pensioni e tutti i diritti, sostenuto anche dal Pd, che costruisce l’antipolitica. L’antipolitica è prima di tutto l’ABC.
Così si depotenziano anche le lotte e gli scioperi. Dopo la sconfitta drammatica sulle pensioni e mentre sull’art. 18 sono minacciati diritti fondamentali dei lavoratori, la Cgil lancia un appello a Cisl e Uil per una lotta comune sul fisco e sul lavoro. Si cambiano continuamente le carte in tavola, sperando di non perdere la mano, ma così si va solo sempre più a fondo. Oggi i lavoratori stanno mostrando una generosità incredibile nell’effettuare scioperi e lotte in tutta Italia. Ma se chi deve rappresentare queste lotte manda segnali confusi e contraddittori a coloro contro i quali esse sono indirizzate, le depotenzia nello stesso momento in cui le proclama.
Gli scioperi devono avere un obiettivo chiaro: il no alle controriforme e al governo che le sostiene, altro che equilibrismi.
La situazione è troppo grave perché si possa andare avanti così. Quasi il 30% della Cgil nel direttivo ha detto di no alla segreteria. Occorre trasformare questa scelta in azione. Occorre che il popolo della Cgil sappia che una parte dell’organizzazione non è d’accordo con questa linea di tira e molla e perdi. Per quanto ci riguarda faremo tutto il possibile perché si organizzi un opposizione di massa in Cgil e perché cresca nel paese quel movimento unitario di lotta contro il governo che, unendo forze e movimenti e sindacati diversi, ha avuto un suo primo importante successo il 31 marzo a Milano. Non ci sono voti di direttivo che tengano, quando sono in gioco i diritti fondamentali dei lavoratori si va avanti nel difenderli.


mercoledì 18 aprile 2012

TUTTE LE FALSITA' CHE RACCONTANO SULLA CRISI ECONOMICA. INTERVISTA A MARIO PIANTA

Mario Pianta, economista, ha da poco scritto un libro che affronta i nodi della crisi economica a partire da uno dei nodi più delicati, quello della distribuzione del reddito. Se letta da questo punto di vista le vie di uscita dalla crisi rimangono ben poche in quanto tramonta l'interesse generale e si innesca una spirale verso il basso per le classi medio basse e verso l'alto per i più ricchi. Alla faccia del richiamo alla responsabilità generale. 

Cosa cambia con l’approvazione del vincolo di bilancio nella Costituzione italiana? 
L’inserimento del pareggio di bilancio è un grave errore dal punto di vista istituzionale perché è in contraddizione con lo spazio che la Costituzione italiana riconosce alla politica economica e al ruolo dello Stato dal punto di vista economico. E’ un disastro a livello europeo  perché l’imposizione del vincolo, che poi è l’estensione di una norma tedesca nel rapporto tra Stato centrale e Laender, viene imposto a tutti i paesi europei in un periodo di piena recessione con un effetto molto pesante di aggravamento della recessione stessa. Durante la recessione arrivano meno soldi dal pagamento delle tasse, in Italia già si prevede che saranno quindici miliardi in meno, e ciò non fa che aggravare ancora di più la situazione del rapporto tra debito e pil. Ecco perché c’è stato un aumento enorme del deficit.

Un quadro del tutto irreale quindi… 
Imporre il raggiungimento entro il 2013 è tecnicamente impossibile. La Spagna ha già detto che non ce la può fare. L’Italia ce la farà, dichiarano i vertici, forse nel 2018. In Francia più o meno lo stesse date. C’è una schizofrenia preoccupante tra una imposizione di regole fatte apposta per tutelare la cosiddetta fiducia nei mercati in cui si finisce per pagare più che altro gli interessi e i richiami alla crescita. Una misura assolutamente inefficace dal punto di vista della solidità dei conti pubblici e completamente irrealistica. Questo stesso approccio viene replicato in grande nell’insieme complessivo delle norme del fiscal compact di cui il pareggio di bilancio è uno dei punti. Il fiscal compact è stato firmato da tutti e questo ripropone su scala più grande l’effetto distruttivo. Il fiscal compact impone i vincoli sul pareggio di bilancio e in più impone a chi va oltre il 60% un ventesimo l’anno di rientro da prelevare dalle tasse. Per l’Italia vale 50 miliardi l’anno, che vuol dire, con gli interessi, 80 miliardi di spesa in più se le regole rimangono queste. C’è sostanzialmente una colossale stupidità economica perché tagliare la spesa pubblica porta a una recessione certa. Tra l’altro, Hollande è contrario, e quindi se dovesse vincere salterebbe tutto.

Il Governo si appresta a varare una stagione di cosiddetta crescita. Non ci crede nessuno e in realtà la loro operazione nasconde un’altra puntata del massacro sociale. 
La crescita per loro è tagliare i salari per diventare competitivi in termini di prezzo, e fidarsi della domanda mondiale in una situazione in cui non c’è domanda. C’è da dire, ma per loro sembra paradossalmente un elemento di cui quasi non tener conto, che le esportazioni crescono solo per i paesi forti, come la Germania. Infine, chi parla di crescita in quei termini, in realtà ha in mente che i mercati lasciati a se stessi quelli più sregolati si risveglino e si rimettano in moto. Falso.

Nel tuo ultimo libro affronti questo nodo della distribuzione del reddito, che ovviamente ha a che fare con la ripresa economica. Il quadro italiano è caratterizzato da una polarizzazione che non solo non aiuterà la ripresa ma farà in modo che i poveri saranno sempre più poveri. 
La polarizzazione è il risultato della distribuzione del reddito. I più poveri di fronte alla crisi hanno meno cuscinetti e si trovano in difficoltà crescenti. La politica del lavoro programmata dal Governo ridurrà ulteriormente i salari determinando in peggio tutti i meccanismi sociali che descrivo nel libro. Si rafforza la finanza e il reddito che deriva dalla ricchezza, come il capitolo degli interessi sul debito: una parte ce l’hanno le banche e un’altra la grande impresa. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% del reddito. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale. All’estremo vertice della piramide, i dieci individui più ricchi posseggono una quantità di ricchezza pari a quella dei tre milioni di italiani più poveri In media, la ricchezza di  uno di questi italiani che guidano la classifica dei “super-stra-ricchi”, vale quella di trecentomila italiani poveri. Un dato da paese feudale.

F.Salvatori - 18/04/2012
ControLaCrisi.org

Regressione costituzionale

Con l'approvazione del Senato in seconda deliberazione si è concluso ieri il procedimento di revisione dell'art. 81 della Costituzione. Male. Un giudizio non tanto distante da quello che si arguiva dalle parole di chi dichiarava, dai banchi della sinistra, un voto più disciplinato che convinto.

Con l'approvazione di tale legge costituzionale, la politica economica è sottratta al Parlamento italiano, al Governo italiano, al corpo elettorale italiano. Con tale approvazione la nostra Costituzione non è più nostra. È stata trasformata in strumento giuridico funzionale ad un feticcio, quello neoliberista, che la tecnocrazia finanziaria europea interpreterà volta a volta dettando le misure che dispiegheranno la mistica del feticcio. 
Con tale approvazione un altro demerito si accompagnerà a quelli sciaguratamente ottenuti dal nostro paese in tema di regimi politici. Il demerito di aver inventato un nuovo tipo di Costituzione. A quelle scritte, consuetudinarie, flessibili, rigide, programmatiche, pluraliste, liberali, democratiche, lavoriste, si aggiungerà la Costituzione abdicataria, una costituzione-decostituzione. Un ossimoro istituzionale che preconizza una recessione seriale che, partendo dalla neutralizzazione della politica, porterà alla compressione dei diritti e poi alla dissoluzione del diritto, sostituito dalla mera forza del dominio economico. 
Emerge, improrogabile, la necessità di un intervento. Votando questa autentica regressione costituzionale, i gruppi parlamentari della strana maggioranza delle due camere hanno tenuto in irresponsabile dispregio i giudizi di economisti di molti paesi del mondo, tra i quali 5 premi Nobel, di giuristi di varie discipline. Su un tema così intrinseco alla sovranità popolare, e su cui, e non per caso, è stato stesa una coltre fittissima di silenzio, hanno escluso che potesse pronunziarsi il corpo elettorale. I fondati dubbi sulla legittimità costituzionale della legge elettorale da cui deriva la loro presenza in parlamento non ne hanno frenato la cupidigia di sottomettersi al diktat della Cancelliera tedesca. Hanno respinto anche la richiesta di approvarla pure questa legge, ma non con la maggioranza dei due terzi, quella che impedisce l'indizione di un referendum su tale gravissima spoliazione della sovranità nazionale. Ci resta ora un solo strumento per chiedere a questo o al prossimo parlamento di invertire la rotta. 
Un solo modo per impegnarsi nella difesa di una conquista di civiltà arrisa con il riconoscimento, nel secolo scorso, dei diritti sociali. Sono quelli messi per primi in grave  ed imminente pericolo dal feticcio liberista. Lo strumento che ci resta è quello di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, ai sensi dell'articolo 71 della Costituzione, con cui   integrare l'art. 81 in modo che le entrate dello stato, delle regioni e dei comuni siano riservate per il cinquanta per cento ad assicurare direttamente o indirettamente il godimento dei diritti sociali. 
Imponendo quindi che nei bilanci di previsione dello stato, delle regioni, dei comuni, il cinquanta per cento della spesa risulti complessivamente destinato a garantire direttamente o anche indirettamente i diritti: alla salute, all'istruzione, alla formazione e all'elevazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori, alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, all'assistenza sociale, alla previdenza, all'esistenza dignitosa ai lavoratori e delle loro famiglie. Si tratta dei diritti riconosciuti dagli articoli da 32 a 38 della Costituzione. Si tratta di creare una garanzia efficace per i diritti, volta sia a neutralizzare gli effetti delle disposizioni inserite nell'articolo 81 della Costituzione e pericolosissime per i diritti sociali, sia a precludere, o almeno a ridurre, la spesa pubblica per armamenti, per grandi e disastrose opere, per variegate clientele. Ad ipotizzarla non è la stravaganza di un vecchio costituzionalista, testardamente convinto della necessità storica della democrazia di pervadere la base economica della società. È contenuta nella Costituzione della Repubblica del Brasile, all'articolo 159 ed è specificata in quelli lo seguono, la riserva di bilancio a favore dei diritti sociali. 
Raccogliere cinquanta mila firme e più, tante, tante altre ancora, per sostenere una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare con i contenuti indicati è possibile. È doveroso. A tema centrale della prossima campagna elettorale per il rinnovo del parlamento va posta la garanzia finanziaria dei diritti sociali. Di fronte al pericolo del crollo di un pilastro della civiltà giuridica e politica, dobbiamo usare tutti gli strumenti della democrazia costituzionale che ci sono rimasti. Non possiamo altrimenti.

G.Ferrara,costituzionalista
18/04/2012 - il Manifesto

Vladimiro Giacchè: "Da oggi Keynes è fuorilegge. Impossibile investire"

L'economista non ha dubbi: "Con il pareggio di bilancio si subordinano diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione all'articolo 81"

Sera di martedì 17 aprile. Il Senato ha appena inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Per capire gli effetti di questa riforma, abbiamo intervistato Vladimiro Giacchè, economista 


Professor Giacchè, inziamo col provare a capire la base di questa riforma. Qual è la ratio del pareggio di bilancio in costituzione?
Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l'illegalità del keynesismo. Secondo Jhon Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la 'domanda aggregata' insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a far ripartire l'economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il deficit di bilancio dello Stato - se non per casi eccezionali e comunque per periodi di tempo limitati - tutto ciò sarà impossibile. Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l'ideologia economica per la quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa finanziare parte della domanda indebitandosi. Questa cosa può sembrare apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è assolutamente folle. Così facendo si stanno replicando gli errori drammatici degli anni '30: quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe fondamentale un deciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in modo che la 'domanda aggregata', cioè l'insieme dell'economia, aumenti, per ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo non sarà più possibile. 

Cosa significa questo per un paese come l'Italia?
Semplicemente che sarà impossibile mettere soldi nei settori che invece richiedono un forte investimento. Ad esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture 'utili'. 'Utili' come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo Stretto. Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi posti, insieme ai paesi più arretrati d'Europa (in primis Portogallo e Grecia), per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il 'deficit spending'. Questo significa che sarà impossibile investire ma soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione: il diritto alla scolarità che non deve essere 'per ceto', l'assistenza sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona. Ora, interpretando la Costituzione facendo perno sull'articolo 81 come modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno saranno subordinati all'articolo 81. 

Lei quindi vede nel pareggio di bilancio un attacco ai diritti di base che dovrebbero essere costituzionalmente garantiti?
La questione è molto semplice. Il senso di questa riforma costituzionale è che se uno 'vuole' dei diritti, se li deve pagare. Non sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di investimenti che il privato non si sobbarcherà mai. 

Nell'inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio, si lega la crescita al Prodotto interno lordo. Cosa significa questo?
Partiamo dal precedente governo. Per diverso tempo Tremonti all'epoca del suo dicastero all'Economia ha ingannato i mercati facendo leva su false previsioni di crescita, parlando di una crescita maggiore di quella che si sarebbe poi verificata. Ma il meccanismo di queste 'bugie' era chiaro: si aveva bisogno della crescita per far si che il deficit diminuisse. Comunque la si voglia vedere, i dati di fatto da cui partire per analizzare le conseguenze di questa riforma sono due. Il primo: con la crisi, sono diminuite le entrate fiscali e sono aumentate le spese per gli ammortizzatori sociali. Il secondo: si continua a incentrare qualsiasi analisi sul rapporto tra debito e Pil. Dove il debito è il numeratore e il Pil il denominatore. Ma io posso far calare il numeratore all'infinito (in questo caso, tagliando all'inverosimile la spesa pubblica), ma se è il numeratore a diminuire più velocemente (e il Pil è la ricchezza prodotta), ecco che il rapporto sarà sempre destinato a peggiorare. Sembra una cosa evidente, ma per qualcuno al governo evidentemente non lo è. Basterebbe ragionare partendo da questo aspetto per capire che una vera manovra per uscire dalla crisi dovrebbe essere calibrata per fare in modo che si impedisca al Pil di scendere. Cosa che, invece, puntualmente accade con ogni manovra di austerity. Dopo i 55 miliardi di tagli di Berlusconi, siamo ai 30 miliardi di tagli di Monti. Ma questi 85 miliardi di tagli hanno impattato fortemente sulla crescita. Si è lavorato sullo 'stabilizzatore keynesiano' ma al contrario. E' crollata la domanda privata, e di riflesso è crollata la domanda pubblica. Così, di colpo, abbiamo settori di imprese rivolte al mercato interno in grave difficoltà, mentre quelle imprese che lavorano sul mercato estero sono in ripresa. Ma così si è soltanto indebolita l'economia italiana.

Vede 'la Grecia' come un rischio per il nostro paese?
Qui la sfida è una crescita reale, possibile solo abbandonando le ricette adoperate negli ultimi tempi. Se si riduce drammaticamente la spesa pubblica in tempo di crisi, il futuro è la Grecia. C'è poco da girarci attorno. Con i tagli su tagli, l'economia greca di obbedienza all'Unione europea è crollata del 6,5% per tre anni consecutivi. E' praticamente implosa. E il Pil crollato. Il risultato, per fare esempi chiari da vita quotidiana, è che oggi in Grecia si comprano il 20% in meno di medicine. E parliamo di un bene essenziale. Con la Grecia si è andati dietro l'ideologia folle che nasce dall'incomprensione di quanto è successo. Il debito pubblico non è la causa della crisi, ma la sua conseguenza. Il debito pubblico nasce dal tentativo di tamponare la crisi, ad esempio salvando le banche. Un esempio: la Germania ha 'coperto' le banche con qualcosa come 200miliardi di euro negli ultimi dieci anni. Risultato: il debito pubblico tedesco è cresciuto di 750miliardi di euro in dieci anni. La cosa bizzarra, però, è che i tedeschi hanno adottato misure di compensazione del deficit spending per far fronte a questa situazione e nel 2009 hanno speso il 3% del Pil per salvare le loro imprese. Ebbene, quella stessa Germania oggi impone il divieto di deficit spending ai paesi più deboli dell'Unione europea.

Quale sarebbe, secondo lei, una possibile via d'uscita dalla crisi?
Ce n'è una sola: guardare meno al giorno per giorno e progettare per il lungo periodo. Purtroppo il nostro governo tecnico nasce per l'emergenza e non riesce a progettare nel lungo periodo, anche perchè per farlo servirebbe una larga investitura popolare. Ma se continuiamo a vivere nell'emergenza, e questo governo continua a fare politiche 'da stato di emergenza', è inevitabile infilarci in un tunnel senza uscita. Non è un caso che per alcuni istituti il Pil quest'anno diminuirà del 2,6%, con una diminuzione prevista per il prossimo anno del 2,9%. Stando così le cose, sarà inevitabile dover ricorrere a nuove manovre di austerity. Ed ecco qui la spirale, innestata proprio dal vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Facendo due rapidi calcoli a partire dall'obbligo sancito dal 'Fiscal compact' di dover ridurre il debito pubblico del 5% annuo per quanto eccede il Pil del 60% - ergo, un ventesimo del Pil - ecco che per un certo numero di anni il nostro paese sarebbe chiamato a manovre annuali di 45miliardi di euro. Senza considerare quanto paghiamo di interessi sul debito: nel 2012 qualcosa come 72 miliardi di euro. Di fatto, l'Italia per i prossimi anni sarebbe costretta a manovre, per ridurre il suo debito pubblico, di circa 120miliardi di euro l'anno. Una follia. O meglio, la perfetta ricetta per il disastro economico. Un disastro motivato dall'assurda idea di fondo che si debba cancellare il debito pubblico. Ma la realtà è un altra: nessuno ti chiede di azzerare il debito. Quello che interessa i mercati, infatti, non è che il debito venga cancellato ma che si stabilizzi. L'obiettivo dovrebbe essere non far crescere tendenzialmente il debito. 

D. Nalbone - 17/04/2012
www.today.it

martedì 17 aprile 2012

Lo scopo inconfessato della riforma del mercato del lavoro

La letteratura economica fornisce una semplice spiegazione di quanto sta accadendo oggi in Italia. L’economia ci dice che lo scopo (inconfessato) della riforma del mercato del lavoro deve essere quello di causare un incremento della disoccupazione. Un (ulteriore) incremento del tasso di disoccupazione si rende necessario per un motivo molto semplice: la curva di Phillips. La curva di Phillips stabilisce che la crescita dei salari è in relazione inversa rispetto al tasso di disoccupazione, una relazione individuata da A.W. Phillips nel 1958.
Questa relazione non è mai stata posta seriamente in discussione nella letteratura empirica, come ci ricorda Jeffrey Fuhrer. Non sorprende quindi che gli economisti ne facciano tuttora uso per prevedere l’inflazione (Fendel, Lis e Rulke), ed è assolutamente evidente che il governo italiano sta facendo altrettanto.
In tutta evidenza, i fautori della riforma si aspettano che un innalzamento del tasso di disoccupazione moderi la crescita dei salari e quindi il tasso di inflazione. Ciò contribuirebbe a ristabilire la competitività di prezzo dei prodotti italiani e quindi a riequilibrare gli sbilanci esterni che sono alla radice della crisi dell’eurozona, come spiega ad esempio Martin Wolf. Tra l’altro, questo è uno dei motivi per i quali i mercati finanziari, che credono in questo meccanismo (come ci ricordano Fendel et al. in un altro lavoro), potrebbero accogliere con favore un innalzamento della disoccupazione in Italia.
L’unico piccolo problema con questo approccio è di natura politica, non economica. Il ragionamento del governo è impeccabile da un punto di vista economico. Il suo unico (trascurabile?) difetto è che nessun membro del governo sta dicendo la verità, ovvero che lo scopo immediato e inconfessabile di una riforma altrimenti insensata è quello di far aumentare la disoccupazione.

Alberto Bagnai,professore associato di politica economica
Dipartimento di Economia - Università G. d'Annunzio, Chieti-Pescara
12/04/2012
http://goofynomics.blogspot.it/

lunedì 16 aprile 2012

Ministro Fornero, gli esodati li ha creati lei


Sarebbe l’ora che il Ministro Fornero la smettesse di giocare con le parole e di prendersi così gioco del buon senso e delle capacità di ragionamento dei cittadini.

Dopo le uscite assai sgradevoli circa la distribuzione delle caramelle e la propensione italica a sedersi al sole con un piatto di maccheroni al pomodoro invece di lavorare, il Ministro se ne è uscito con la dichiarazione che “(Gli esodati) li creano le imprese che mandano fuori i dipendenti a carico del sistema pensionistico pubblico e della collettività; non le riforme e neppure il Governo”.

Eh no, caro Ministro, come spesso accade quando lei apre bocca, non ci siamo; il giochino maldestro consiste in questo caso nel confondere il “licenziato” con quello che l’orrido neologismo “esodato” significa nel sentire comune. Infatti se è vero che sono le aziende a licenziare in caso di necessità, come hanno sempre fatto da quando fu varata la legge 223 in tema di mobilità, nella stragrande maggioranza dei casi i “licenziati” entravano in un programma di ammortizzatori sociali che li accompagnava alla pensione. Nessuno ha mai parlato per anni di esodati, né sussistevano le condizioni per le quali fosse necessario coniare una parola per definire sinteticamente coloro che estromessi dal lavoro ma vicini ai requisiti pensionistici, al raggiungimento degli stessi fossero stati collocati anziché in pensione in un limbo che però assomiglia di più a un girone infernale; perché, egregio Ministro, il termine “esodati“ questo descrive.

Ma, essendo questa la situazione, bisogna ricordarsi che questo limbo esiste da quando il Ministro (questo Ministro) ha pensato bene di prendere ad accettate il sistema previdenziale in una notte innalzando muri dal niente, trasformando i licenziati appunto in esodati e fregandosene altamente di coloro che si sono addormentati la sera come pensionandi e si sono svegliati al mattino come relitti.

Quindi, Ministro, gli “esodati” li ha creati lei e girare la responsabilità sulle aziende è un giochino un po’ sporco ma che ha le gambe cortissime.

Peraltro un lettore che per la prima volta leggesse le sue dichiarazioni (bei tempi quelli in cui di lei la stragrande maggior parte dei cittadini ignorava persino l’esistenza) sarebbe portato a interpretare questa sua ultima chicca come il lamento di un Ministro che protesta contro la bieca manovra delle industrie che scaricano sulla collettività i propri lavoratori licenziandoli. “Perbacco”, direbbe il lettore alle prime armi, “il Ministro ha a cuore i licenziati ma vorrebbe evitare di dover spendere i soldi della collettività per proteggerli”. Peccato che invece lei, come Ministro del lavoro, stia anche proponendo una legge che facilita i licenziamenti per motivi economici e cioè proprio quelli che portavano alle procedure di mobilità.  Siamo di fronte a uno sdoppiamento della personalità? Da un lato agevola le aziende nel licenziare e dall’altro le bastona perché lo fanno?

Insomma, la misura è abbastanza colma e anche imputando l’ultima uscita a una malcelata e rancorosa irritazione del Ministro nei confronti delle aziende a causa delle critiche fatte alla sua riforma del lavoro, non si può passare sotto silenzio questo ultimo escamotage verbale teso a deflettere le critiche e a sfuggire la responsabilità.

Mi pare che il paese cominci ad averne abbastanza di un Ministro che risponde a sollecitazioni sulle problematiche della disoccupazione con battute di spirito di dubbio gusto, che reagisce stizzita a qualsiasi critica venga fatta ai suoi disegni di legge e che crede che i cittadini si bevano tranquillamente teorie bislacche quali questa ultima circa le responsabilità della creazione degli “esodati”.

Il ministro sappia che non viviamo più ai tempi del feudalesimo e che se il Re è nudo, si dirà che è nudo e se racconta cose che non hanno fondamento e sono in contrasto con i fatti sotto gli occhi di tutti le verrà puntualmente contestato; fino a quando anche quei residui di ciò che una volta erano i partiti, con princìpi da sostenere si convinceranno a chiederne, anzi pretenderne, le dimissioni.

Auspicabilmente per sostituirla poi con qualcuno che si renda conto della sensibilità sociale delle materie che tratta, che nelle risposte si attenga al tema delle domande, che non consideri i suoi cittadini come fannulloni in cerca di pasti gratis, che dialoghi con le parti sociali da un piano di parità intellettuale e non pensando che “concordare” significa che gli altri si appiattiscono sulle sue idee e che si assuma la responsabilità, tutta la responsabilità, di quanto di buono o di cattivo nasce dalle sue azioni.

M. Carugi - 15/04/2012

il Fatto Quotidiano

*

Esodati, i primi numeri veri

Sono 330mila gli esodati fino al 2015.
I 65mila annunciati da Fornero sono solo quelli a scadenza 2012.
Nel 2013 ce ne saranno altri 100mila, 90 mila nel 2014 e 70mila nel 2015...
 Dati non ufficiali INPS

Rete28Aprile - 16/04/2012
(FIOM)

domenica 15 aprile 2012

Art. 18: ecco quel che sarà.

Proviamo ad immaginare un dialogo tra un lavoratore licenziato, a suo dire, ingiustamente e l'avvocato al quale si rivolge per ottenere giustizia. Ovviamente dobbiamo immaginare che questo dialogo si svolga dopo l'entrata in vigore di questa legge di riforma dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori che ho già definito “idiota” ma sto ancora cercando il termine più corretto che, tuttavia, al momento non mi sovviene.

Ebbene, sipario:

Avvocato: “Buongiorno, mi dica”

Lavoratore: “Avvocato, guardi questa lettera. Mi è arrivata stamani. Mi hanno licenziato. Dice: “per motivi economici”.

Avvocato: “Mi faccia vedere. Dunque, l'azienda è la Furbex S.r.l., un'azienda di trasporti; che lei sappia ha più o meno di quindici dipendenti?”

Lavoratore: “Ne avrà una trentina”.

Avvocato: “Ho capito. Dunque, qui dice che l'azienda negli ultimi periodi ha subito una flessione e che le previsioni per il prossimo anno non sono rosee per cui ha deciso di licenziarla.”

Lavoratore: “A parte che non è vero e che lavoriamo più di prima, qui la questione è un'altra. A me mi hanno licenziato perché ho fatto una denuncia all'USL e all'ispettorato per via delle troppe ore di straordinario che facciamo che, visto che il nostro lavoro consiste nel guidare un TIR, mettono a repentaglio la nostra sicurezza e quella degli altri”.

Avvocato: “Lei ha una copia della denuncia che ha fatto?”

Lavoratore: “Certo che ce l'ho e comunque lo sanno tutti i colleghi”

Avvocato: “Che cosa è successo a seguito di questa denuncia?”

Lavoratore: “E' successo un macello. Il capo è venuto subito da me e mi ha minacciato di mandarmi via, mi ha detto che sono un disgraziato e che così rovinavo lui e tutti noi, che non capivo niente”

Avvocato: “Questo dialogo è avvenuto alla presenza di testimoni?”

Lavoratore: “No, eravamo soli”.

Avvocato: “Vada avanti”

Lavoratore: “Niente, si è incazzato con me quella volta lì e poi basta, tutto è continuato più o meno come prima per un paio di mesi, poi è arrivata questa lettera ed eccomi qui. Avvocato, ma si può far qualcosa o no?”.

Avvocato: “Che vuole che le dica... lei da me vuole una risposta secca ed è giusto che la pretenda ma io in tutta onestà una risposta secca alla sua domanda non gliela posso dare e non per cattiva volontà ma perché una risposta alla sua domanda non c'è più”.

Lavoratore: “che vuol dire, mi scusi?”

Avvocato: “vuol dire che prima della riforma dell'art. 18 le avrei detto cose completamente diverse da quelle che lo ho appena detto. Anzi, prima della riforma dell'art. 18 io e lei non ci saremmo neanche incontrati perché il suo capo, che è ben informato e a quanto pare sa muoversi, non l'avrebbe licenziata”.

Lavoratore: “Avvocato io non ci capisco niente di articoli e sono qui apposta da lei per avere un aiuto. Io so solo che quel bastardo mi ha mandato via perché io ho detto all'USL che io e i miei compagni dormivamo sui camion, guidavamo 13 ore al giorno e nell'ultimo anno gli incidenti stradali erano raddoppiati e gli ho detto anche che ci faceva taroccare i dischi cronotachigrafi per non farci beccare dalla stradale”

Avvocato: “Questo a me è evidente ma ora mi ascolti con attenzione perché le devo spiegare cosa sarebbe accaduto se questo licenziamento fosse avvenuto prima della riforma dell'art. 18 e quello che, invece, accade a seguito di quella stessa riforma. Prima in Italia si poteva licenziare solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Se questi motivi non erano veri e si era in grado di dimostrarlo, si poteva andare davanti ad un Giudice a chiedere la reintegra nel posto di lavoro. Il Giudice, se accertava che quel licenziamento era infondato e cioè era stato posto in essere senza una giusta causa o un giustificato motivo, doveva reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro, condannare il datore a corrispondere tutte le mensilità non percepite dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegra oltre ad un eventuale ulteriore risarcimento del danno. Quindi nel suo caso, tanto per capirci, se lei mi avesse fatto quella domanda che mi ha fatto prima e cioè “si può fare qualcosa?” io le avrei risposto “si”.”

Lavoratore: “E invece ora?”


Avvocato: “E invece ora le devo rispondere “non lo so” e non perché non abbia studiato a fondo la riforma ma proprio perché l'ho studiata a fondo. Le spiego: dopo la riforma la reintegra obbligatoria è prevista solo per i licenziamento discriminatori. Per quelli disciplinari e per quelli per motivi economici il giudice, se accerta che il licenziamento è illegittimo non è automaticamente obbligato a reintegrare il lavoratore ma può scegliere tra la reintegra e un risarcimento del danno da 12 a 24 mensilità. Le leggo la norma “Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza dei fatti contestati ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni della legge, dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”. Quindi se il giudice decide che i fatti contestati sono insussistenti c'è la reintegra. La norma dopo la riforma però poi dice anche: “Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.”. Quindi se il giudice decide che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa il giudice non reintegra ma stabilisce un risarcimento del danno.”

Lavoratore: “E quindi?”

Avvocato: “E quindi che differenza c'è tra dire che i fatti posti a fondamento del licenziamento non sussistono e dire che non ricorrono gli estremi del licenziamento?”

Lavoratore: “Non lo so”

Avvocato: “Ecco, non lo so nemmeno io e senza troppa modestia le posso dire che non lo sa nemmeno quello che ha scritto questa schifezza”.

Lavoratore: “Ma scusi e allora io cosa devo fare?”

Avvocato: “Lei può impugnare il licenziamento prima con una lettera che deve inviare entro 60 giorni al datore di lavoro e poi, nel caso in cui, come sempre avviene, questa lettera non sortisca alcun effetto, entro 180 giorni, con un ricorso al giudice del lavoro nel quale deve dimostrare che il licenziamento è illegittimo. Se ci riesce, se ci riusciamo, il giudice dovrà spiegarci cosa significa secondo lui quella frase e decidere se ci troviamo in un caso in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento o in un caso in cui i fatti posti a fondamento del licenziamento non sussistono sempre che questa differenza abbia un senso. Nel primo caso le riconoscerà una somma a titolo di risarcimento del danno e nel secondo la reintegrerà nel posto di lavoro”.

Lavoratore: “E secondo lei?”

Avvocato: “Guardi quello che penso io non conta niente. Conta quello che penserà il Giudice ed io non lo so e non lo posso sapere quello che penserà, non so neanche se tutti i giudici la penseranno allo stesso modo, se interverrà la Cassazione, la Corte Costituzionale, il Papa o qualcun altro a farci capire questa cosa incomprensibile”

Lavoratore: “Ma scusi ma il mio non è un licenziamento discriminatorio? Lui mi ha discriminato perché l'ho denunciato o un licenziamento disciplinare? Non si può dire questo?

Avvocato: “In teoria lei ha ragione ma nella lettera di licenziamento il datore di lavoro ha qualificato il licenziamento come “economico” e cioè dipendente da motivazione di ordine produttivo, organizzativo, tecnico, etc. e quindi noi, se impugniamo un licenziamento economico ed il giudice lo ritiene illegittimo comunque non c'è la certezza della reintegra. Mi pare ovvio che se uno è in crisi e ha trenta dipendenti licenziandone solo uno non migliora le cose e quindi il licenziamento è clamorosamente nullo senza bisogno di dare tante spiegazioni.”

Lavoratore: “Insomma, io non ho fatto niente di male, non è vero che l'azienda va male e il motivo per cui sono stato cacciato è perché non volevo morire su un camion o far morire qualcun altro e rivoglio il mio posto di lavoro cosa devo fare?”

Avvocato: “Deve fare quello che lo ho detto ma anche se dovesse vincere la causa, se emergesse, cioè, dall'istruttoria che il suo licenziamento è illegittimo, non le posso assicurare che alla fine verrà reintegrato nel posto di lavoro. Questo è il paese in cui viviamo, mi dispiace”.

Lavoratore: “Mi scusi avvocato io non sono uno che fa piagnistei o fa scene o cose del genere ma a mio figlio che gli devo dire? A mio figlio che cosa devo insegnare dopo questa storia? Che si deve stare sempre zitti altrimenti si finisce male e oltretutto non c'è neanche una giustizia che rimette le cose a posto? Me lo dica lei.”

Avvocato: “Il mio lavoro è prima di tutto quello di dirle la verità e la verità è che la giustizia ora le cose a posto non ce le mette più”.

Lavoratore: “Senta avvocato la ringrazio, ci devo pensare, devo pensare a un sacco di cose, poi le faccio sapere”.

Avvocato: “La capisco, solo si ricordi che ha 60 giorni per impugnare il licenziamento altrimenti perde il diritto”.

Lavoratore: “Mi sa che il diritto l'ho già perso, lo abbiamo perso tutti.”

Avvocato: “Mi sa di si”.

Lavoratore: “Arrivederci”

Avvocato: “Arrivederci”

Ogni riferimento a fatti o a persone è assolutamente voluto e tragicamente reale.

M.Guercio,Avvocato - 06/04/2012
http://www.marcoguercio.blogspot.it

lunedì 9 aprile 2012

...e ingiustizia per tutti !

Precari, svelato l’inganno

Non è una svolta. Per milioni di giovani precari è un inganno. Perché i piccoli passi in avanti, i timidi correttivi – depurati dalle proclamazioni buoniste su apprendistato e lavoro a tempo indeterminato – non riducono la piaga dei contratti atipici e lasciano ampi spazi allo sfruttamento creativo delle aziende.
Partiamo dai fatti. Per un ventennio le aziende hanno stravolto la flessibilità disegnata dalla legge Biagi. Spremendo milioni di giovani (e ormai non più giovani) in ruoli di pari lavoro e impari retribuzione rispetto ai dipendenti a tempo indeterminato “della scrivania accanto”: con peggiori compensi, peggiori tutele previdenziali, orari peggiori, zero diritti e spesso ampliamento non retribuito di mansioni. Quattro milioni di precari (dati 2011, Associazione Artigiani e Piccole Medie Imprese del Veneto) attendevano un immediato salto di qualità per compensi e tutele.

Succede invece che i precari delle finte partite Iva, ingaggiati in modo chiaramente subordinato, con una postazione in azienda,
non sono immessi in organico, ma dovranno attendere 12 mesi per vedersi riconosciuti co.co.co.: il tempo utile alle aziende per “buttarli fuori”, secondo lo spirito di Emma Marcegaglia che all’idea di uno stop agli abusi minaccia minore occupazione.

Autorizzare tre apprendisti per due dipendenti a tempo indeterminato è una presa in giro: un invito a fabbricare altro lavoro precario. E ancora, prevedere 36 mesi di contratti successivi a tempo determinato per un precario, che (dopo tre anni meno un giorno!) potrà essere tranquillamente sostituito da un altro precario, è una beffa. Dal progetto sembra sparito il tetto ai licenziamenti individuali per “motivi oggettivi”. Così verranno aggirate le norme sui licenziamenti collettivi.

In tutta la vicenda il governo si è comportato come se dovesse mediare equidistante tra sindacati e imprenditori, invece di agire perché la sorte dei giovani in ingresso lavoro venisse subito migliorata. Un esempio? Sancire che dopo 36 mesi ogni prestazione continuata (in quanto tale) sia necessariamente coperta da un contratto a tempo indeterminato.

Intanto Monti dichiara ai quattro venti che il reintegro per licenziamenti economici ingiusti resterà “improbabile”. Felice notizia per i cinquantenni che saranno rottamati con vista sull’(irraggiungibile) pensione a sessantasette anni. Si era tanto parlato del triste divario tra protetti e non garantiti. Ora finalmente è ristabilita l’eguaglianza. Insicurezza spalmata per tutti.

M. Politi - 08/04/2012

il Fatto Quotidiano


venerdì 6 aprile 2012

Rivoluzione Proprietaria

Mettiamoci nei panni di un imprenditore straniero, o anche indigeno: ha a disposizione la globalità del mondo per decidere dove investire conmaggior profitto i suoi soldi.
Perché dovrebbe scegliere l’Italia, in cui l’unica economia che tira e investe è quella criminale?
In cui la corruzione pubblica e privata raggiunge vertici da capogiro?
In cui le infrastrutture fanno schifo?
In cui i tempi della burocrazia e della giustizia sono preistorici?
Adesso però gli imprenditori non hanno più alibi, dice gioiosamente la coppia Monti-Fornero, e sapete perché? 
Perché è stata introdotta la libertà di licenziamento individuale, quelli collettivi c’erano già.

E dunque, benvenuti padroni finalmente liberi di fare carne di porco della forza lavoro.

Non li liberiamo dalla camorra, dalla corruzione, dai disservizi ma possono sempre liberarsi degli operai.
Ce lo chiedono i mercati e l’Europa, ai quali due governi hanno chiesto di chiedercelo.

In Italia non c’è lavoro, la disoccupazione pura e quella (finora, prima della controriforma degli ammortizzatori sociali) camuffata, esplodono mentre crolla il potere d’acquisto di salari e pensioni.
Soprattutto piangono i giovani grazie alla riforma pensionistica.
Il governo non ha uno straccio di progetto per rilanciare lo sviluppo, persino il peggiore che è quello senza vincoli sociali e ambientali.

E cosa fa Monti per sopperire a questo disastro?
Cancella un pezzo di democrazia italiana: l’art. 18 dello Statuto.

E per fortuna che c’è stata la mediazione di Bersani, sennò che sarebbe successo?
La stessa cosa che succede ora, dopo la mediazione.
Monti e Fornero sono contenti, la boccia è in buca e se ne vantano a livello globale. I licenziamenti discriminatori saranno puniti con il reintegro, come prima. Peccato che nessun imprenditore scriva nella lettera di licenziamento che il poveraccio è gay o iscritto alla Fiom, o la poveraccia è incinta.
Sì, però adesso varrà per tutti, anche per chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti. Peccato che già prima esistesse una legge di tutela contro le discriminazioni, a prescindere dal numero di dipendenti.
Poi ci sono i licenziamenti disciplinari, in cui il reintegro si trasforma in optional nelle mani del giudice che solo in casi eccezionali potrà ordinare al padrone di rimettere al lavoro la persona ingiustamente licenziata, altrimenti si limiterà a imporre un indennizzo di 12-24 mensilità (con lo sconto rispetto al testo iniziale per non disturbare troppo i manovratori).

Infine, i licenziamenti per motivi economici: il giudice, che espressamente non potrà indagare sulle ragioni economiche dell’impresa, solo in caso in cui la motivazione sia «manifestamente insussistente» potrà ordinare il reintegro. Ma come farà a dimostrare l’insussistenza senza mettere il naso nell’economia dell’azienda?
Così si passa dalla norma alla eccezionalità.


Monti e Fornero rivendicano la loro rivoluzione precisando che il diritto al 
reintegro non c’è perché sancirebbe una «concezione proprietaria del posto di lavoro». Che invece è di proprietà esclusiva del padrone,e così si torna al proletario di Marx, proprietario solo della sua prole. 

Mentre Monti conferma la nostra analisi spiegando come il reintegro diventi altamente improbabile,la segreteria della Cgil plaude al nuovo sistema di regole.
Una testimonianza illuminante dell’autonomia del sindacato dalle forze politiche.
O almeno della Cgil.

La Fiom è di tutt’altro avviso, ma come è noto Landini è quello che tira i gatti morti sul finestrino di Marchionne, e anche di Monti.
    

L Campetti - 06/05/2012
il Manifesto


giovedì 5 aprile 2012

Arriva la Controriforma

Licenziamenti economici : corsa a ostacoli per il reintegro

La legge Fornero: dalla A degli ammortizzatori sociali alla P di precarietà passando per la L di licenziamenti, dove c'è il vero raggiro. Il reintegro torna, ma è impossibile ottenerlo.
Una «riforma di portata storica« davvero, se l'attuale Parlamento di «nominati» la farà passare così com'è. In estrema sintesi: cambia realmente tutto - in molto peggio - per quanto riguarda le tutele dei lavoratori dipendenti, quasi nulla sulla precarietà. Vediamo dunque le partite principali, tenendo conto del testo e non delle parole spese in conferenza stampa.

Licenziamenti

Era il punto più atteso e il ministro l'ha lasciato per ultimo come si conviene quando bisogna dire le cose crudeli (ma senza lacrima). Grazie alla tecnica dello «spacchettamento», i licenziamenti diventato praticamente liberi; come dice Gianni Rinaldini (coordinatore de «La Cgil che vogliamo») «l'art. 18 non esiste più». L'unica accortezza che devono avere le aziende è nell'indicare come causale «per motivi economici» e non aver lasciato troppe tracce (o testimonianze) di «discriminazione». Ma del resto nessun imprenditore ha mai addotto motivi «discriminatori», sanzionati peraltro dalla Costituzione prima che dalla legge 300/70. In dettaglio, le uniche ragioni ammissibili sono quelle «disciplinari» oppure «economiche». Nel primo caso, è il giudice a stabilire se - quando riscontra che l'azienda non ha detto il vero - si deve procedere al reintegro del dipendente sul posto di lavoro (con ovvia restituzione degli stipendi e dei contributi non pagati) oppure al semplice indennizzo economico, tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità (15-27 nel vecchio testo, devono essere sembrate «eccessive»). Finora la scelta è stata lasciata al singolo lavoratore.

La vera rivoluzione è per i licenziamenti «economici». Una volta comunicata la risoluzione del rapporto, impresa e dipendente devono presentarsi entro sette giorni presso la Direzione territoriale del lavoro per addivenire a una «conciliazione» in cui viene stabilita l'entità dell'"indennizzo». Se entro 20 giorni l'accordo non si trova, l'azienda può procedere al licenziamento effettivo. Se invece c'è, parte «l'affidamento del lavoratore ad un'agenzia» per la ricollocazione sul mercato del lavoro. Il lavoratore che non trova l'accordo può ancora ricorrere al giudice (i tempi della procedura vengono notevolmente accelerati, con una sorta di «corsia preferenziale»), ma questi non potrà entrare nel merito delle ragioni economiche addotte dall'azienda; e solo nel caso ne riscontri l'«insussistenza» procederà al «reintegro».
Vi sembra contorto? Lo è. In pratica il lavoratore dovrà decidere subito se accettare l'indennizzo che gli viene proposto oppure correre il rischio di una causa in cui, se non vince, può perdere anche il risarcimento.
I media ieri riportavano che proprio su questo punto si era esercitato il massimo di pressione da parte del Pd per «correggere» il testo originario. A voi giudicare se ha avuto un successo, come dice Bersani. Oppure no, come ci sembra evidente. 

Precarietà

Cambia ben poco. L'apprendistato viene «valorizzato» come modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro». Le aziende possono però continuare ad assumere «apprendisti» solo se nelle precedenti chiamate hanno finito per assumerne almeno il 50% in pianta stabile (soltanto il 30%, nei primi tre anni della legge). In compenso, potranno assumerne tre ogni due lavoratori con contratto a tempo indeterminato (oggi il limite è 1 contro 1; quindi «più apprendisti per (quasi) tutti». 

I contratti a termine non dovranno essere più giustificati col «causalone» per la prima chiamata, ma sarà loro applicata un'addizionale contributiva per finanziare in parte l'Aspi (il nuovo nome dell'assegno di disoccupazione); successivamente sarà obbligatorio motivarli, ma scattano incentivi contributivi se si passerà all'assunzione a tempo indeterminato. 
Scatta poi la «presunzione di abuso» per i co.co.pro. o le partite Iva monocommittenti prolungate, così come per altre due o tre forme contrattuali «atipiche». Ma non ne viene abolita nemmeno una.


Ammortizzatori sociali

È l'altra «modernizzazione reazionaria» in atto, che conferma sostanzialmente il primo testo presentato due mesi fa. Si passa da un «sistema duale» che prevede varie forme di cassa integrazione più «mobilità» per una platea di circa 4 milioni di lavoratori, e nulla per gli altri, ad un altro in cui ci sarà ben poco, ma per tutti (in teoria e comunque non uguale per tutti). Resta la cig solo per le «crisi aziendale temporanee», mentre scompaiono progressivamente quelle per «cessazione di attività», «ristrutturazione», ecc. Scompare anche la mobilità. In sostituzione di tutto ciò arriva l'Aspi (assicurazione sociale per l'impiego), che dura però solo 12 mesi per gli under 55 anni e 18 per gli over. In pratica; se fin qui si poteva contare su due anni di cig più la mobilità (2 anni per gli under 50, tre per gli over, totale: 4 o 5), alla fine del «periodo di transizione» da qui al dicembre 2015 resterà soltanto un misero anno (massimo un anno e mezzo per gli anziani). 

Ma, almeno, è stato dato un reddito di continuità ai precari? In teoria sì, ma solo se hanno lavorato dodici mesi negli ultimi due anni (un sogno, per il precario medio). Altrimenti - se hai cumulato tre mesi di contributi nell'ultimo anno - ti spetta solo un «mini-Aspi», che dura la metà dei mesi per cui hai i contributi.
Sia chiaro. Il ddl è di 79 pagine; ci dovremo certamente tornare sopra.


F. Piccioni - 05/04/2012
il Manifesto

Art.18 prime reazioni alla Legge-truffa

Cremaschi “Ci saranno licenziamenti ingiusti”. L'Usb ”I lavoratori alle prese con una mannaia, saranno disincentivati dal fare ricorso contro il licenziamento”. La Cgil riunisce la segreteria “per un giudizio più approfondito”.
“Ci può essere un licenziamento ingiusto e il lavoratore resta fuori lo stesso, magari con l'indennizzo, ma fuori. Ci saranno licenziamenti ingiusti in cui non si procederà con la reintegra. Siamo in un momento di crisi e diamo la libertà alle aziende di licenziare per motivi economici, questa reintegra è irraggiungibile. Oggi è l'azienda che deve dimostrare al giudice che ha licenziato giustamente con l'onere della prova, da domani sarà invece il lavoratore che dovrà provare il carattere spropositato del licenziamento”. È questo il duro commento di Giorgio Cremaschi in diretta a Tgcom24 alla riforma del lavoro. Sul problema della crisi aggiunge: “Siamo davanti a una crisi enorme e quest'Europa dei Monti, Merkel e Sarkozy sta distruggendo l'economia continentale con aumento delle tasse e taglio dei diritti, ma nessuno esce dalla crisi”. Alle posizioni della Cisl e di Bonanni aggiunge: «La Cisl in Fiat si è messa d'accordo con la proprietà per escludere il mio sindacato, una cosa intollerante che io non avrei mai fatto”.
“A leggere le prime indiscrezioni di stampa non sembrerebbe che sia cambiata la sostanza delle cose” dicono all'Usb “Certamente l’articolo 18 continua ad essere oggetto di mercanteggiamenti, si ridurrà l’impatto della riforma sulle false partite IVA che quindi continueranno ad esserci, la questione degli esodati sembra ancora in alto mare”. Perentorio il giudizio anche sul ricorso in tribunale da parte del lavoratore licenziato “Non serve essere degli esperti di diritto del lavoro per capire che, con questa mannaia messa alla fine del percorso, i lavoratori saranno “disincentivati” dal ricorso alla magistratura. La domanda che si dovranno porre subito sarà infatti: “prendo questi quattro soldi sicuri o vado avanti rischiando di perdere tutto?".
Intanto si riunisce oggi la segreteria della Cgil, convocata dal leader Susanna Camusso, per esprimere una prima valutazione dell'articolato del ddl presentato ieri dal governo. Una prima analisi a tutto campo, che dedicherà spazio sopratutto alle novità sull'articolo 18 ed ai licenziamenti per motivi economici, al termine della quale non è esclusa la prossima convocazione del direttivo della confederazione per un giudizio più complesso e approfondito. 


S. Porcari - 05/04/2012
Contropiano

Appunti sulla nuova riforma del Lavoro

Non parlerò di diritto del Lavoro.
Parlerò di riforma del Lavoro.
Ciò perché il diritto del Lavoro non è più tale su due fronti.
Quello del diritto in quanto diritto al lavoro, ed in quanto diritto che regolamenta le tutele per la parte contraente più debole, il lavoratore.
Invece possiamo parlare di lavoro, perché essendo il diritto fortemente limitato quindi inconsistente, sussiste tutta la regolamentazione che riguarda l'entrata e l'uscita dal mercato del lavoro.
Appunto, mercato del lavoro.
Dove il datore di lavoro non è più padrone ma imprenditore, dove il lavoratore è semplicemente merce.
Sì, merce.
L'operazione distrazione articolo 18 è riuscita.
Da un lato sono riusciti a rompere il tabù. L'articolo 18 si può modificare.
Così è stato.
Dall'altro lato parlando solo di articolo 18 nessuno si è soffermato sul vero corpo della riforma.
Eppure ben dal 23 marzo il testo in forma grezza era già a disposizione.
Si anticipava ciò che ora ha trovato piena affermazione.
I Sindacati che hanno trattato, perché hanno trattato, non potevano non sapere.
Solita operazione teatrale.
Si raggiunge l'accordo, si mette in scena un finto conflitto con la minaccia di uno sciopero generale, a fine maggio, che difficilmente verrà effettuato, ma l'accordo era probabilmente stato raggiunto.
Non ho prove.
Però, Pasolini direbbe io so.
Perché è così che funziona la politica.
E' così che funziona questo sistema.
Tetro e teatrale.
Mi soffermerò su alcuni aspetti della riforma del mercato del lavoro.

Il Ministro Fornero afferma: "Noi speriamo che la modalità tipica sarà il lavoratore dipendente a tempo indeterminato"
Già, parole.
Infatti, la normativa che disciplina il rapporto di lavoro a termine e terminale per una vita di speranza e progettualità per i lavoratori affermava: Il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato.
Ora verrà sostituito da questo nuovo periodo: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro” 
Non più regola, ma forma comune. 
Altra questione, la norma originaria prevedeva l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.
La nuova norma prevede che per i primi sei mesi di rapporto di lavoro a termine non sia prevista alcuna causale specifica. Già quelle causali che spesso determinavano la nullità del contratto e la conversione in tempo indeterminato.
Come dire per i primi sei mesi vi sarà una sorta di zona franca ove ogni cosa è possibile.
Viene incrementata la possibilità di continuare il rapporto di lavoro oltre la naturale scadenza, ovvero si passa dal ventesimo giorno, al trentesimo giorno, e dal trentesimo giorno al cinquantesimo giorno, oltre il quale, nel primo caso per rapporto di lavoro inferiore ai sei mesi, nel secondo caso superiore ai sei mesi, si può considerare a tempo indeterminato.
E qualcuno ha anche il coraggio di dire che si sostiene il tempo indeterminato quando in realtà si amplia la possibilità di ricorrere al tempo determinato.

Tra le altre cose che devo segnalare è un fatto a dir poco grave.
Nel rapporto di somministrazione, di norma e per norma, l'utilizzatore é obbligato in solido con il somministratore a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali.
Questa era una importante garanzia per il lavoratore.
Ora tale disposizione è semplicemente abrogata.
Via, eliminata, troncata.
Avevano detto che avrebbero ridotto le forme contrattuali.
In realtà l'unica che verrà abrogata è solo quella relativa al contratto di inserimento.
Le altre permangono.


Si introduce nel contratto a chiamata l'obbligo per il datore di lavoro ,prima dell’inizio della prestazione lavorativa, di comunicare la durata con modalità semplificate alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, mediante fax o posta elettronica certificata. 


Si innalza il rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2; perché quello che vogliono è una forma di apprendistato duratura, che parte fin dall'età di 15 anni, e si riformano totalmente gli ammortizzatori sociali.
Devo in tal senso evidenziare che i dipendenti pubblici a tempo indeterminato non avranno diritto, in caso di licenziamento, all'ASPI, poichè l'ASPI, comprende tutti i lavoratori dipendenti, ivi compresi gli apprendisti e i soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito, con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo, un rapporto di lavoro in forma subordinata, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 3 aprile 2001, n. 142, ma eslcude i dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.
Forse qualcuno si è dimenticato che i lavoratori pubblici a tempo indeterminato possono essere licenziati, questo era lo spirito della Riforma Brunetta, spirito che ha preso forma e consistenza.
Sui licenziamenti si è già detto tanto, l'articolo 18 è stato solo un pretesto.
In Italia è sempre stato poco applicato, sia per i tempi enormi della giustizia che per altre ragioni strettamente connesse alle varie situazioni lavorative.
L'unica cosa positiva che intravedo è solo l'aver previsto un rito veloce per il processo in caso di licenziamento, ma per fare ciò era necessario attaccare l'articolo 18?
No.
L'articolo 18 è stato colpito.
Ma è stato anche un pretesto per modificare in meglio per i datori di lavoro, in peggio per i lavoratori, il mercato del lavoro.
Ed ora rispolverò qualche vecchio testo del diritto del lavoro, ove il diritto era diritto.
Per ricordarmi che in verità il diritto del lavoro è esistito e non è stato solo un mio dubbioso pensiero.
La lotta potrebbe determinare il diritto, dovrebbe scrivere il diritto.
Ma non in questa epoca, non in questa società, ove l'unico processo rivoluzionario in atto è solo quello capitalistico.
Tra un Monti bis o futuro Presidente della Repubblica, ed una politica sospesa, forse per sempre, si continua ad andare avanti, per arrivare dove non so ben dirlo.
Sì, andiamo avanti per non rimanere fermi.
Ma forse fermarsi anche per pochi attimi, e riflettere su quello che ora accade, riflettere sul perché in questo Paese sono morti uomini e donne per liberarci da una dittatura, sarebbe utile. Uomini e donne che hanno lottato per la liberazione, non sono certamente morti, e ripeto morti, per vederci finire in altra dittatura, mascherata dalla democrazia, mascherata da una crisi sempre più anomala sempre più invasiva, sempre più limitativa dei diritti sociali concessi o forse conquistati in un sistema che non avrebbe più modo di esistere, eppure esiste e resiste.
Fermi tutti.
Riflessione immediata.



M. Barone - 05/04/2012
http://baronemarco.blogspot.it

martedì 3 aprile 2012

Tutti esodati con la controriforma del lavoro. Via il governo dei licenziamenti

Se in una vasca ci sono tre buchi, due si tappano alla bell’è meglio e uno resta aperto, l’acqua continuerà a uscire da lì. Tutte le chiacchiere e i pasticci del Palazzo attorno all’articolo 18 si fermano sulla soglia della reintegra per il licenziamento economico. Lì il governo mantiene ferma la sua posizione: anche se il licenziamento economico è ingiusto non si rientra al lavoro. Come è evidente a tutti, ancor di più a coloro che fingono, questo è sufficiente per garantire la piena libertà di licenziamento. Soprattutto in un momento di crisi come questo. E’ evidente infatti che se mettiamo assieme i dati sulla recessione, la crescita della disoccupazione, la caduta dei mercati della produzione, basterà la sola minaccia del licenziamento economico per indurre le lavoratrici e i lavoratori a contratto a tempo indeterminato ad accettare qualsiasi condizione di supersfruttamento. La libertà di licenziamento economico rende ridicola l’affermazione che bisogna estendere i contratti a tempo indeterminato. Questi ultimi, infatti, diventano a termine più degli altri. In fondo, se vengo assunto con un contratto a termine c’è l’obbligo per chi mi assume di mantenermi fino alla scadenza. Con il licenziamento economico il contratto a tempo indeterminato può scadere in qualsiasi momento, appena ci sono delle difficoltà dell’azienda oppure una ristrutturazione, oppure un cambio di reparto, oppure un cambio di mansione. Cioè, il contratto a tempo indeterminato, diventa un contratto precario come tutti gli altri.

Questa è la sostanza della decisione che il governo è andato a vendere in Europa e nel resto del mondo, presentandola, giustamente, come una misura che rende il lavoro ancora più mercificato. Berlusconi lo diceva gualche anno fa nel suo modo volgare. Venite a investire in Italia che c’è il lavoro più flessibile e le segretarie più carine. Monti, sobriamente, dice le stesse cose. Nello stesso tempo l’Europa, nei suoi documenti riservati, ci dice che cento miliardi di tagli alla spesa pubblica e sociale, nonché di tasse in più, probabilmente non basteranno, vista la recessione. Dunque la crisi è destinata a continuare, proprio a causa della politica economica del governo Monti e degli altri governi europei che continuano a perseguire a tutti i costi l’austerità. 

Come abbiamo detto nella manifestazione di Milano e come dobbiamo ribadire in tutti i modi, Monti se ne deve andare. Dobbiamo mandarlo via perché il suo programma è socialmente catastrofico e proprio per questo, se perseguito, produrrà con una terribile reazione a catena le ragioni di altri interventi dello stesso segno. Quello che è successo in Grecia, dove più hai tagliato, più hai dovuto continuare a tagliare. 

Bisogna quindi cominciare a fermarli, e facciamolo allora sulla controriforma del lavoro. Partiamo da qui. Smascherando il colossale imbroglio della volontà di licenziamento, che chiude il ciclo iniziato con l’innalzamento a quasi 70 anni dell’età pensionabile. Il 13 aprile Cgil Cisl e Uil portano in piazza gli esodati truffati dal governo. Ma se passerà la controriforma del lavoro saremo tutti esodati o esodabili. Chi non sarà più coperto dalla mobilità e dalla cassa integrazione, dovrà arrangiarsi con un anno, un anno e mezzo di indennità di disoccupazione. A questi si aggiungeranno coloro che saranno licenziati uno per uno per ragioni economiche. Coloro che continueranno a subire il ricatto dei 46 contratti precari che resteranno tutti, ma proprio tutti, in vigore. Sì, questo governo affronta la crisi con i licenziamenti e, con buona pace di quanto afferma lo stesso Presidente della Repubblica, così aggrava la crisi invece che risolverla. Per questo dobbiamo continuare a scendere in piazza finché non se ne va.

Giorgio Cremaschi - 03/04/2012
Rete 28 Aprile (FIOM)