In servizi a carattere universale c'è sempre un
punto oltre il quale la proprietà privata, per quanto monopolistica, non
riesce a trovare il punto di equilibrio gra costi e ricavi. L'analisi -
eccellente - di Paul Krugman.
Il problema - pratico e teorico - non è nuovo. Ma nell'epoca
della Rete, e soprattutto nell'ideologia idiota per cui la Rete sembra
immateriale e non costosa (un "non problema", un servizio gratuito
perenne, su cui magari fare marketing furbesco, sia politico che
merceologico), era stato accantonato tra le tante cose "vecchie", di cui
non era più necessario occuparsi ora che siamo nel "nuovo".
Ma i
fatti - e la teoria - hanno la testa dura. Sicuramente più dura degli
ideologi "nuovisti" (e ce ne sono di più svegli di un Veltroni...).
La
questione è chiaramente posta da Krugman, peraltro molto corretto nel
riconoscere a Ryan Avent il merito di aver esposto i dati e i poblemi
che Google sta incontrando: un servizio universale presenta costi fissi
elevati per chi li gestisce, ma utenti molto diversi quanto a intensità
di utilizzo. Nel caso di Google - che al di là dell'interfaccia
essenziale richiede server hardware continuamente aggiornati,
innovazioni software in grado di far fronte a un traffico dati
esponenzialmente crescente, una quantità di personale per nulla
irrilevante e di alta qualità professionale, retribuito di conseguenza -
gli investimenti fissi sono molto costosi. Ma i ricavi, essenzialmente
quelli pubblicitari, per quanto giganteschi, a un certo punto fanno
fatica a tenere il passo dei costi fissi.
Basta alzare il prezzo!,
direbbe l'idiota di turno. E qui c'è la complicazione, "vecchia" sul
piano teorico ma "nuova" solo per il settore in cui si manifesta. I
"clienti" - imprese o persone fisiche - hanno caratteristiche di
utilizzo del servizio assolutamente diverse. Chi ne fa un uso intensivo e
professionale, un puntello essenziale della propria attività, può anche
essere disposto a sobbarcarsi un aumento di prezzo (anche qui, con
grandi differenze difficilmente predeterminabili); chi ne fa un uso
saltuario, e fin qui gratuito, storcerà facilmente il naso davanti a una
richiesta di pagamento anche minima.
Ovviamente la prima categoria è
numericamente abbastanza ristretta, la seconda di dimensioni
planetarie. Ogni aumento di prezzo comporta dunque una drastica
riduzione del numero di clienti che, potenzialmente, potrebbero
incrementare in futuro il proprio utilizzo di quei servizi. Insomma, si
rischia di perdere clientela a venire.
Ma non può neanche ridurre la
qualità o la quantità dei servizi offerti, altrimenti otterrebbe lo
stesso risultato negativo, aprendo la strada a concorrenti più piccoli
ma agguerriti (come sta già avvenendo, nel settore dei motori di
ricerca). Il problema, insomma, non ha soluzione dentro il quadro che
mantiene la entralità intoccabile della "proprietà privata" di un
"servizio universale".
L'interesse generale nascosto nel ragionamento
di Krugman sta dunque nell'analogia che lui stesso istituisce tra i
servizi di Rete e il trasporto pubblico. Hanno le stesse caratteristiche
(alti costi fissi, investimenti e manutenzione continua, "utenza" molto
differenziata), presentano criticità identiche (la determinazione del
prezzo ottimale)... E soltanto la proprietà pubblica - in regime di
monopolio - può risolvere alla fine le incertezze di un monopolista
privato. Perchè se quel servizio universale è indispensabile - e lo è
certamente, perché è stato l'uso sociale a determinarne l'effettiva
centralità per la vita del sistema e delle singole persone - soltanto la
proprietà pubblica può garantirne, redistribuendone le "diseconomicità"
sulla contabilità nazionale, l'esistenza - e persino l'efficienza - sul
lungo termine.
Se pensiamo a quanti distruttori sono all'opera in
Italia, nei governi degli ultimi venti anni come nelle redazioni dei
media principali, per demolire i servizi pubblici essenziali (dai
trasporti alla sanità, dall'istruzione alla previdenza, ecc), abbiamo un
quadro realistico dell'abisso in cui ci stanno precipitando: teorico e
ideologico, certamente, ma soprattutto pratico, perché stanno
distruggendo una rete infrastrutturale che ha fin qui presieduto al
mantenimento della coesione sociale e quindi dell'efficienza anche
economica dell'intero sistema. A chi parla di "ulteriori
privatizzazioni", insomma, bisognerebbe staccare la spina e farlo
precipitare nella fossa del "disagio economico".
Però... Il diavolo del "socialismo necessario" si annida davvero nel più inaspettato dei dettagli....
sabato 27 aprile 2013
giovedì 25 aprile 2013
Grazie, nonni. Ora e sempre : Resistenza !
ieri come oggi
Ora e sempre : Resistenza !
lunedì 22 aprile 2013
Friuli: vince la Serracchiani, forte calo di Grillo
Debora Serracchiani ha vinto le regionali del Friuli-Venezia
Giulia. L’esponente del Pd, una dei nomi più noti della “nouvella vague”
democratica, ha battuto il presidente uscente, il leader del Pdl Renzo
Tondo. Il margine di vittoria della Serracchiani è davvero risicato: le
elezioni sono state decise da una differenza di poco più di mille
preferenze, una percentuale pari allo 0,1%. Un successo sul filo di lana
che il centrosinistra ha conquistato grazie ad una sorprendente ripresa
dei suoi partiti principali. Sia il Pd che Sel sono andati meglio
rispetto alle recenti politiche, mentre il Pdl ha tenuto le percentuali
delle politiche. Bisogna però aggiungere che molti consensi alla
formazione di Berlusconi sono sottratti dalla lista personale di Tondo,
il quarto partito della regione.
Il grande equilibrio non è una novità nella recente storia politica di una regione che, dall’avvento del bipolarismo, ha registrato sempre l’alternarsi del presidente: nel 1998 vinse il candidato di Forza Italia Antonione, poi l’ulivista ed industriale Riccardo Illy, battuto cinque anni dopo da Tondo che ora lascia la sua poltrona di governatore alla Serracchiani. Queste consultazioni sono state caratterizzate da due dati politici molto rilevanti. Il primo è il crollo della partecipazione, con un’affluenza che si è assestata al 50,5%, una contrazione molto forte rispetto alle politiche di due mesi fa. Il secondo elemento è il calo molto significativo del MoVimento 5 Stelle. Alle elezioni del 24 e 25 febbraio il M5S era stato il primo partito della regione con il 27%, ad un passo dalle due coalizioni, centrodestra e centrosinistra, praticamente appaiate intorno al 28. Il grande equilibrio tripolare, non molto dissimile rispetto al risultato nazionale, si è però subito rotto. Il candidato presidente del MoVimento è sceso sotto al 20%, mentre a livello di lista il M5S si è quasi dimezzato, con un deludente 13,85%. Rispetto a due mesi fa la formazione legata a Beppe Grillo ha perso quasi 100 mila voti, la lista che più ha perso voti di tutti in numeri assoluti. praticamente dimezzando i consensi raccolti. Debora Serracchiani invece nonostante il forte calo di partecipazione è riuscita a raccogliere più voti rispetto a quelli conquistati da Bersani, superando il muro dei 200 mila voti. Sinistra Ecologia e Libertà è invece l’unico partito che ha mantenuto i consensi di due mesi fa, e probabilmente anche questo ha favorito la vittoria della Serracchiani, arrivata per un migliaio e poco più di schede.
A. Mollica - 22/04/2013
http://www.gadlerner.it/
Il grande equilibrio non è una novità nella recente storia politica di una regione che, dall’avvento del bipolarismo, ha registrato sempre l’alternarsi del presidente: nel 1998 vinse il candidato di Forza Italia Antonione, poi l’ulivista ed industriale Riccardo Illy, battuto cinque anni dopo da Tondo che ora lascia la sua poltrona di governatore alla Serracchiani. Queste consultazioni sono state caratterizzate da due dati politici molto rilevanti. Il primo è il crollo della partecipazione, con un’affluenza che si è assestata al 50,5%, una contrazione molto forte rispetto alle politiche di due mesi fa. Il secondo elemento è il calo molto significativo del MoVimento 5 Stelle. Alle elezioni del 24 e 25 febbraio il M5S era stato il primo partito della regione con il 27%, ad un passo dalle due coalizioni, centrodestra e centrosinistra, praticamente appaiate intorno al 28. Il grande equilibrio tripolare, non molto dissimile rispetto al risultato nazionale, si è però subito rotto. Il candidato presidente del MoVimento è sceso sotto al 20%, mentre a livello di lista il M5S si è quasi dimezzato, con un deludente 13,85%. Rispetto a due mesi fa la formazione legata a Beppe Grillo ha perso quasi 100 mila voti, la lista che più ha perso voti di tutti in numeri assoluti. praticamente dimezzando i consensi raccolti. Debora Serracchiani invece nonostante il forte calo di partecipazione è riuscita a raccogliere più voti rispetto a quelli conquistati da Bersani, superando il muro dei 200 mila voti. Sinistra Ecologia e Libertà è invece l’unico partito che ha mantenuto i consensi di due mesi fa, e probabilmente anche questo ha favorito la vittoria della Serracchiani, arrivata per un migliaio e poco più di schede.
A. Mollica - 22/04/2013
http://www.gadlerner.it/
domenica 21 aprile 2013
Pd, le tessere stracciate e l’attacco al cuore dello Stato
Vent’anni di guerriglia verbale con Berlusconi,
per poi andarci a nozze definitivamente, all’ombra del Quirinale,
contro la volontà della stragrande maggioranza del paese e persino dei
propri iscritti, esasperati dalla protervia marmorea di una nomenklatura
grottesca.
Nella inquietante “notte della Repubblica” che si spalanca sull’incerto 2013, brilla il bagliore – non scontato – dei roghi delle tessere del Pd, il “popolo delle primarie” che sembra aver finalmente capito di esser stato ferocemente preso in giro: a personaggi come Bersani, Letta, Bindi, Violante, D’Alema e Finocchiaro non è mai passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’ipotesi di un vero cambiamento. Se l’antiberlusconismo tanto sbandierato era solo un collante di comodo, fragile e insincero, ora è scaduto anche quello.
Così si comprende meglio l’irruzione sulla scena di Beppe Grillo, come sostiene Giovanni Minoli: «Grillo ha fatto un miracolo democratico, ha evitato una guerra civile».
Sul versante di sinistra, la democrazia italiana sembra sotto choc.
Ha scoperto all’improvviso che i presunti paladini del progressismo erano in campo per tutt’altra ragione. E cioè: addormentare l’opinione pubblica e impedirle di pretendere un vero riscatto civile. Meglio imbrigliarla con falsi obiettivi e abili diversivi, per far digerire al popolo del centrosinistra le misure più impopolari di sempre.
Avverte l’economista italo-danese Bruno Amoroso: a partire dallo scandalo Mps, la storia si sta incaricando di smascherare una “democratura” infiltrata da poteri fortissimi, esterni agli interessi dell’Italia, ai quali obbedire puntualmente, ogni volta mentendo al proprio elettorato e magari agitando bersagli di carta: la finta crociata contro l’ineleggibilità del Cavaliere, l’antimafia come orizzonte politico di parte e la denuncia dell’evasione fiscale come male assoluto, perfettamente adatto a colpevolizzare il paese.
Evasione e mafia, due metastasi italiane. Nulla, però, in confronto all’attacco al cuore dello Stato, organizzato dall’élite neoclassica e neoliberista di Bruxelles, intenzionata a confiscare quel che resta della sovranità democratica per privatizzare tutto, a costo di gettare milioni di persone nell’incubo della precarietà e del bisogno.
Rinnegati di sinistra, li chiama il filosofo Costanzo Preve: fino a ieri hanno potuto agire impunemente, protetti da un mainstream prezzolato e ipocrita, sempre pronto a non vedere, non dire, non discutere, e quindi ostile alla contro-narrazione improvvisata da Grillo, che ora è arrivata – nonostante l’interdizione sovietica di giornali e televisioni – a costruire una scomoda testa di ponte in Parlamento e nelle piazze indignate che assediano il Palazzo. Niente di rassicurante all’orizzonte: da una parte il bunker della partitocrazia in sfacelo, al guinzaglio dei signori di Bruxelles, e dall’altra un’opposizione di governo tutta da costruire, guardando all’Europa di domani.
Quella della Francia che ormai fischia Hollande, del Portogallo che dichiara anticostituzionale il Fiscal Compact, della Grecia dilaniata dal ricatto della nuova schiavitù, dell’Inghilterra sovrana che fa assorbire quote di debito dalla propria banca centrale.
Centrosinistra inesistente anche a Berlino, dove – mentre la Spd condivide con la Merkel il delirio del rigore spacciato per virtù – è la destra liberale di “Alternativa per la Germania” a mettere in discussione l’euro come sistema ingiusto, fallimentare e anche pericoloso, vista l’ondata di risentimento anti-tedesco che sta suscitando nel resto del continente.
La sinistra italiana, capace di imporre una sterzata popolare alla Costituzione materiale del paese, era quella guidata da Enrico Berlinguer e da personalità d’altri tempi come Sandro Pertini, in grado di parlare alla nazione, e come
Gino Giugni, l’architetto democratico dello Statuto dei Lavoratori, che portò anche in fabbrica la democrazia nata dalla Resistenza antifascista.
Con l’inaudita rielezione di Napolitano al Quirinale sembra terminare un lungo equivoco, coltivato dallo strano regime bipolare (ma in realtà bipartisan) insediatosi dopo Tangentopoli con la promessa di riscattare il paese dal cancro della corruzione: distratta dai meritati applausi ai giudici di Mani Pulite, l’opinione pubblica non si era accorta che – lontano dai riflettori – il Trattato di Maastricht rappresentava l’inizio della fine della democrazia parlamentare e quindi della libertà. Era una cessione semi-clandestina della sovranità nazionale, concessa senza validazione popolare e senza neppure la contropartita democratica di un governo federale europeo. I risultati arrivano oggi e si chiamano catastrofe dell’economia, pareggio di bilancio e massacro sociale, manovre lacrime e sangue imposte da “ministri della paura” di ieri, di oggi e di domani.
Giuliano Amato, ricorda Franco Fracassi nel libro-inchiesta “G8 Gate”, fu il premier che, un anno prima della mattanza di Genova, fece pestare a sangue i disoccupati che protestavano a Napoli: per la prima volta, osserva Fracassi, alla polizia antisommossa di Gianni De Gennaro fu ordinato di non lasciare vie di fuga ai manifestanti, trasformando la piazza in una trappola.
Dieci anni di letargo, dopo la sanguinosa liquidazione del movimento No-Global e l’infarto democratico mondiale dell’11 Settembre, hanno incubato i fronti più atroci di quella che Giulietto Chiesa annunciò col suo vero nome, la Guerra Infinita.
Poi il crac della Lehman, gli Indignados, Occupy Wall Street.
In Italia, nonostante la sordità non casuale del Pd, parla una lingua internazionale la resistenza civile della valle di Susa contro l’assurda violenza di una “grande opera inutile” come il Tav Torino-Lione.
Nel fatidico 2011, l’anno del luttuoso avvento di Monti & Fornero, l’Italia sembrava essersi svegliata dal sonno: il clamoroso plebiscito democratico dei referendum per i beni comuni portava la firma, tra gli altri, di Stefano Rodotà. Ancora una volta, il Palazzo ha votato contro la volontà popolare, sfidandola. Ma oggi – a partire dalla rivolta di Vendola e dei militanti del Pd – i rottami del centrosinistra non potranno più ingannare l’opinione pubblica ricorrendo ai vecchi alibi, ora che sembrano apprestarsi a consegnare definitivamente il paese al super-potere straniero che lo sta sbranando.
Giorgio Cattaneo - 21/04/2013
http://www.libreidee.org
Nella inquietante “notte della Repubblica” che si spalanca sull’incerto 2013, brilla il bagliore – non scontato – dei roghi delle tessere del Pd, il “popolo delle primarie” che sembra aver finalmente capito di esser stato ferocemente preso in giro: a personaggi come Bersani, Letta, Bindi, Violante, D’Alema e Finocchiaro non è mai passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’ipotesi di un vero cambiamento. Se l’antiberlusconismo tanto sbandierato era solo un collante di comodo, fragile e insincero, ora è scaduto anche quello.
Così si comprende meglio l’irruzione sulla scena di Beppe Grillo, come sostiene Giovanni Minoli: «Grillo ha fatto un miracolo democratico, ha evitato una guerra civile».
Sul versante di sinistra, la democrazia italiana sembra sotto choc.
Ha scoperto all’improvviso che i presunti paladini del progressismo erano in campo per tutt’altra ragione. E cioè: addormentare l’opinione pubblica e impedirle di pretendere un vero riscatto civile. Meglio imbrigliarla con falsi obiettivi e abili diversivi, per far digerire al popolo del centrosinistra le misure più impopolari di sempre.
Avverte l’economista italo-danese Bruno Amoroso: a partire dallo scandalo Mps, la storia si sta incaricando di smascherare una “democratura” infiltrata da poteri fortissimi, esterni agli interessi dell’Italia, ai quali obbedire puntualmente, ogni volta mentendo al proprio elettorato e magari agitando bersagli di carta: la finta crociata contro l’ineleggibilità del Cavaliere, l’antimafia come orizzonte politico di parte e la denuncia dell’evasione fiscale come male assoluto, perfettamente adatto a colpevolizzare il paese.
Evasione e mafia, due metastasi italiane. Nulla, però, in confronto all’attacco al cuore dello Stato, organizzato dall’élite neoclassica e neoliberista di Bruxelles, intenzionata a confiscare quel che resta della sovranità democratica per privatizzare tutto, a costo di gettare milioni di persone nell’incubo della precarietà e del bisogno.
Rinnegati di sinistra, li chiama il filosofo Costanzo Preve: fino a ieri hanno potuto agire impunemente, protetti da un mainstream prezzolato e ipocrita, sempre pronto a non vedere, non dire, non discutere, e quindi ostile alla contro-narrazione improvvisata da Grillo, che ora è arrivata – nonostante l’interdizione sovietica di giornali e televisioni – a costruire una scomoda testa di ponte in Parlamento e nelle piazze indignate che assediano il Palazzo. Niente di rassicurante all’orizzonte: da una parte il bunker della partitocrazia in sfacelo, al guinzaglio dei signori di Bruxelles, e dall’altra un’opposizione di governo tutta da costruire, guardando all’Europa di domani.
Quella della Francia che ormai fischia Hollande, del Portogallo che dichiara anticostituzionale il Fiscal Compact, della Grecia dilaniata dal ricatto della nuova schiavitù, dell’Inghilterra sovrana che fa assorbire quote di debito dalla propria banca centrale.
Centrosinistra inesistente anche a Berlino, dove – mentre la Spd condivide con la Merkel il delirio del rigore spacciato per virtù – è la destra liberale di “Alternativa per la Germania” a mettere in discussione l’euro come sistema ingiusto, fallimentare e anche pericoloso, vista l’ondata di risentimento anti-tedesco che sta suscitando nel resto del continente.
La sinistra italiana, capace di imporre una sterzata popolare alla Costituzione materiale del paese, era quella guidata da Enrico Berlinguer e da personalità d’altri tempi come Sandro Pertini, in grado di parlare alla nazione, e come
Gino Giugni, l’architetto democratico dello Statuto dei Lavoratori, che portò anche in fabbrica la democrazia nata dalla Resistenza antifascista.
Con l’inaudita rielezione di Napolitano al Quirinale sembra terminare un lungo equivoco, coltivato dallo strano regime bipolare (ma in realtà bipartisan) insediatosi dopo Tangentopoli con la promessa di riscattare il paese dal cancro della corruzione: distratta dai meritati applausi ai giudici di Mani Pulite, l’opinione pubblica non si era accorta che – lontano dai riflettori – il Trattato di Maastricht rappresentava l’inizio della fine della democrazia parlamentare e quindi della libertà. Era una cessione semi-clandestina della sovranità nazionale, concessa senza validazione popolare e senza neppure la contropartita democratica di un governo federale europeo. I risultati arrivano oggi e si chiamano catastrofe dell’economia, pareggio di bilancio e massacro sociale, manovre lacrime e sangue imposte da “ministri della paura” di ieri, di oggi e di domani.
Giuliano Amato, ricorda Franco Fracassi nel libro-inchiesta “G8 Gate”, fu il premier che, un anno prima della mattanza di Genova, fece pestare a sangue i disoccupati che protestavano a Napoli: per la prima volta, osserva Fracassi, alla polizia antisommossa di Gianni De Gennaro fu ordinato di non lasciare vie di fuga ai manifestanti, trasformando la piazza in una trappola.
Dieci anni di letargo, dopo la sanguinosa liquidazione del movimento No-Global e l’infarto democratico mondiale dell’11 Settembre, hanno incubato i fronti più atroci di quella che Giulietto Chiesa annunciò col suo vero nome, la Guerra Infinita.
Poi il crac della Lehman, gli Indignados, Occupy Wall Street.
In Italia, nonostante la sordità non casuale del Pd, parla una lingua internazionale la resistenza civile della valle di Susa contro l’assurda violenza di una “grande opera inutile” come il Tav Torino-Lione.
Nel fatidico 2011, l’anno del luttuoso avvento di Monti & Fornero, l’Italia sembrava essersi svegliata dal sonno: il clamoroso plebiscito democratico dei referendum per i beni comuni portava la firma, tra gli altri, di Stefano Rodotà. Ancora una volta, il Palazzo ha votato contro la volontà popolare, sfidandola. Ma oggi – a partire dalla rivolta di Vendola e dei militanti del Pd – i rottami del centrosinistra non potranno più ingannare l’opinione pubblica ricorrendo ai vecchi alibi, ora che sembrano apprestarsi a consegnare definitivamente il paese al super-potere straniero che lo sta sbranando.
Giorgio Cattaneo - 21/04/2013
http://www.libreidee.org
Opposizione alla monarchia elettiva
Quando un Presidente della Repubblica
che dura sette anni viene rieletto per altri sette, siamo in un sistema
più simile all'antica monarchia elettiva polacca che a quello delineato
dalla nostra Costituzione.
Quando questo stesso Presidente ha di fatto governato per quasi un anno e mezzo attraverso un Presidente del Consiglio da lui nominato senatore a vita, che ha ricevuto la fiducia delle Camere sotto la pressione incostituzionale dello spread; siamo in un sistema più simile alle repubbliche presidenziali che a quella parlamentare costituzionale.
Quando questo Presidente nomina una commissione di saggi che prepara un programma che probabilmente sarà adottato dal nuovo governo di emanazione presidenziale, al cui sostegno nessuna delle forze che lo hanno rieletto potrà ovviamente sottrarsi, questo somiglia ad una repubblica presidenziale senza neanche il voto del popolo. (...)
Poche storie, sono usciti dalla Costituzione Repubblicana e bisogna prenderne atto.
Le prossime lotte contro le politiche di austerità e contro il massacro sociale saranno anche contro il Presidente Giorgio Napolitano.
Non facciano gli ipocriti, è questo ciò che hanno voluto e fatto.
G. Cremaschi - 20/04/2013
Quando questo stesso Presidente ha di fatto governato per quasi un anno e mezzo attraverso un Presidente del Consiglio da lui nominato senatore a vita, che ha ricevuto la fiducia delle Camere sotto la pressione incostituzionale dello spread; siamo in un sistema più simile alle repubbliche presidenziali che a quella parlamentare costituzionale.
Quando questo Presidente nomina una commissione di saggi che prepara un programma che probabilmente sarà adottato dal nuovo governo di emanazione presidenziale, al cui sostegno nessuna delle forze che lo hanno rieletto potrà ovviamente sottrarsi, questo somiglia ad una repubblica presidenziale senza neanche il voto del popolo. (...)
Quando tutto questo avviene nel quadro
di un accordo, frutto della disperazione ma non per questo meno
sostanziale, tra i partiti che si sono alternati a governare in questi
venti anni, usare la parola regime non è certo un errore. Inciucio è
solo la sua definizione gergale.
Quando
questo regime a sua volta è espressione di una sovranità totalmente
limitata dal pareggio di bilancio costituzionale, dal fiscal compact,
dalla Troika e da tutti i trattati liberisti europei, per cui gran parte
delle decisioni economiche vanno in automatico, come ha affermato
Draghi, tutto questo con una vera democrazia ha ben pochi rapporti. La
forma della nostra democrazia è forse salva, ma la sostanza no.
E
che la democrazia costituzionale sia oramai un simulacro lo dimostrerà
ancora di più il futuro. Infatti quando il prossimo governo di
emanazione presidenziale continuerà le politiche di austerità ,
l'opposizione ad esso sarà inevitabilmente e oggettivamente opposizione
al Presidente della Repubblica.
D'altra
parte questo è ciò che hanno voluto, non solo subìto, PD e PDL.
Che al
momento buono hanno deciso ancora una volta di stare assieme. Come hanno
fatto quando hanno portato la pensione a settanta anni, cancellato
l'articolo 18, imposto l'Imu.
PD e
PDL sono oramai parte integrante della oligarchia politico economica
del paese, oligarchia che al momento buono decide e basta.
Poche storie, sono usciti dalla Costituzione Repubblicana e bisogna prenderne atto.
Le prossime lotte contro le politiche di austerità e contro il massacro sociale saranno anche contro il Presidente Giorgio Napolitano.
Non facciano gli ipocriti, è questo ciò che hanno voluto e fatto.
G. Cremaschi - 20/04/2013
Rete28aprile
giovedì 18 aprile 2013
Sergio Bellavita sul Patto Sociale e una lettera sul blog di Grillo
La strada comune e discorde di Landini e Camusso verso il patto sociale
La fase di incertezza e paralisi che sembrava prevalere dopo lo choc elettorale si è in realtà rapidamente risolta con un'accelerazione verso un nuovo patto sociale. Non era scontato che fosse questa la direzione. Lo tsunami politico di febbraio rendeva oggettivamente più complicata l'operazione in corso da mesi per l'adesione formale della Cgil al modello neocorporativo voluto da Cisl,PD e padronato. Un'operazione che faceva fulcro attorno all'ipotesi Bersani presidente del consiglio, un rinnovato collateralismo con un Governo a guida PD e quella legislazione di sostegno indispensabile per sopravvivere ad un sindacato che abbandona il modello democratico e vertenziale affermatosi negli anni settanta. (...) Eppure, nonostante proprio il voto abbia dimostrato l'esistenza di uno spazio vasto di malessere, di rabbia che ha punito e umiliato con il voto chi ha praticato e sostenuto l'austerità e il rigore, uno spazio su cui e con cui agire per riaprire la partita sociale dopo la cocente sconfitta subita con la legislazione del governo Monti che ha cancellato l'art.18 e le pensioni da lavoro, la Cgil ha deciso di proseguire, anche senza (per adesso...) il governo collaterale, sulla strada del patto sociale. La Cgil poteva in sostanza rompere con il palazzo o condividerne la sua crisi. Ha scelto di stare con il palazzo, dimostrando, una volta di più, il pesante grado di subordinazione al PD. La ragione di questa scelta non va ricercata tuttavia nell'esito del voto, né nella drammatica congiuntura economica che falcidia ogni giorno salari,occupazione, aziende. Essa è semplicemente la conseguenza di un'adesione sostanziale a tutte le scelte di Governi e padronato che pure a parole si sono contrastate. Da almeno vent'anni a questa parte si sono assunte cioè tutte le compatibilità e le subordinazioni alla propria autonoma iniziativa a difesa di lavoratori e pensionati: quelle del sistema paese, dell'impresa, del mercato, dell'Europa. Persino le violente scelte del governo Monti su diritti e pensioni non hanno indotto la maggioranza dei gruppi dirigenti a dichiarare battaglia per tentare di impedire che il nostro sistema sociale diventasse, come è purtroppo accaduto, uno dei più brutali di quell'Unione Europea per la cui salvezza ci viene chiesto di sacrificare tutto.
La drammatica crisi di progettualità e rappresentanza è ciò che davvero unisce i gruppi dirigenti del centrosinistra politico e quelli della Cgil, il centrosinistra sociale. Il centrosinistra politico ha bisogno di un centrosinistra sociale che accompagni le dure politiche d'austerità ed il centrosinistra sociale ha bisogno di riconquistare quella legittimazione formale d'organizzazione nel sistema corporativo di relazioni, sia con Confindustria che con Cisl e Uil, persa con la scomparsa della concertazione.
La sconfitta delle elezioni politiche del PD è in fondo l'altra faccia della sconfitta sociale della Cgil.
La Confindustria è anch'essa parte di questa crisi. I pesanti colpi di Marchionne e il depauperamento progressivo del sistema industriale hanno costretto i dirigenti della Confindustria ad accettare un sistema che ridimensiona fortemente il ruolo politico e istituzionale della rappresentanza di un padronato che sempre più pensa, anche per l'inconsistenza dell'iniziativa sindacale, che si possa fare a meno di un'organizzazione onerosa e inefficiente. E' così urgente per Confindustria produrre risultati concreti per le imprese associate.
La stessa Fiom dopo aver abbracciato l'accordo del 28 giugno e abbandonata ogni ipotesi conflittuale contro il modello neocorporativo è estremamente interessata a quanto accade sul terreno interconfederale nei rapporti con Confindustria, Cisl e Uil. E' evidente che a quel livello si definisce quali saranno i termini del rientro della categoria nel sistema nascente, non dimentichiamolo, frutto degli accordi separati. Lo scontro Landini Camusso è quindi legato al prezzo che la Fiom dovrà pagare per rientrare. Non a caso la segreteria nazionale Fiom cerca di trovare un accordo di categoria con Fim e Uilm prima che si chiuda il cappio di un'intesa confederale che potrebbe essere pesantissima. Per questo obbiettivo ha reso disponibile la reintroduzione del patto di solidarietà nelle elezioni Rsu che regala rappresentanza in via pattizia a Fim e Uilm a prescindere dal voto dei lavoratori, patto disdettato nel 2009 a fronte della rottura sulle politiche contrattuali. Sta lavorando a chiudere i contratti nazionali oggi aperti, accettando in sostanza il modello contrattuale separato del 2009. Così come nel rapporto con Federmeccanica lavora a ridurre giorno dopo giorno le distanze, sia attraverso la contrattazione nei grandi gruppi, sia con una contrattazione tesa a migliorare il contratto separato del 2012 senza metterne in discussione l'applicazione e la legittimità. Così tutta l'agenda sindacale, persino negli appuntamenti calendarizzati, è divenuta variabile dipendente delle diverse trattative in corso.
Tanti interessi divergenti e convergenti spingono tutti i soggetti verso il patto sociale della miseria, come giustamente è stato battezzato da Cremaschi.
Ma su cosa si gioca davvero l'ipotesi di patto sociale? Non certo sulla democrazia nei luoghi di lavoro. Non certo sulla difesa del Contratto nazionale dalle deroghe accolte con l'accordo del 28 giugno 2011. Non nella crescita dei salari, umiliati dalla contrattazione di restituzione in corso e da un modello contrattuale separato, ormai condiviso nella pratica, che impedisce qualsivoglia recupero del potere d'acquisto dei salari. Non certo contro la precarietà, ormai accettata come condizione generale. Non certo nel blocco dei licenziamenti, nemmeno chiesto dalla Cgil, davanti al perdurare di una crisi economica senza precedenti.
Il continuo scambiarsi messaggi in bottiglia dei diversi attori, attraverso gli interventi sulla stampa, le interviste, i convegni, quando non i ripetuti incontri formali ed informali e le ripetute trattative non trattative testimoniano proprio lo stato di estrema agitazione, confusione e fretta che circonda la discussione sul patto. Come sempre tutto è ammorbato dall'utilizzo della “terminologia dell'ovvietà e delle buone intenzioni”: meglio l'unità che il conflitto; chiudere i contenziosi e le rotture; solidarietà; affrontare la crisi;partecipazione; salvare fabbriche e occupazione ecc ecc.
L'obbiettivo dei padroni, del centrosinistra ma anche di parti rilevanti del centrodestra è in realtà uno solo: ricomprendere la Cgil e la Fiom nel nuovo modello neocorporativo.
Farlo in maniera organica in modo da impedire tentennamenti o ambiguità dei gruppi dirigenti sindacali nell'applicazione sociale e contrattuale delle politiche d'austerità. Il patto oggi metterebbe la parola fine su tutto il contenzioso che ha diviso la Cgil da Cisl e Uil e, parimenti, la Fiom da Fim e Uilm nell'ultimo decennio, comprese l'accettazione di tutta la legislazione contro il lavoro. Non è un caso che più nessuno parli di art.18 e pensioni. Con buona pace di chi, sull'art.18, negava la sconfitta e si affidava ad un referendum scomparso nel nulla.
C'è tuttavia, nelle pieghe di una discussione talvolta incomprensibile, il punto vero, l'obbiettivo strategico per il padronato Italiano. Tutto ruota intorno alla cosiddetta esigibilità degli accordi aziendali,un meccanismo per cui sindacati e lavoratori che sottoscrivono un'intesa non possono più scioperare per tutta la durata della stessa. Un meccanismo del tutto simile a quello imposto da Marchionne prima alla Chrysler negli Usa, poi in Fiat in Italia. Sarebbe la cancellazione cioè di ogni potere contrattuale dei lavoratori a favore di quello corporativo di organizzazione e quindi d'azienda, un altro passo del progressivo autoritarismo che sta riducendo giorno dopo giorno i livelli di democrazia sostanziale in questo paese, riscrivendo così la Costituzione e il diritto di sciopero. Non è accettabile lo scambio democrazia per esigibilità. Il voto dei lavoratori, importantissimo, non può essere la foglia di fico o peggio il viatico per la cancellazione del potere sindacale.
Un'ipotesi inquietante.
Su questo punto non v'è alcuna differenza tra i diversi soggetti, alcuna contrarietà emerge. Eppure tutti sanno che questo è un punto imprescindibile in un'ipotesi di patto sociale. Forse è proprio questa la ragione per cui non si solleva alcuna opposizione, in un modo o nell'altro a tutti serve il patto.
Non sappiamo quale potrà essere l'evoluzione della situazione sul terreno politico, aspetto non indifferente in questa vicenda. Il quadro è fortemente instabile e ogni scenario, compreso quello di un nuovo ricorso alle elezioni politiche non è da escludere. Tuttavia saranno solo i tempi a poter variare, non certo l'esito nefasto senza una mobilitazione sociale straordinaria che dica in maniera netta e inequivocabile No al patto sociale. A partire dalla costruzione di una piattaforma generale del mondo del lavoro e del non lavoro, unificante, capace di parlare davvero alla condizione concreta degli uomini e delle donne, non quella ipocrita rappresentata nei convegni che rimuove quanto è accaduto negli ultimi anni, che parte esattamente dai bisogni. I bisogni, quelli negati e quelli da ri-conquistare, devono tornare al centro dell'iniziativa. Questo è il compito a cui siamo chiamati, senza indugio alcuno.
S.Bellavita - 18/04/2013
Rete28Aprile
* * *
Choosy a chi?
"Mi sono laureata nel 2001 a 26 anni,ora ne ho 38.
In questi anni 29 tipologie di lavoro e 3 vertenze sindacali vinte.
L’elenco:
Commessa abbigliamento,
Commessa svendite,
Cameriera pub/ bar,
Vendita di penne per strada per Associazione,
Vendita Enciclopedie,
Baby sitter,
Dog sitter,
Maschera nei musei,
Commessa tabaccheria (Vertenza),
Commessa Stand di essenze egiziane ,
Data entry per società farmaceutica,
Operatrice telemarketing per agenzia immobiliare,
Funzionario in agenzia immobiliare,
Maschera al cinema,
Cassiera in vari cinema,
Segretaria di edizione per cortometraggi e fiction Tv ,
Sbobinatrice di interviste per tesi di dottorato ricerca,
Incartatrice di pacchetti di Natale in grande centro commerciale,
Scrutatrice in seggio elettorale,
Segretaria personale,
Addetta Cms (Informatica),
Executive producer per documentari di viaggio,
Segretaria per studio di mediazioni creditizie (Vertenza),
Lezioni private per ragazzi delle scuole medie ( o meglio superiori di I grado),
Segretaria in studio di amministrazione condomini,
Banconista pasticceria (Vertenza),
Receptionist albergo,
Formatrice aziendale,
Venditrice di servizi informatici.
Ho lasciato casa a 19 anni, in una città come Roma tutto lo stipendio lo usavo per pagare l’affitto e campare.
Niente vacanze, niente vestiti, niente lussi.
Non sono sposata non ho un figlio, non ho l’ipad, non sono mai andata a Parigi né a Madrid, ma sono una persona onesta.
11 anni di precariato tutte le mie ambizioni ed i miei sogni di gioventù sono andati i frantumi.
Sono un'idealista: credevo che lottando si potesse conquistare ciò che si voleva nella vita.
Non sono stata capace di costruirmi una posizione io, oppure tutto è iniziato molto prima? Legge Treu, legge Biagi.
Siamo stati messi nella condizione di avere un lavoro “Low cost”, scarso, mal retribuito e senza garanzie."
melania di bella
http://www.beppegrillo.it/2013/04/choosy_a_chi/index.html
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lunedì 15 aprile 2013
Pensioni, l’allarme di Mastrapasqua: se lo Stato non paga, Inps a rischio
Non ci sono solo i debiti verso le imprese. Per
molti anni, la pubblica amministrazione non ha versato i contributi
previdenziali all'Inpdap, con un buco stimato in 30 miliardi. Che ora,
dopo la fusione, si riversa sulla previdenza dei lavoratori del settore
privato. La lettera del presidente ai ministri Fornero e Grilli.
*
Guardate che l’Inps è messo male, fate qualcosa quanto prima. È il 22 marzo quando il presidente Antonio Mastrapasqua – certo, in termini più gentili – mette nero su bianco il concetto in una lettera ai ministri dell’Economia e del Lavoro, Vittorio Grilli e Elsa Fornero.
La storia è in parte nota, ma l’allarme del pluripoltronato capo
supremo del più grande ente previdenziale d’Europa testimonia che la
situazione è persino più grave del previsto, tanto più che sia
Mastrapasqua che Fornero hanno sempre sostenuto in questi mesi che i
conti dell’Inps non destano alcuna preoccupazione.
*
Invece, il
nostro comincia la sua missiva – di cui Il Fatto quotidiano è in
possesso – riportando alcuni passaggi della relazione della Corte dei Conti sul bilancio preventivo 2012 in cui si sostiene quanto segue: l’inglobamento di Inpdap ed Enpals
(rispettivamente l’ente che si occupa degli statali, in perdita per
miliardi, e quello che serve i lavoratori dello spettacolo) sta
affossando i conti dell’Inps: “Il patrimonio netto… è sufficiente a
sostenere una perdita per non oltre tre esercizi” (fino al 2015,
per capirci) e il governo continua a tagliare i trasferimenti; se le
amministrazioni dello Stato rallentano ancora un po’ i pagamenti avremo
“ulteriori problemi di liquidità con incidenza sulla stessa correntezza (sic) delle prestazioni”. Tradotto: rischiamo a breve di non pagare le pensioni in tempo.
Conclude Mastrapasqua: “Minori trasferimenti, riduzione dell’avanzo
patrimoniale, strutturale contrazione delle entrate contributive della
gestione pubblica (ex Inpdap)” stanno mettendo a rischio “la più grande
operazione di razionalizzazione del sistema previdenziale pubblico”.
Volendo,
si può tradurre l’allarme del presidente Inps nei numeri impietosi – e
per di più destinati a peggiorare – del bilancio di previsione 2013
approvato a fine febbraio dal Consiglio di indirizzo e vigilanza (Civ)
dell’Inps: 10,7 miliardi il disavanzo di competenza; 23,7 miliardi il disavanzo patrimoniale complessivo dell’ex Inpdap;
un patrimonio netto sceso dai 41 miliardi del 2011 ai 15,4 previsti per
quest’anno; 265,8 miliardi le prestazioni previdenziali da erogare
contro un incasso in contributi stimato in 213,7 miliardi (ovviamente al
netto delle compensazioni statali). Numeri che, peraltro, dovranno
essere rivisti in peggio visto che sono stati calcolati sul Def di
settembre, quello che prevedeva una recessione per il 2013 solo dello
0,2%, mentre su quello nuovo c’è scritto -1,3.
Com’è stato
possibile tutto questo? Le magagne più grosse, come si sarà capito, sono
nel bilancio dell’ex ente degli statali e sono dovute a una sorta di
paradosso italiano: la Pubblica amministrazione (tanto locale, quanto centrale) per lunghi anni – e in parte ancora adesso – non ha pagato i contributi previdenziali per i suoi dipendenti.
Oltre ai debiti fantasma nei confronti dei fornitori, insomma, ci sono
anche quelli dello Stato nei confronti di se stesso: stime non
confermate parlano di un buco di almeno trenta miliardi di euro che si riversa di anno in anno, man mano che i lavoratori vanno in pensione, dentro i bilanci ufficiali del nuovo SuperInps.
Roba
nota, che però ora interagisce con un nuovo contesto e sta creando una
voragine nel sistema previdenziale pubblico italiano. Ecco perché: gli
ultimi governi non si sono limitati a tagliare i trasferimenti agli
enti, ma tra blocco del turn over e prepensionamenti hanno tagliato
anche il numero dei dipendenti statali, cioè di chi – coi contributi –
paga l’assegno di chi è già in pensione. Per questo Mastrapasqua chiede a
Grilli e Fornero di darsi una mossa, ovvero nel suo linguaggio che “sia
opportunamente approfondita e valutata ogni più utile iniziativa”.
“Noi
ci eravamo opposti fin da subito all’integrazione tra i due maggiori
enti previdenziali”, dicono i sindacalisti dell’Usb, “perché è
funzionale al disegno di smantellamento del sistema previdenziale
pubblico, avviato con la riforma Dini del 1995 e perfezionato nel tempo, da ultimo con la riforma delle pensioni targata Monti-Fornero”.
Per l’Unione sindacale di base, che sta pensando a uno sciopero per
denunciare la situazione drammatica dell’ente previdenziale, la faccenda
è molto semplice: “La fusione Inps-Inpdap non è utile a rilanciare la
previdenza pubblica, ma ad affossarla: hanno semplicemente voluto
scaricare sull’Inps (che gestisce i contributi dei lavoratori del
privato, ndr) i debiti delle amministrazioni statali”. Chissà se
stavolta il ministro Fornero potrà ripetere la secca risposta che diede a
ottobre: “La fusione non determina nessun problema sui conti Inps. I
dati erano conosciuti”.
M Palombi - /14/04/2013 Da Il Fatto Quotidiano del 13 aprile 2013
mercoledì 10 aprile 2013
Disoccupazione, obiettivo raggiunto
Quante inutili lacrime di coccodrillo bagnano il solito conformismo della grande informazione.
Ora improvvisamente si scopre che non c’è un milione di posti di lavoro in più, ma in meno. E naturalmente la parola più adoperata è emergenza.
Ma quale emergenza, la disoccupazione di massa è un obiettivo perseguito da venti anni da parte delle classi dirigenti, con una accelerazione negli ultimi due così brutale che forse il risultato è andato oltre quanto ci si prefiggeva. Ma resta il fatto che la disoccupazione è prima di tutto voluta.
Nella ideologia liberista che ancora domina tutte le politiche economiche, soprattutto in Europa, la disoccupazione è lo strumento per riequilibrare il mercato del lavoro quando calano i profitti.
Le aziende riducono il personale e questo crea una disoccupazione che dopo un po’ produce concorrenza al ribasso sul prezzo della forza lavoro. Alla fine il salario precipita fino al punto in cui le imprese trovano conveniente ricominciare ad assumere e si riparte, c’è la famosa ripresa.
Questa politica è stata da noi attuata per venti anni, prima con la precarizzazione e poi, quando è scoppiata la grande crisi, con la disoccupazione di massa. E tutto questo ha prodotto il risultato voluto, il crollo dei salari e l’aumento degli orari di chi è rimasto al lavoro.
Pensiamo solo a Marchionne. Nulla del suo progetto sulla forza lavoro sarebbe stato realizzabile senza il ricatto della disoccupazione, ovviamente amplificato dalla minaccia: o così o all’estero. Anche questa minaccia infatti sarebbe meno efficace se ci fossero alternative immediate per chi rifiuta di accettare quel ricatto. Ma siccome chi perde il lavoro, soprattutto se di mezza età, deve mettersi in coda dietro ai più giovani nella vana ricerca di una occupazione precaria e neppure la trova, è chiaro che il ricatto funziona.
Così in questi anni di precarietà e disoccupazione di massa, chi ancora conserva un posto di lavoro degno di questo nome ha imparato ad autosfruttarsi. Del resto la solita informazione di regime spiega ogni giorno che gli occupati “normali” sono dei privilegiati. Hai già il lavoro, accontentati, non pretendere anche il salario!
Così alla fine l’obiettivo è stato raggiunto, là dove ancora si lavora la minaccia della disoccupazione di massa ha fatto sì che i dipendenti accettino condizioni di lavoro e salario che solo poco tempo fa sarebbero state ripudiate perché lesive della dignità.
Obiettivo raggiunto, ma non si riparte e la crisi si aggrava.
Perché queste politiche liberiste possono avere, a prezzo di terribili ingiustizie, qualche successo se l’economia complessiva è in fase di grande crescita. Ma se come ora l’economia nel mondo ristagna, cresce solo in Cina, India, etc e precipita verso il basso nell’occidente; allora il risultato non c’è. Come dopo la crisi del 29, le politiche liberiste aggiungono danno a danno.
In più l’Italia aggiunge a tutto questo una politica di pagamento del debito, che ci è imposta dall’Europa e che in tempi di crisi è totalmente insostenibile, come lo erano le riparazioni di guerra chieste alla Germania alla fine della prima guerra mondiale.
Come facciamo a pagare una rata annuale di 120 miliardi all’anno, tra interessi e riduzione del debito, come ci impone il fiscal compact?
Non possiamo, a meno di distruggere continuamente risorse che potrebbero essere dedicate alla ripresa. Per questo il calo dello spread si è fermato, non per il teatrino della politica, ma perché gli investitori sanno che l’Italia dalla crisi non esce.
Le misure di riduzione dei costi della politica sono giuste sul piano della morale pubblica, ma sul piano economico il loro effetto è zero.
Il pagamento dei debiti pubblici alle imprese è giusto, ma al massimo impedisce ulteriori chiusure, non fa ripartire una economia ferma.
Così pure incentivare le assunzioni a tempo indeterminato può far assorbire qualche contratto precario particolarmente scandaloso, ma non aggiunge all’esistente nulla. Nessuna azienda assume se non ha nulla da fare in più di quello che già fa.
E allora? Allora bisogna abbandonare totalmente le politiche liberiste che continuano a fallire e a farci fallire. Per metterla in politica bisogna dire no a Berlusconi, ma anche a Ciampi, a Prodi e ovviamente a Monti.
Se davvero si vuol abbattere la disoccupazione di massa e considerarla, come fecero tutti i progressisti e gli antifascisti negli anni trenta, il primo nemico della democrazia, allora bisogna rovesciare il tavolo delle misure e dei convincimenti di questi venti anni.
Primo, ci vuole un grande intervento pubblico perché il mercato è fallito. Ci vogliono nazionalizzazioni e investimenti pubblici in opere necessarie davvero, abbandonando le varie TAV che producono lauti profitti, ma quasi zero lavoro.
Secondo bisogna bloccare i licenziamenti subito, imponendo alle multinazionali e alle grandi imprese una vera e propria tassa sociale per il lavoro. Se te ne vai paghi molto di più di quello che ti costa restare, questo deve imporre un potere politico con la schiena dritta.
Terzo bisogna ridurre qui e ora l’orario di lavoro nelle due modalità conosciute. L’abbassamento dell’età della pensione e la riduzione dell’orario settimanale.
Questo non crea nuovo lavoro, ma ridistribuisce quello che c’è in modo più giusto, soprattutto a favore dei giovani e degli esodati, e in prospettiva migliora la stessa produttività.
Quarto bisogna ridistribuire ricchezza, prima di tutto con il reddito ai disoccupati e poi con l’aumento delle retribuzioni e delle pensioni più basse.
Questo perché bisogna smetterla di pensare che l’economia riparta vendendo Ferrari e Armani ai benestanti e ai ricchi nel mondo. Siamo troppi in Italia per vivere solo di questo.
Naturalmente ci sono tante altre misure che andrebbero prese, ma qui ho voluto sottolineare quelle davvero di emergenza e di rottura con le politiche economiche che ci hanno portato a questo disastro.
So bene che queste scelte, che negli anni trenta sarebbero state definite come riformatrici, nulla hanno a che vedere con l’ideologia del riformismo liberista delle oligarchie che ci governano, in Italia e in Europa. Però quanto dobbiamo aspettare e pagare ancora, prima che si capisca che queste oligarchie ci stanno trascinando nel loro fallimento?
Facciamo della lotta alla disoccupazione di massa la priorità della politica, e se qualcuno ci risponde parlando di Europa rispondiamo come recentemente hanno fatto milioni di portoghesi: che si fotta la Troika.
Giorgio Cremaschi - 08/04/2013
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it
Ora improvvisamente si scopre che non c’è un milione di posti di lavoro in più, ma in meno. E naturalmente la parola più adoperata è emergenza.
Ma quale emergenza, la disoccupazione di massa è un obiettivo perseguito da venti anni da parte delle classi dirigenti, con una accelerazione negli ultimi due così brutale che forse il risultato è andato oltre quanto ci si prefiggeva. Ma resta il fatto che la disoccupazione è prima di tutto voluta.
Nella ideologia liberista che ancora domina tutte le politiche economiche, soprattutto in Europa, la disoccupazione è lo strumento per riequilibrare il mercato del lavoro quando calano i profitti.
Le aziende riducono il personale e questo crea una disoccupazione che dopo un po’ produce concorrenza al ribasso sul prezzo della forza lavoro. Alla fine il salario precipita fino al punto in cui le imprese trovano conveniente ricominciare ad assumere e si riparte, c’è la famosa ripresa.
Questa politica è stata da noi attuata per venti anni, prima con la precarizzazione e poi, quando è scoppiata la grande crisi, con la disoccupazione di massa. E tutto questo ha prodotto il risultato voluto, il crollo dei salari e l’aumento degli orari di chi è rimasto al lavoro.
Pensiamo solo a Marchionne. Nulla del suo progetto sulla forza lavoro sarebbe stato realizzabile senza il ricatto della disoccupazione, ovviamente amplificato dalla minaccia: o così o all’estero. Anche questa minaccia infatti sarebbe meno efficace se ci fossero alternative immediate per chi rifiuta di accettare quel ricatto. Ma siccome chi perde il lavoro, soprattutto se di mezza età, deve mettersi in coda dietro ai più giovani nella vana ricerca di una occupazione precaria e neppure la trova, è chiaro che il ricatto funziona.
Così in questi anni di precarietà e disoccupazione di massa, chi ancora conserva un posto di lavoro degno di questo nome ha imparato ad autosfruttarsi. Del resto la solita informazione di regime spiega ogni giorno che gli occupati “normali” sono dei privilegiati. Hai già il lavoro, accontentati, non pretendere anche il salario!
Così alla fine l’obiettivo è stato raggiunto, là dove ancora si lavora la minaccia della disoccupazione di massa ha fatto sì che i dipendenti accettino condizioni di lavoro e salario che solo poco tempo fa sarebbero state ripudiate perché lesive della dignità.
Obiettivo raggiunto, ma non si riparte e la crisi si aggrava.
Perché queste politiche liberiste possono avere, a prezzo di terribili ingiustizie, qualche successo se l’economia complessiva è in fase di grande crescita. Ma se come ora l’economia nel mondo ristagna, cresce solo in Cina, India, etc e precipita verso il basso nell’occidente; allora il risultato non c’è. Come dopo la crisi del 29, le politiche liberiste aggiungono danno a danno.
In più l’Italia aggiunge a tutto questo una politica di pagamento del debito, che ci è imposta dall’Europa e che in tempi di crisi è totalmente insostenibile, come lo erano le riparazioni di guerra chieste alla Germania alla fine della prima guerra mondiale.
Come facciamo a pagare una rata annuale di 120 miliardi all’anno, tra interessi e riduzione del debito, come ci impone il fiscal compact?
Non possiamo, a meno di distruggere continuamente risorse che potrebbero essere dedicate alla ripresa. Per questo il calo dello spread si è fermato, non per il teatrino della politica, ma perché gli investitori sanno che l’Italia dalla crisi non esce.
Le misure di riduzione dei costi della politica sono giuste sul piano della morale pubblica, ma sul piano economico il loro effetto è zero.
Il pagamento dei debiti pubblici alle imprese è giusto, ma al massimo impedisce ulteriori chiusure, non fa ripartire una economia ferma.
Così pure incentivare le assunzioni a tempo indeterminato può far assorbire qualche contratto precario particolarmente scandaloso, ma non aggiunge all’esistente nulla. Nessuna azienda assume se non ha nulla da fare in più di quello che già fa.
E allora? Allora bisogna abbandonare totalmente le politiche liberiste che continuano a fallire e a farci fallire. Per metterla in politica bisogna dire no a Berlusconi, ma anche a Ciampi, a Prodi e ovviamente a Monti.
Se davvero si vuol abbattere la disoccupazione di massa e considerarla, come fecero tutti i progressisti e gli antifascisti negli anni trenta, il primo nemico della democrazia, allora bisogna rovesciare il tavolo delle misure e dei convincimenti di questi venti anni.
Primo, ci vuole un grande intervento pubblico perché il mercato è fallito. Ci vogliono nazionalizzazioni e investimenti pubblici in opere necessarie davvero, abbandonando le varie TAV che producono lauti profitti, ma quasi zero lavoro.
Secondo bisogna bloccare i licenziamenti subito, imponendo alle multinazionali e alle grandi imprese una vera e propria tassa sociale per il lavoro. Se te ne vai paghi molto di più di quello che ti costa restare, questo deve imporre un potere politico con la schiena dritta.
Terzo bisogna ridurre qui e ora l’orario di lavoro nelle due modalità conosciute. L’abbassamento dell’età della pensione e la riduzione dell’orario settimanale.
Questo non crea nuovo lavoro, ma ridistribuisce quello che c’è in modo più giusto, soprattutto a favore dei giovani e degli esodati, e in prospettiva migliora la stessa produttività.
Quarto bisogna ridistribuire ricchezza, prima di tutto con il reddito ai disoccupati e poi con l’aumento delle retribuzioni e delle pensioni più basse.
Questo perché bisogna smetterla di pensare che l’economia riparta vendendo Ferrari e Armani ai benestanti e ai ricchi nel mondo. Siamo troppi in Italia per vivere solo di questo.
Naturalmente ci sono tante altre misure che andrebbero prese, ma qui ho voluto sottolineare quelle davvero di emergenza e di rottura con le politiche economiche che ci hanno portato a questo disastro.
So bene che queste scelte, che negli anni trenta sarebbero state definite come riformatrici, nulla hanno a che vedere con l’ideologia del riformismo liberista delle oligarchie che ci governano, in Italia e in Europa. Però quanto dobbiamo aspettare e pagare ancora, prima che si capisca che queste oligarchie ci stanno trascinando nel loro fallimento?
Facciamo della lotta alla disoccupazione di massa la priorità della politica, e se qualcuno ci risponde parlando di Europa rispondiamo come recentemente hanno fatto milioni di portoghesi: che si fotta la Troika.
Giorgio Cremaschi - 08/04/2013
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martedì 9 aprile 2013
Niente lacrime per la Thatcher
Il
modo migliore per onorarla? «Privatizziamo il suo funerale.
Lo mettiamo sul mercato e accettiamo l'offerta più economica.
È quello che avrebbe voluto». (Ken Loach)
Niente lacrime per la Thatcher: fu un nemico stupido e crudele
Che mielosa ipocrisia in tante parole di commiato che si leggono ora che la Iron lady britannica è morta: «Fu importante, ha segnato la storia europea». Certo, come no, anche Hitler e Stalin l’hanno segnata, la storia europea, anche Gengis Khan e Nerone, e allora?
La Thatcher è stato un completo fallimento proprio riguardo quello che era il suo mandato: frenare il progressivo declino dell’industria e del ruolo della Gran Bretagna nel mondo. Sul primo non c’è controversia possibile: l’industria britannica è praticamente scomparsa, divorata dalle privatizzazioni e dalla vendita dei suoi asset più importanti e di marchi storici, e sostanzialmente è diventata una piazza finanziaria; che ha trovato il suo impulso maggiore, peraltro, non nella Thatcher stessa ma in Tony Blair che oggi candidamente confessa di essersi «ispirato molto» alle sue riforme, cioè all’aver inflitto gli ultimi colpi al welfare.
La Gran Bretagna è una nazione al collasso, tenuta in piedi da multimiliardari arabi e dai nuovi oligarchi russi che la comprano pezzo a pezzo per quello che per loro sono pochi spiccioli. Dopo la Thatcher, è definitivamente diventata una provincia dell’impero.
Sul ruolo della Gran Bretagna nel mondo non c’è granché da rilevare se non una subordinazione alle politiche americane e la diffidenza quando non l’ostilità nei confronti dell’Europa. A meno di non voler credere che il figlio Mark fosse ispirato dalla madre quando fu arrestato per aver tentato di organizzare un colpo di stato nella Guinea Equatoriale.
Questo è il lascito della Thatcher, che si ritrova ancora negli atteggiamenti, nelle politiche e nelle prospettive dell’attuale primo ministro Cameron.
La Thatcher fu un’accesa nazionalista, convinta che bisognasse tornare ai tempi di Dickens, quando probabilmente era vero quello che lei sosteneva, cioè che «non esiste la società, ma solo gli individui»; era ossessionata dalla lotta al comunismo, in questo condividendo l’ideologia dell’Impero del Male di Reagan, e quella del marito Denis che dopo un acceso dibattito televisivo si scagliò contro i produttori affermando che sua moglie era stata «incastrata dai fottuti culattoni e comunisti della BBC».
Nazionalismo e anticomunismo: lo si ritrovano nell’ostinazione contro lo sciopero dei minatori, che lasciò la Gran Bretagna a pezzi, nella crudeltà contro i prigionieri dell’Ira che morivano uno dietro l’altro in sciopero della fame, nell’ordine di affondare l’incrociatore Belgrano nelle acque delle Falklands Malvinas provocando centinaia di morti quando non era necessario e vitale [ripetendo in piccolo quello che fu fatto con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, a guerra già vinta], nella poll tax, la più odiosa delle tasse che si potessero immaginare, nella visita cordiale a Pinochet.
Nazionalismo e anticomunismo: sono proprio le idee piccolo borghesi di una «figlia del droghiere», una visione piccina eppure radicata in fette di società. La tragedia è stata quella che queste fette di società hanno governato per più di dieci anni, influenzando l’Europa tutta.
La storia della Gran Bretagna e l’influenza esercitata dal pensiero politico inglese è molto più importante e luminosa di questa parentesi stupida e crudele.
Che per fortuna oggi si chiude definitivamente.
L.Caminiti - Gli Altri Online - 08/04/2013
http://www.glialtrionline.it
E' un drammatico documentario, questo di Ken Loach.
Racconta lo sciopero dei minatori britannici del 1984, durante il quale il grande capitale internazionale fece leva sul governo conservatore di Margaret Thatcher per scatenare una crudele campagna di violenza e odio contro la classe operaia d’Oltremanica. Il film presenta i minatori e le loro esperienze familiari raccontate attraverso canzoni, poesie e altre forme d’arte.
per la frase di K.Loach e video
fonte : http://www.megachip.info
Lo mettiamo sul mercato e accettiamo l'offerta più economica.
È quello che avrebbe voluto». (Ken Loach)
Niente lacrime per la Thatcher: fu un nemico stupido e crudele
Che mielosa ipocrisia in tante parole di commiato che si leggono ora che la Iron lady britannica è morta: «Fu importante, ha segnato la storia europea». Certo, come no, anche Hitler e Stalin l’hanno segnata, la storia europea, anche Gengis Khan e Nerone, e allora?
La Thatcher è stato un completo fallimento proprio riguardo quello che era il suo mandato: frenare il progressivo declino dell’industria e del ruolo della Gran Bretagna nel mondo. Sul primo non c’è controversia possibile: l’industria britannica è praticamente scomparsa, divorata dalle privatizzazioni e dalla vendita dei suoi asset più importanti e di marchi storici, e sostanzialmente è diventata una piazza finanziaria; che ha trovato il suo impulso maggiore, peraltro, non nella Thatcher stessa ma in Tony Blair che oggi candidamente confessa di essersi «ispirato molto» alle sue riforme, cioè all’aver inflitto gli ultimi colpi al welfare.
La Gran Bretagna è una nazione al collasso, tenuta in piedi da multimiliardari arabi e dai nuovi oligarchi russi che la comprano pezzo a pezzo per quello che per loro sono pochi spiccioli. Dopo la Thatcher, è definitivamente diventata una provincia dell’impero.
Sul ruolo della Gran Bretagna nel mondo non c’è granché da rilevare se non una subordinazione alle politiche americane e la diffidenza quando non l’ostilità nei confronti dell’Europa. A meno di non voler credere che il figlio Mark fosse ispirato dalla madre quando fu arrestato per aver tentato di organizzare un colpo di stato nella Guinea Equatoriale.
Questo è il lascito della Thatcher, che si ritrova ancora negli atteggiamenti, nelle politiche e nelle prospettive dell’attuale primo ministro Cameron.
La Thatcher fu un’accesa nazionalista, convinta che bisognasse tornare ai tempi di Dickens, quando probabilmente era vero quello che lei sosteneva, cioè che «non esiste la società, ma solo gli individui»; era ossessionata dalla lotta al comunismo, in questo condividendo l’ideologia dell’Impero del Male di Reagan, e quella del marito Denis che dopo un acceso dibattito televisivo si scagliò contro i produttori affermando che sua moglie era stata «incastrata dai fottuti culattoni e comunisti della BBC».
Nazionalismo e anticomunismo: lo si ritrovano nell’ostinazione contro lo sciopero dei minatori, che lasciò la Gran Bretagna a pezzi, nella crudeltà contro i prigionieri dell’Ira che morivano uno dietro l’altro in sciopero della fame, nell’ordine di affondare l’incrociatore Belgrano nelle acque delle Falklands Malvinas provocando centinaia di morti quando non era necessario e vitale [ripetendo in piccolo quello che fu fatto con le bombe di Hiroshima e Nagasaki, a guerra già vinta], nella poll tax, la più odiosa delle tasse che si potessero immaginare, nella visita cordiale a Pinochet.
Nazionalismo e anticomunismo: sono proprio le idee piccolo borghesi di una «figlia del droghiere», una visione piccina eppure radicata in fette di società. La tragedia è stata quella che queste fette di società hanno governato per più di dieci anni, influenzando l’Europa tutta.
La storia della Gran Bretagna e l’influenza esercitata dal pensiero politico inglese è molto più importante e luminosa di questa parentesi stupida e crudele.
Che per fortuna oggi si chiude definitivamente.
L.Caminiti - Gli Altri Online - 08/04/2013
http://www.glialtrionline.it
VIDEO:
Which Side Are You On (1984)
E' un drammatico documentario, questo di Ken Loach.
Racconta lo sciopero dei minatori britannici del 1984, durante il quale il grande capitale internazionale fece leva sul governo conservatore di Margaret Thatcher per scatenare una crudele campagna di violenza e odio contro la classe operaia d’Oltremanica. Il film presenta i minatori e le loro esperienze familiari raccontate attraverso canzoni, poesie e altre forme d’arte.
per la frase di K.Loach e video
fonte : http://www.megachip.info
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mercato
domenica 7 aprile 2013
La proprietà privata come limite per lo sviluppo. Il caso Google
D.Barontini - 07/04/2013
http://www.contropiano.org
* * * * * * *
Krugman: Google Economics, ovvero il futuro dei servizi basati sul web
di Paul Krugman
La decisione di Google di chiudere il servizio Google Reader ha lasciato di stucco parecchie persone di mia conoscenza e ha scatenato un grosso dibattito sul futuro dei servizi basati sul web. L'analisi più interessante, secondo me, l'ha fatta Ryan Avent sul The Economist, in un recente articolo intitolato Google's Google Problem, dove sostiene che Google fornisce un'infrastruttura pubblica di fondamentale importanza, ma sembra non avere interesse alla sua manutenzione.
Ho cercato di ragionare sulla faccenda in termini di microeconomia più o meno standard, ed ecco quello che è venuto fuori.
Per cominciare, un concetto consolidato, anche se non frequentemente citato, è che, anche nel mercato più normale che ci sia, un monopolista con costi fissi elevati e una capacità limitata di operare una discriminazione dei prezzi fra i clienti può non riuscire a realizzare profitti dalla fornitura di un bene, perfino quando i guadagni potenziali per il consumatore superano i costi di produzione. Sostanzialmente, se il monopolista cerca di imporre un prezzo corrispondente al valore che attribuisce al bene chi ne fa un utilizzo intenso, non attirerà, in numero sufficiente a coprire i costi fissi, chi ne fa un utilizzo a bassa intensità; se chiederà un prezzo basso per attirare chi ne fa un uso a bassa intensità, non attirerà in misura sufficiente l'eccedenza di utilizzatori ad alta intensità, e anche in questo caso non riuscirà a coprire i costi fissi.
Quello che aggiunge Avent a questa discussione è uno sguardo sull'effetto delle esternalità di rete, dove il valore del bene per ogni singolo utilizzatore dipende dal modo in cui lo usano molti altri. In una certa misura il monopolista può trarre vantaggio da queste esternalità perché fanno salire il prezzo che la gente è disposta a pagare, e dunque non sono certo che influiscano sulla logica della fornitura o non fornitura del bene. Però comportano che, se il monopolista continua a non trovare conveniente fornire quel bene, le perdite per i consumatori sono molto maggiori che nella tradizionale analisi della determinazione dei prezzi in un monopolio.
Qual è la risposta, allora? Come scrive Avent, esempi storici con le stesse caratteristiche – come le reti di trasporto urbano – sono stati risolti attraverso la fornitura pubblica. Sembra difficile in questa fase immaginare le ricerche sul web e le funzioni collegate come servizi pubblici, ma è qui che conduce questa logica.
Per illustrare la mia tesi, guardate in questa pagina un caso ipotetico in cui la domanda viene sia da utilizzatori ad alta intensità, disposti a pagare profumatamente per un servizio, sia da utilizzatori a bassa intensità, disposti a pagare una cifra limitata. A causa dei costi fissi, il costo medio per utilizzatore diminuisce con l'aumentare del numero degli utilizzatori. Dal disegno si vede chiaramente che non c'è nessun prezzo a cui il monopolista è in grado di coprire i suoi costi, in questo caso: ma le perdite derivanti dal fornire il servizio a un prezzo tale da attirare gli utilizzatori a bassa intensità sarebbero molto inferiori ai guadagni derivanti dall'avere a disposizione il servizio per gli utilizzatori ad alta intensità.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
da IlSole24Ore - 5 aprile 2013
giovedì 4 aprile 2013
mercoledì 3 aprile 2013
Da Cipro all’Italia dei saggi
La troika controlla ormai direttamente i conti correnti a Cipro, ma
sembra che comunque un bel po’ di miliardi (dai 5 ai 10, secondo le
fonti) abbia preso il volo durante la dozzina di giorni di chiusura
totale, tramite le filiali londinesi e maltesi delle banche dell’isola.
Inoltre è assai difficili che gli ingenti capitali russi o britannici
rifugiati nelle anche cipriote siano liquidi e dunque aggredibili dal
prelievo forzoso. Non sono cose di poco conto, visto che la manovra sui
depositi sopra i 100 mila euro potrebbe fruttare molto meno del previsto
e mi piacerebbe anche capire come mai, per risolvere la crisi cipriota
che comporta un esborso di 17 miliardi, non si sia ricorsi al Mes che
dovrebbe svolgere proprio questa funzione e che nelle sue casse ha già
cifre 30 volte superiori a quelle necessarie . A cosa serve allora
questo istituto monstre?
La risposta più gettonata è che la rapina sui conti correnti sia stata fermamente voluta dalla Germania per evitare alle proprie banche le perdite dovute agli assets ciprioti che detengono: la cifra globale è infatti assai vicina a quella che si calcolava potesse derivare dal prelievo forzoso sui conti correnti. Ma l’adesione convinta se non entusiastica di altri Paesi al piano di confisca fa capire che c’è molto di più e che l’azione di Bruxelles nei confronti di Cipro può essere vista come un esperimento per modulare interventi simili anche altrove e in Paesi assai più grandi, valutare le resistenze nella popolazione e nel sistema politico, ” distribuire” la rapina in modo ottimale.
Il fatto è che i poteri finanziari non si accontentano più della ristrutturazione del debito pubblico, ma che pretendono per tirarsi fuori dalle peste delle loro stesse malefatte e per imporre politiche di impoverimento, di mettere mano al debito globale, cioè quello che deriva non solo dallo stato, ma anche dalle famiglie e dalle imprese. Se si fa questo conto globale si scopre che il debito totale in Europa è di 3,5 volte il valore del Pil, vale a dire il 350% del prodotto interno lordo, mentre secondo le teorie a cui fanno riferimento Bruxelles e Berlino il debito non è oggettivamente ripagabile se supera il 180% del Pil. Dunque occorre pescare a piene mani tra la popolazione, in qualche modo o attraverso patrimoniali o prelievi forzosi se questo fosse più conveniente dal punto di vista dei conti o della politica.
Qui c’è una tabella che ci dice molte cose, il rapporto tra i vari capitoli del debito, dove si situa il livello del 180% del pil e infine, in alto, nei circoletti bianchi i miliardi necessari per rientrare nel limite teorico per poter restituire il debito.
Cliccando sopra l’immagine la si può ingrandire e scoprire che La Germania dovrebbe metterci 523 miliardi ( su un pil di 3000), l’Italia 845 (su un pil di 1650) la Francia 727 (su un pil di circa 2000), la Spagna 998 su un Pil di 1400.
In realtà nella storia non si ha notizia di alcun Paese che abbia ripagato i suoi debiti o gran parte di essi, in ogni caso non senza conseguenze catastrofiche: Hitler fu in un certo senso una produzione degli Usa che in piena crisi economica e proprio per tentare di uscirne, richiesero alla Germania il pagamento dei debiti di guerra, sospeso al tempo dell’iperinflazione, causando un disoccupazione di tale livello da portare l’uomo con i baffetti dal 2,6% dei voti al 18, 3% in pochissimo tempo. Ma di certo la finanza non fa ragionamenti storici, vive di presente e soprattutto deve in qualche modo coprire i buchi di una immensa quantità di danaro fasullo e in questo caso gli stati da soli non possono mettere riparo alla situazione, nemmeno vendendo i beni e ipotecando il futuro. Così si deve pensare a una “raccolta forzosa” tra i privati.
Perciò fate attenzione a questa seconda tabella
che indica grosso modo quale percentuale di ricchezza si calcola bisognerebbe prendere direttamente dagli investimenti privati per riportare il debito complessivo al livello del 180 per cento. Come si vede si tratta dell’11% per la Germania, del 19% per la Francia, del 24% per l’Italia, del 56% per la Spagna e addirittura del del 113% per la Grecia defunta.
E’ del tutto evidente che occorrerebbe un profondo ripensamento dei teoremi economici che ci stanno buttando giù dal burrone e anche una capacità di invenzione teorica e sociale per saltar fuori da una situazione che comunque non ha vie di uscita se non il default, l’impoverimento estremo o la rivolta sociale. Il limite del 180 per cento del debito globale è solo teorico e già di per sè denuncia una impossibilità pratica. Del resto lo studio da cui sono tratte le tabelle sono della più grande società di consulenza finanziaria, la Boston Consulting Group, che ha intitolato la propria analisi “Ritorno alla Mesopotamia”? facendo direttamente riferimento all’uso tra Sumeri e Babilonesi ( ma in seguito anche tra Greci e Romani) di cancellare periodicamente i debiti.
Comunque sia è abbastanza chiaro che a Cipro si sta tentando il primo prelievo forzoso, approfittando della marginalità dell’isola e delle sue particolari condizioni geo politiche e finanziarie. E anche tutte le singolari manovre politiche e presidenziali che vediamo in Italia, con la cocciuta persistenza del governo Monti, non possono che inserirsi in questo quadro di rapina, nell’attesa di un condono, questa volta altrettanto forzoso e altrettanto inevitabile del debito che avverrà con il ritorno alle monete nazionali. Non senza però aver fatto tutto il bottino possibile.
fonte : http://ilsimplicissimus2.wordpress.com - 02/04/2013
La risposta più gettonata è che la rapina sui conti correnti sia stata fermamente voluta dalla Germania per evitare alle proprie banche le perdite dovute agli assets ciprioti che detengono: la cifra globale è infatti assai vicina a quella che si calcolava potesse derivare dal prelievo forzoso sui conti correnti. Ma l’adesione convinta se non entusiastica di altri Paesi al piano di confisca fa capire che c’è molto di più e che l’azione di Bruxelles nei confronti di Cipro può essere vista come un esperimento per modulare interventi simili anche altrove e in Paesi assai più grandi, valutare le resistenze nella popolazione e nel sistema politico, ” distribuire” la rapina in modo ottimale.
Il fatto è che i poteri finanziari non si accontentano più della ristrutturazione del debito pubblico, ma che pretendono per tirarsi fuori dalle peste delle loro stesse malefatte e per imporre politiche di impoverimento, di mettere mano al debito globale, cioè quello che deriva non solo dallo stato, ma anche dalle famiglie e dalle imprese. Se si fa questo conto globale si scopre che il debito totale in Europa è di 3,5 volte il valore del Pil, vale a dire il 350% del prodotto interno lordo, mentre secondo le teorie a cui fanno riferimento Bruxelles e Berlino il debito non è oggettivamente ripagabile se supera il 180% del Pil. Dunque occorre pescare a piene mani tra la popolazione, in qualche modo o attraverso patrimoniali o prelievi forzosi se questo fosse più conveniente dal punto di vista dei conti o della politica.
Qui c’è una tabella che ci dice molte cose, il rapporto tra i vari capitoli del debito, dove si situa il livello del 180% del pil e infine, in alto, nei circoletti bianchi i miliardi necessari per rientrare nel limite teorico per poter restituire il debito.
Cliccando sopra l’immagine la si può ingrandire e scoprire che La Germania dovrebbe metterci 523 miliardi ( su un pil di 3000), l’Italia 845 (su un pil di 1650) la Francia 727 (su un pil di circa 2000), la Spagna 998 su un Pil di 1400.
In realtà nella storia non si ha notizia di alcun Paese che abbia ripagato i suoi debiti o gran parte di essi, in ogni caso non senza conseguenze catastrofiche: Hitler fu in un certo senso una produzione degli Usa che in piena crisi economica e proprio per tentare di uscirne, richiesero alla Germania il pagamento dei debiti di guerra, sospeso al tempo dell’iperinflazione, causando un disoccupazione di tale livello da portare l’uomo con i baffetti dal 2,6% dei voti al 18, 3% in pochissimo tempo. Ma di certo la finanza non fa ragionamenti storici, vive di presente e soprattutto deve in qualche modo coprire i buchi di una immensa quantità di danaro fasullo e in questo caso gli stati da soli non possono mettere riparo alla situazione, nemmeno vendendo i beni e ipotecando il futuro. Così si deve pensare a una “raccolta forzosa” tra i privati.
Perciò fate attenzione a questa seconda tabella
che indica grosso modo quale percentuale di ricchezza si calcola bisognerebbe prendere direttamente dagli investimenti privati per riportare il debito complessivo al livello del 180 per cento. Come si vede si tratta dell’11% per la Germania, del 19% per la Francia, del 24% per l’Italia, del 56% per la Spagna e addirittura del del 113% per la Grecia defunta.
E’ del tutto evidente che occorrerebbe un profondo ripensamento dei teoremi economici che ci stanno buttando giù dal burrone e anche una capacità di invenzione teorica e sociale per saltar fuori da una situazione che comunque non ha vie di uscita se non il default, l’impoverimento estremo o la rivolta sociale. Il limite del 180 per cento del debito globale è solo teorico e già di per sè denuncia una impossibilità pratica. Del resto lo studio da cui sono tratte le tabelle sono della più grande società di consulenza finanziaria, la Boston Consulting Group, che ha intitolato la propria analisi “Ritorno alla Mesopotamia”? facendo direttamente riferimento all’uso tra Sumeri e Babilonesi ( ma in seguito anche tra Greci e Romani) di cancellare periodicamente i debiti.
Comunque sia è abbastanza chiaro che a Cipro si sta tentando il primo prelievo forzoso, approfittando della marginalità dell’isola e delle sue particolari condizioni geo politiche e finanziarie. E anche tutte le singolari manovre politiche e presidenziali che vediamo in Italia, con la cocciuta persistenza del governo Monti, non possono che inserirsi in questo quadro di rapina, nell’attesa di un condono, questa volta altrettanto forzoso e altrettanto inevitabile del debito che avverrà con il ritorno alle monete nazionali. Non senza però aver fatto tutto il bottino possibile.
fonte : http://ilsimplicissimus2.wordpress.com - 02/04/2013
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