lunedì 25 marzo 2013

Il cappio di stabilità

Cambia veste di continuo, come una sfacciata nobildonna, ma sotto le trine il corpo è avvizzito, sterile.
Lo chiamano, chissà perché, “patto” di stabilità interno: danziamo con lui dal 1997, anno dell’accordo europeo di Amsterdam, ma ci riesce difficile inquadrarlo bene, perché le regole non si stabilizzano mai, e il loro continuo mutare getta nella costernazione amministrazioni locali di destra, di sinistra e di “sopra” (v. Parma). 
 
Ce l’ha imposto Bruxelles per uno scopo preciso: blindare i famigerati parametri di Maastricht ’92 (deficit annuo e debito pubblico non devono eccedere, rispettivamente, il 3 e il 60% del PIL [1]), autentici pilastri, insieme al totem della concorrenza, della consorteria di lobby che usurpa il nome di Unione Europea. L’Europa, o chi per lei, indica gli obiettivi, i singoli Stati forgiano gli strumenti per raggiungerli – alcuni, una volta per tutte; altri, come l’Italia, provando, sbagliando e riprovando.

L’unica certezza, per quanto riguarda il nostro Paese, è che, man mano che passa il tempo, il patto si incattivisce. L’ultima versione prescrive alle amministrazioni interessate (praticamente la totalità degli enti locali [2]) l’ottenimento di un determinato saldo, da calcolare in termini di competenza mista. Che significa quest’astruseria? Che bisogna effettuare due sottrazioni, l’una di seguito all’altra: prima si fa la differenza tra accertamenti di entrata e impegni [3] – per quanto riguarda le spese correnti/di gestione -, poi, con riferimento agli investimenti, si sottraggono i pagamenti dalle riscossioni. I due risultati parziali diventano gli addendi di una somma, che darà il risparmio annuo di un comune o provincia: quest’ultimo, per essere conforme a legge (di stabilità), dovrà superare di una percentuale prefissata la media dei saldi degli esercizi precedenti.
 
In pratica, gli enti locali sono condannati a spendere sempre meno. Nulla osta, in teoria, ad un limitato aumento degli investimenti, nell’ipotesi in cui si riesca a comprimere efficacemente la spesa corrente. Detta spesa – essendo destinata al personale, alle scuole, allo svolgimento dei compiti fondamentali dell’ente – risulta però estremamente rigida [4]; di conseguenza, lo spazio per nuove acquisizioni si assottiglia, e l’amministrazione, per rispettare il patto, si trova costretta a non pagare i creditori [5]. Il paradosso è evidente: un comune ben amministrato, e con sufficienti soldi in cassa, rischia pesanti sanzioni - in pratica, l’asfissia - se si comporta con la buona fede e la diligenza che il codice civile richiede al debitore… e a spingerlo all’inadempimento è proprio quel soggetto che ha sancito l’obbligo generale di adempiere! Lo Stato, dunque, smentisce clamorosamente se stesso, ma a pagare lo scotto di questa “bizzarria” giuridica sono le imprese, i lavoratori e le comunità.
La situazione è assurda, ma gravissima: il garante degli accordi fra privati non si cura di quelli da lui sottoscritti (non è un unicum: si pensi alla vicenda degli esodati, vittime di un raggiro di stato), obbliga i soggetti suoi sottoposti ad infrangere la legge e, in ultima analisi, causa disoccupazione e fallimenti che sono occasionati non dalla crisi economico-finanziaria, ma da sue scelte discrezionali [6] - il tutto in nome di un “patto” che, non essendo oggetto di una vera contrattazione, è piuttosto un cappio messo al collo dei cittadini.
 
Esistono delle deroghe alla disciplina vigente, che però non sono suscettibili di interpretazione estensivo-analogica; fatto sta che l’Associazione dei comuni italiani (ANCI) si sta organizzando per la resistenza, e minaccia di sforare il patto 2013.
I sindaci che vediamo in televisione sono giustamente affranti, e hanno molte ragioni da far valere; certo, un po’ di timore devono avercelo anche loro. Il problema non è stabilire se le loro rivendicazioni siano giuridicamente ineccepibili (lo sono, e nel prosieguo spiegheremo il perché): si tratta piuttosto di verificare se il potere nazionale e quello europeo saranno disposti a riconoscere la necessità di cambiare rotta sul punto e, in caso negativo, se la magistratura dimostrerà quell’indipendenza che non sempre, in questi anni di crisi, è stato agevole intravvedere [7].
 
Da un punto di vista giuridico, il patto di stabilità (?) interno – almeno com’è concepito – fa acqua da tutte le parti. Se è vero che l’Italia è soggetta alla volontà della UE, altrettanto indiscutibile è l’asserto secondo cui il legislatore nazionale, in sede di recepimento di trattati e direttive, deve tener conto del complesso delle disposizioni vigenti. Ora, la direttiva 2011/7/UE [8], disciplinante tutte le transazioni commerciali, equipara espressamente i ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni a una “violazione contrattuale” (punto 12 delle premesse) e sancisce l’obbligo, per i debitori pubblici e privati, di pagare entro “trenta giornidi calendario dal ricevimento della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento (art. 4, co. 3)[9]”. Certo, l’articolo 12 dà facoltà agli Stati membri di escludere i contratti conclusi prima del 16 marzo 2013, ma il principio della tempestività di pagamento era già esplicitato nella precedente direttiva 2000/35/UE, successivamente alla quale sono stati emanati regolamenti CE istitutivi del titolo esecutivo europeo (n. 805/2004) e del procedimento europeo d’ingiunzione (n. 1896/2006). 
Va sottolineato che entrambe le direttive menzionate hanno trovato attuazione con legge dello Stato [10], e che quindi ciascun creditore può liberamente agire in giudizio ed ottenere la condanna dell’amministrazione morosa [11]. Un tanto implica che se l’amministratore versa il dovuto ai fornitori in spregio al patto risponderà del suo operato dinanzi alla Corte dei Conti; in caso contrario, sarà convenuto davanti al giudice civile per il risarcimento e, in aggiunta, dovrà rispondere alla stessa Corte dei Conti del danno erariale per gli interessi di mora… insomma: qualunque cosa faccia, sbaglia, e la colpa è dell’ordinamento!
Siamo dunque in presenza di un’antinomia [12], peraltro non irrisolvibile.
 
Ogni studente di giurisprudenza sa che la legge speciale deroga a quella generale – ma quale delle due norme è speciale rispetto all’altra? Difficile dirlo con certezza. Meno rischioso è sostenere che il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario, demandato agli Stati nazionali, non può pregiudicare diritti sanciti a livello europeo: se il patto interno non li rispetta, va adeguato.
C’è un ulteriore argomento, che reputiamo decisivo. Come ci ricorda l’interprete [13], esiste un “orientamento, prevalente in dottrina e accolto dalla Corte costituzionale, volto ad ammettere la derogabilità da parte delle norme comunitarie delle norme costituzionali che non siano principi fondamentali della Costituzione.” Quali sono i principi fondamentali – e dunque intoccabili - della nostra Carta costituzionale? Sicuramente quelli contenuti negli articoli che vanno dall’uno al tredici [14], ma anche – a parer nostro – quelli che prevedono diritti fondamentali per l’individuo e la collettività (istruzione, sanità, libertà ecc.). Una norma europea che contraddicesse tali enunciati sarebbe irreparabilmente incostituzionale, e come tale andrebbe dichiarata illegittima dalla Consulta [15].
 
Il divieto di pagare i fornitori appare in insanabile contrasto – almeno – con l’articolo 1, che fonda la Repubblica sul lavoro, inteso come attività produttiva, senza distinzioni tra attività subordinata, imprenditoriale e professionale; con l’articolo 4, esplicativo del precedente, che impone allo Stato di promuovere “le condizioni che rendano effettivo questo diritto”; con l’articolo 3, in materia di eguaglianza sostanziale [16]; con l’articolo 5, che “riconosce e promuove le autonomie locali” (le quali vengono poste, dall’attuale patto, nell’assoluta impossibilità di “curare gli interessi e promuovere lo sviluppo della propria comunità [17]”); con l’articolo 41 (libertà di iniziativa privata) e con l’articolo 97, che prevede il “buon andamento dell’amministrazione”.
 
C’è di più: il mancato riferimento, in Costituzione, ad un obbligo dello Stato di comportarsi correttamente deriva dal fatto che la buona fede dell’autorità è condicio sine qua non dell’esistenza stessa di un ordinamento giuridico, oltre che della perdurante validità del patto sociale con cui i cittadini, titolari del potere sovrano, accettano liberamente di sottostare a delle regole in nome dell’interesse collettivo. Uno Stato inadempiente ai propri doveri essenziali perde qualsiasi legittimazione, e il suo potere può essere disconosciuto dai membri della comunità.
Senza arrivare, comunque, all’aperta ribellione, i sindaci potrebbero invocare lo stato di necessità o, meglio ancora, l’adempimento di un preciso dovere (quello di pagare i creditori dell’ente) che - secondo una norma penalistica [18] espressione di una regola generale – esclude l’antigiuridicità e, dunque, la punibilità del comportamento adottato.
 
In verità, in questi ultimi giorni, tanto la Commissione europea (per bocca del berlusconiano Tajani e dell’amerikano Olli Rehn) quanto il Governo in scadenza hanno dimostrato disponibilità a trattare; vedremo se, e in che misura, alle dichiarazioni seguiranno i fatti.
La vibrante protesta dei sindaci italiani e l’assai più clamorosa mobilitazione dei cittadini ciprioti sembrano poter conseguire risultati apprezzabili: non sappiamo come si concluderanno le due vicende, ma di giorno in giorno si rafforza in noi la convinzione che solo una massiccia pressione popolare, ben coordinata a livello sovranazionale, possa rappresentare un effettivo ostacolo per un ramificato sistema di potere che ambisce - scopertamente - a saccheggiare l’Europa.
 
 
Norberto Fragiacomo - 22/03/2013
fonte e riferimenti : qui

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