Lo
 chiamano, chissà perché, “patto” di stabilità interno: danziamo con lui
 dal 1997, anno dell’accordo europeo di Amsterdam, ma ci riesce 
difficile inquadrarlo bene, perché le regole non si stabilizzano mai, e 
il loro continuo mutare getta nella costernazione amministrazioni locali
 di destra, di sinistra e di “sopra” (v. Parma). 
Ce
 l’ha imposto Bruxelles per uno scopo preciso: blindare i famigerati 
parametri di Maastricht ’92 (deficit annuo e debito pubblico non devono 
eccedere, rispettivamente, il 3 e il 60% del PIL [1]),
 autentici pilastri, insieme al totem della concorrenza, della 
consorteria di lobby che usurpa il nome di Unione Europea. L’Europa, o 
chi per lei, indica gli obiettivi, i singoli Stati forgiano gli 
strumenti per raggiungerli – alcuni, una volta per tutte; altri, come 
l’Italia, provando, sbagliando e riprovando.
L’unica
 certezza, per quanto riguarda il nostro Paese, è che, man mano che 
passa il tempo, il patto si incattivisce. L’ultima versione prescrive 
alle amministrazioni interessate (praticamente la totalità degli enti 
locali [2])
 l’ottenimento di un determinato saldo, da calcolare in termini di 
competenza mista. Che significa quest’astruseria? Che bisogna effettuare
 due sottrazioni, l’una di seguito all’altra: prima si fa la differenza 
tra accertamenti di entrata e impegni [3] –
 per quanto riguarda le spese correnti/di gestione -, poi, con 
riferimento agli investimenti, si sottraggono i pagamenti dalle 
riscossioni. I due risultati parziali diventano gli addendi di una 
somma, che darà il risparmio annuo di un comune o provincia: 
quest’ultimo, per essere conforme a legge (di stabilità), dovrà superare
 di una percentuale prefissata la media dei saldi degli esercizi 
precedenti.
In
 pratica, gli enti locali sono condannati a spendere sempre meno. Nulla 
osta, in teoria, ad un limitato aumento degli investimenti, nell’ipotesi
 in cui si riesca a comprimere efficacemente la spesa corrente. Detta 
spesa – essendo destinata al personale, alle scuole, allo svolgimento 
dei compiti fondamentali dell’ente – risulta però estremamente rigida [4];
 di conseguenza, lo spazio per nuove acquisizioni si assottiglia, e 
l’amministrazione, per rispettare il patto, si trova costretta a non 
pagare i creditori [5].
 Il paradosso è evidente: un comune ben amministrato, e con sufficienti 
soldi in cassa, rischia pesanti sanzioni - in pratica, l’asfissia -
 se si comporta con la buona fede e la diligenza che il codice civile 
richiede al debitore… e a spingerlo all’inadempimento è proprio quel 
soggetto che ha sancito l’obbligo generale di adempiere! Lo Stato, 
dunque, smentisce clamorosamente se stesso, ma a pagare lo scotto di 
questa “bizzarria” giuridica sono le imprese, i lavoratori e le 
comunità.
La situazione è assurda, ma gravissima: il garante degli accordi fra privati non si cura di quelli da lui sottoscritti (non è un unicum:
 si pensi alla vicenda degli esodati, vittime di un raggiro di stato), 
obbliga i soggetti suoi sottoposti ad infrangere la legge e, in ultima 
analisi, causa disoccupazione e fallimenti che sono occasionati non 
dalla crisi economico-finanziaria, ma da sue scelte discrezionali [6] - il tutto in nome di un “patto” che, non essendo oggetto di una vera contrattazione, è piuttosto un cappio messo al collo dei cittadini.
Esistono
 delle deroghe alla disciplina vigente, che però non sono suscettibili 
di interpretazione estensivo-analogica; fatto sta che l’Associazione dei
 comuni italiani (ANCI) si sta organizzando per la resistenza, e 
minaccia di sforare il patto 2013.
I 
sindaci che vediamo in televisione sono giustamente affranti, e hanno 
molte ragioni da far valere; certo, un po’ di timore devono avercelo 
anche loro. Il problema non è stabilire se le loro rivendicazioni siano 
giuridicamente ineccepibili (lo sono, e nel prosieguo spiegheremo il 
perché): si tratta piuttosto di verificare se il potere nazionale e 
quello europeo saranno disposti a riconoscere la necessità di cambiare 
rotta sul punto e, in caso negativo, se la magistratura dimostrerà 
quell’indipendenza che non sempre, in questi anni di crisi, è stato 
agevole intravvedere [7].
Da
 un punto di vista giuridico, il patto di stabilità (?) interno – almeno
 com’è concepito – fa acqua da tutte le parti. Se è vero che l’Italia è 
soggetta alla volontà della UE, altrettanto indiscutibile è l’asserto 
secondo cui il legislatore nazionale, in sede di recepimento di trattati
 e direttive, deve tener conto del complesso delle disposizioni vigenti.
 Ora, la direttiva 2011/7/UE [8], disciplinante tutte le transazioni commerciali, equipara espressamente i ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni a una “violazione contrattuale” (punto 12 delle premesse) e sancisce l’obbligo, per i debitori pubblici e privati, di pagare entro “trenta giornidi calendario dal ricevimento della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento (art. 4, co. 3)[9]”.
 Certo, l’articolo 12 dà facoltà agli Stati membri di escludere i 
contratti conclusi prima del 16 marzo 2013, ma il principio della 
tempestività di pagamento era già esplicitato nella precedente direttiva
 2000/35/UE, successivamente alla quale sono stati emanati regolamenti 
CE istitutivi del titolo esecutivo europeo (n. 805/2004) e del 
procedimento europeo d’ingiunzione (n. 1896/2006). 
Va sottolineato che 
entrambe le direttive menzionate hanno trovato attuazione con legge 
dello Stato [10], e che quindi ciascun creditore può liberamente agire in giudizio ed ottenere la condanna dell’amministrazione morosa [11].
 Un tanto implica che se l’amministratore versa il dovuto ai fornitori 
in spregio al patto risponderà del suo operato dinanzi alla Corte dei 
Conti; in caso contrario, sarà convenuto davanti al giudice civile per 
il risarcimento e, in aggiunta, dovrà rispondere alla stessa Corte dei 
Conti del danno erariale per gli interessi di mora… insomma: qualunque 
cosa faccia, sbaglia, e la colpa è dell’ordinamento!
Siamo dunque in presenza di un’antinomia [12], peraltro non irrisolvibile.
Ogni
 studente di giurisprudenza sa che la legge speciale deroga a quella 
generale – ma quale delle due norme è speciale rispetto all’altra? 
Difficile dirlo con certezza. Meno rischioso è sostenere che il 
perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario, demandato agli 
Stati nazionali, non può pregiudicare diritti sanciti a livello europeo:
 se il patto interno non li rispetta, va adeguato.
C’è un ulteriore argomento, che reputiamo decisivo. Come ci ricorda l’interprete [13],
 esiste un “orientamento, prevalente in dottrina e accolto dalla Corte 
costituzionale, volto ad ammettere la derogabilità da parte delle norme 
comunitarie delle norme costituzionali che non siano principi fondamentali della Costituzione.”
 Quali sono i principi fondamentali – e dunque intoccabili - della 
nostra Carta costituzionale? Sicuramente quelli contenuti negli articoli
 che vanno dall’uno al tredici [14],
 ma anche – a parer nostro – quelli che prevedono diritti fondamentali 
per l’individuo e la collettività (istruzione, sanità, libertà ecc.). 
Una norma europea che contraddicesse tali enunciati sarebbe 
irreparabilmente incostituzionale, e come tale andrebbe dichiarata 
illegittima dalla Consulta [15].
Il
 divieto di pagare i fornitori appare in insanabile contrasto – almeno –
 con l’articolo 1, che fonda la Repubblica sul lavoro, inteso come 
attività produttiva, senza distinzioni tra attività subordinata, 
imprenditoriale e professionale; con l’articolo 4, esplicativo del 
precedente, che impone allo Stato di promuovere “le condizioni che 
rendano effettivo questo diritto”; con l’articolo 3, in materia di 
eguaglianza sostanziale [16]; con l’articolo 5, che “riconosce e promuove le
 autonomie locali” (le quali vengono poste, dall’attuale patto, 
nell’assoluta impossibilità di “curare gli interessi e promuovere lo 
sviluppo della propria comunità [17]”); con l’articolo 41 (libertà di iniziativa privata) e con l’articolo 97, che prevede il “buon andamento dell’amministrazione”.
C’è
 di più: il mancato riferimento, in Costituzione, ad un obbligo dello 
Stato di comportarsi correttamente deriva dal fatto che la buona fede 
dell’autorità è condicio sine qua non dell’esistenza stessa di un
 ordinamento giuridico, oltre che della perdurante validità del patto 
sociale con cui i cittadini, titolari del potere sovrano, accettano 
liberamente di sottostare a delle regole in nome dell’interesse 
collettivo. Uno Stato inadempiente ai propri doveri essenziali perde 
qualsiasi legittimazione, e il suo potere può essere disconosciuto dai 
membri della comunità.
Senza arrivare, comunque, all’aperta ribellione, i sindaci potrebbero invocare lo stato di necessità o, meglio ancora, l’adempimento di un preciso dovere (quello di pagare i creditori dell’ente) che - secondo una norma penalistica [18] espressione di una regola generale – esclude l’antigiuridicità e, dunque, la punibilità del comportamento adottato.
In verità, in questi ultimi giorni, tanto la Commissione europea (per bocca del berlusconiano Tajani e dell’amerikano Olli
 Rehn) quanto il Governo in scadenza hanno dimostrato disponibilità a 
trattare; vedremo se, e in che misura, alle dichiarazioni seguiranno i 
fatti.
La
 vibrante protesta dei sindaci italiani e l’assai più clamorosa 
mobilitazione dei cittadini ciprioti sembrano poter conseguire risultati
 apprezzabili: non sappiamo come si concluderanno le due vicende, ma di 
giorno in giorno si rafforza in noi la convinzione che solo una 
massiccia pressione popolare, ben coordinata a livello sovranazionale, 
possa rappresentare un effettivo ostacolo per un ramificato sistema di 
potere che ambisce - scopertamente - a saccheggiare l’Europa.
Norberto Fragiacomo - 22/03/2013
fonte e riferimenti : qui 
 
 
 
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