Che Napolitano facesse i miracoli già lo sapevamo, e questa volta, per restare in contesto pasquale, resuscita i tecnici. Anzi no, ora si chiamano saggi. Saggissimi. Illuminati. Con una sapiente mossa da prestigiatore, l’uomo di fiducia dei mercati, il depositario dei desiderata di Mario Draghi,
Giorgio Napolitano, nel pomeriggio del sabato santo, compie “un inedito
tipo di esplorazione” e lo fa “in piena autonomia” (dopo la telefonata
del presidente della Bce). Dieci “saggi” bipartisan ricopriranno infatti
il ruolo di “facilitatori della situazione”
lavorando in due commissioni, una economica l’altra istituzionale,
incaricate di promuovere il dialogo dei partiti sui temi definiti più
urgenti, dalla riforma elettorale al mercato del lavoro.
L’uovo pasquale del Presidente non sorprende più di tanto.
Non potendo sciogliere le camere a sei mesi alla scadenza del
settennato, l’unico modo per portare il paese alle elezioni sarebbero
state le dimissioni anticipate del Presidente. Si sarebbe
trattato dell’atto istituzionalmente più corretto e democraticamente
logico, in verità. Ma avrebbe potuto Re Giorgio, da sempre garante di
quei particolari interessi delle oligarchie europee ma filo atlantiche,
andare in pensione lasciando il paese diviso in tre blocchi e senza un
governo in grado di assicurare la continuità con le politiche imposte
dalla famigerata “Troika”? Ovviamente no. I mercati “non avrebbero capito”.
Quindi,
essendo il Governo Monti “dimissionario ma mai sfiduciato”, può
tranquillamente continuare ad occuparsi dell’ “ordinaria
amministrazione”, mentre gli uomini del Presidente lavoreranno
ufficialmente per agevolare la comunicazione tra i principali
schieramenti che siedono al parlamento sui temi delle riforme
istituzionali e sulle urgenze economiche. Poco importa che
l’unico dato chiaro emerso dai risultati delle urne sia il maggioritario
rifiuto delle politiche d’austerità attuate dal governo montiano. Ci
teniamo comunque Mario Monti.
Si prova così a posticipare lo
spauracchio delle elezioni in attesa di congiunture politiche più
favorevoli alle classi dominanti.
La trovata del Presidente è già stata battezzata “modello olandese”
dagli esperti, tra cui Marco Galluzzo sul Corriere della Sera. Allora
deve proprio trattarsi di un diversivo da raffinato conoscitore della
Scienza Politica, penseranno i lettori più ingenui. Fortuna che
Napolitano ci sprovincializza. Suona davvero molto efficiente e nordico
questo “modello olandese”.
Teorizzato da Arend Lijphart con il nome di “democrazia consociativa”,
in contrapposizione con il modello Westminster, altro non è che una
forma di governo dove le élite si accordano per tirare avanti la
carretta e spartirsi i privilegi del potere in attesa di tempi migliori
in una società altamente frammentata. Così colui che incarna “la sola
fonte autorevole di decisioni libere e disinteressate per quanto possano
esserlo decisioni umane” (a parere di Ernesto Galli della Loggia), ha
dato prova di “fantasia politica” (secondo Stefano Folli) e di coraggio
istituzionale.
Non si tratta né più né meno che dell’ennesimo abuso di potere a cui ci ha abituato il “golpista” del Quirinale,
in verità. Unico neo scovato dai media mainstream: tra i nominati,
“tecnici”, parlamentari Pd, Pdl e Scelta Civica, oltreché un’immancabile
uomo Bankitalia, non figura nessun nome femminile.
Anche Susanna Camusso
non ha trovato nulla di più importante da appuntare alla scelta del
Presidente che la mancanza di nomi femminili. “Ho pensato: Viva le
donne!” è stata la considerazione a caldo del Segretario Cgil sul
proseguimento dell’esecutivo tecnico. Che in un’intervista al Sole 24
Ore ha precisato che le priorità
su cui attende risposte sono “quelle contenute nel piano lavoro della
Cgil, che convergono con quello indicate dal Sole 24 Ore”, quotidiano di
Confindustria (giusto per precisare ancora una volta qual è il ruolo del sindacato camussiano).
Il
Presidente Napolitano ha quindi provato in extremis a spianare la
strada al suo successore nonostante sia stato lasciato solo nel compito
di garantire la sottomissione del Paese ai voleri della Troika, come
ricordano tutti gli editoriali dei principali quotidiani di oggi,
megafoni di una grande borghesia nazionale delusa dall’inadeguatezza
dei partiti politici nazionali alle sfide della contemporaneità.
In prima linea si schiera Mario Calabresi
in un’editoriale su La Stampa che potrebbe benissimo sembrare il
manifesto di un partito rivoluzionario oppure il proclama d’indizione di
una crociata. “Capitani coraggiosi cercansi”, perché “l’Italia ha un
disperato bisogno di politica, nel senso migliore: capacità di
scegliere, di mediare, di risolvere, di rischiare e fare la differenza
nella vita delle persone. (...) Chi avrà il coraggio di scartare, di
uscire dagli schemi precostituiti e di indicare una strada nuova? (...)
Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza
senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio- è una barca
che anela al mare eppure lo teme.”
Tanta
poesia sta a significare una prosa molto meno romantica: Napolitano ha
fatto fino in fondo la sua parte, ora l’attuale classe politica si dia
una mossa per servire con più efficienza gli interessi del grande
capitale. Perché come ci ricorda Isabella Bufacchi dal Sole 24 Ore, sono finiti i tempi della sopportazione dei mercati e “questa
tranquillità, questa tolleranza, quest’indulgenza bonaria con la quale i
mercati hanno reagito allo scontro recente senza esclusione di colpi
tra Bersani, Berlusconi e Grillo è ora destinato a trasformarsi in un
nervosismo ruvido ed intransigente, l’Italia verrà seguita d’ora in
avanti senza distrazioni e senza accondiscendenza.”
“Basta Giochi”
apriva a caratteri cubitali il Sole 24 Ore di venerdì e negli stessi
toni ha proseguito in questi giorni. Insomma ora più che mai ad
attaccare i partiti politici e “la casta” inefficiente sono i grandi
potentati economici che fanno il verso ai “grillini”. È oltretutto
piuttosto preoccupante che, tanto il capogruppo al Senato della
principale opposizione emersa in Italia, il Movimento 5 Stelle, Vito Crimi, quanto il filosofo del diritto Paolo Becchi, collaboratore del blog di Beppe Grillo, siano stati più che ambigui sulla scelta di Napolitano.
Attendiamo presto l’arrivo di un vero tzunami che ponga fine per davvero ai giochi,
non solo a quelli della casta politica, ma anche a quelli dei banchieri
e delle loro politiche di austerità sulla pelle dei popoli, a quelli
del padronato italiano e dei giornalisti ad esso asserviti, ai giochi
dei sindacalisti complici che si indignano per tutto tranne che per gli
attacchi ai lavoratori che dovrebbero difendere.
Anna Lami - 31/03/2013
http://www.megachip.info/
domenica 31 marzo 2013
venerdì 29 marzo 2013
USA : finti sindacati, vero sfruttamento
La drastica riduzione del numero degli iscritti ai sindacati negli
Stati Uniti è il prodotto di una prolungata, sistematica persecuzione
di coloro che osano organizzarsi per tutelare i propri interessi:
persecuzione da parte delle imprese, ma anche di una serie di leggi
federali e statali che limitano in vari modi il diritto di coalizione.
Sono pochi i sociologi e gli economisti che non riconoscano che questa guerra contro i sindacati è stata una delle cause fondamentali del peggioramento dei livelli di reddito e delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subordinate americane.
In particolare, la perdita dello scudo sindacale ha fatto sì che le imprese abbiano potuto “alleggerirsi” di una cospicua quota di dipendenti assunti a tempo pieno – i soli che possano godere di copertura sanitaria e pensionistica in un Paese tradizionalmente avaro nel concedere diritti sociali – mentre le esigenze di organico venivano sempre più risolte attraverso contratti a tempo determinato, generando un esercito di oltre venti milioni di freelance.
Non stupisce quindi che, come racconta un lungo servizio del “New York Times”, l’unica organizzazione sindacale che possa oggi vantare un rapido aumento degli associati (200.000, metà dei quali nello Stato di New York) sia la Freelancers Union, la cui fondatrice nonché leader indiscussa si chiama Sara Horowitz.
Come è riuscita questa impavida eroina della riscossa sindacale a fronteggiare l’arroganza padronale, riconquistando il diritto dei lavoratori a contrattare salari e altri diritti? La risposta è che, in realtà, non c’è affatto riuscita, nel senso che come spiega lei stessa rispondendo alle domande dell’autore dell’articolo, la Freelancers Union non è un sindacato nel senso classico del termine, bensì qualcosa di simile alle vecchie gilde professionali, un organismo che non ha – né rivendica – alcun potere di contrattazione con i padroni, ma serve esclusivamente a raccogliere fondi per finanziare l’erogazione di servizi – primo fra tutti l’assistenza sanitaria – che resterebbero altrimenti fuori portata per i lavoratori “autonomi” (le virgolette sono d’obbligo, visto che stiamo parlando di rapporti di lavoro dipendente mascherati: basti ricordare che il 58% degli associati alla Freelancers Union guadagna meno di 50.000 dollari l’anno, mentre il 29% resta sotto i 25.000).
Ovviamente non c’è nulla di male nel richiamare in vita quelle forme di mutuo soccorso che, nella vecchia Europa, furono i primi embrioni di organizzazione della nascente classe operaia. Non ci si può che rallegrare che, in questo modo, sia possibile allentare la morsa della crisi sulle fasce di lavoratori più esposte agli effetti devastanti della “flessibilizzazione” imposta dal capitale.
Rallegra meno il fatto che la Horowitz, assieme all’autore dell’articolo e ad altri commentatori, concepiscano questa impresa non come il primo passo verso una restaurazione del diritto di contrattazione, bensì come un’alternativa esplicitamente “mercatista” all’idea stessa di organizzazione sindacale: la Freelancers Union si concepisce a tutti gli effetti come un’azienda (sia pure non profit, anche se il reddito annuale dichiarato dalla Horowitz è decisamente meno magro di quello dei suoi associati) nata per erogare servizi non ai membri di una classe sociale bensì a soggetti individuali che vengono rappresentati come “imprenditori di sé stessi”.
Finché questo equivoco non verrà spazzato via (non solo in America, ma in tutti i Paesi dove simili pratiche di camuffamento del rapporto sociale di sfruttamento sono in continua espansione) non ci saranno speranze di una vera ripresa del potere dei lavoratori che, per definizione, non può essere che collettivo.
Carlo Formenti - 25/03/2012
fonte : Micromega
Sono pochi i sociologi e gli economisti che non riconoscano che questa guerra contro i sindacati è stata una delle cause fondamentali del peggioramento dei livelli di reddito e delle condizioni di vita e di lavoro delle classi subordinate americane.
In particolare, la perdita dello scudo sindacale ha fatto sì che le imprese abbiano potuto “alleggerirsi” di una cospicua quota di dipendenti assunti a tempo pieno – i soli che possano godere di copertura sanitaria e pensionistica in un Paese tradizionalmente avaro nel concedere diritti sociali – mentre le esigenze di organico venivano sempre più risolte attraverso contratti a tempo determinato, generando un esercito di oltre venti milioni di freelance.
Non stupisce quindi che, come racconta un lungo servizio del “New York Times”, l’unica organizzazione sindacale che possa oggi vantare un rapido aumento degli associati (200.000, metà dei quali nello Stato di New York) sia la Freelancers Union, la cui fondatrice nonché leader indiscussa si chiama Sara Horowitz.
Come è riuscita questa impavida eroina della riscossa sindacale a fronteggiare l’arroganza padronale, riconquistando il diritto dei lavoratori a contrattare salari e altri diritti? La risposta è che, in realtà, non c’è affatto riuscita, nel senso che come spiega lei stessa rispondendo alle domande dell’autore dell’articolo, la Freelancers Union non è un sindacato nel senso classico del termine, bensì qualcosa di simile alle vecchie gilde professionali, un organismo che non ha – né rivendica – alcun potere di contrattazione con i padroni, ma serve esclusivamente a raccogliere fondi per finanziare l’erogazione di servizi – primo fra tutti l’assistenza sanitaria – che resterebbero altrimenti fuori portata per i lavoratori “autonomi” (le virgolette sono d’obbligo, visto che stiamo parlando di rapporti di lavoro dipendente mascherati: basti ricordare che il 58% degli associati alla Freelancers Union guadagna meno di 50.000 dollari l’anno, mentre il 29% resta sotto i 25.000).
Ovviamente non c’è nulla di male nel richiamare in vita quelle forme di mutuo soccorso che, nella vecchia Europa, furono i primi embrioni di organizzazione della nascente classe operaia. Non ci si può che rallegrare che, in questo modo, sia possibile allentare la morsa della crisi sulle fasce di lavoratori più esposte agli effetti devastanti della “flessibilizzazione” imposta dal capitale.
Rallegra meno il fatto che la Horowitz, assieme all’autore dell’articolo e ad altri commentatori, concepiscano questa impresa non come il primo passo verso una restaurazione del diritto di contrattazione, bensì come un’alternativa esplicitamente “mercatista” all’idea stessa di organizzazione sindacale: la Freelancers Union si concepisce a tutti gli effetti come un’azienda (sia pure non profit, anche se il reddito annuale dichiarato dalla Horowitz è decisamente meno magro di quello dei suoi associati) nata per erogare servizi non ai membri di una classe sociale bensì a soggetti individuali che vengono rappresentati come “imprenditori di sé stessi”.
Finché questo equivoco non verrà spazzato via (non solo in America, ma in tutti i Paesi dove simili pratiche di camuffamento del rapporto sociale di sfruttamento sono in continua espansione) non ci saranno speranze di una vera ripresa del potere dei lavoratori che, per definizione, non può essere che collettivo.
Carlo Formenti - 25/03/2012
fonte : Micromega
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lunedì 25 marzo 2013
Il cappio di stabilità
Cambia veste di continuo, come una sfacciata nobildonna, ma sotto le trine il corpo è avvizzito, sterile.
Lo
chiamano, chissà perché, “patto” di stabilità interno: danziamo con lui
dal 1997, anno dell’accordo europeo di Amsterdam, ma ci riesce
difficile inquadrarlo bene, perché le regole non si stabilizzano mai, e
il loro continuo mutare getta nella costernazione amministrazioni locali
di destra, di sinistra e di “sopra” (v. Parma).
Ce
l’ha imposto Bruxelles per uno scopo preciso: blindare i famigerati
parametri di Maastricht ’92 (deficit annuo e debito pubblico non devono
eccedere, rispettivamente, il 3 e il 60% del PIL [1]),
autentici pilastri, insieme al totem della concorrenza, della
consorteria di lobby che usurpa il nome di Unione Europea. L’Europa, o
chi per lei, indica gli obiettivi, i singoli Stati forgiano gli
strumenti per raggiungerli – alcuni, una volta per tutte; altri, come
l’Italia, provando, sbagliando e riprovando.
L’unica
certezza, per quanto riguarda il nostro Paese, è che, man mano che
passa il tempo, il patto si incattivisce. L’ultima versione prescrive
alle amministrazioni interessate (praticamente la totalità degli enti
locali [2])
l’ottenimento di un determinato saldo, da calcolare in termini di
competenza mista. Che significa quest’astruseria? Che bisogna effettuare
due sottrazioni, l’una di seguito all’altra: prima si fa la differenza
tra accertamenti di entrata e impegni [3] –
per quanto riguarda le spese correnti/di gestione -, poi, con
riferimento agli investimenti, si sottraggono i pagamenti dalle
riscossioni. I due risultati parziali diventano gli addendi di una
somma, che darà il risparmio annuo di un comune o provincia:
quest’ultimo, per essere conforme a legge (di stabilità), dovrà superare
di una percentuale prefissata la media dei saldi degli esercizi
precedenti.
In
pratica, gli enti locali sono condannati a spendere sempre meno. Nulla
osta, in teoria, ad un limitato aumento degli investimenti, nell’ipotesi
in cui si riesca a comprimere efficacemente la spesa corrente. Detta
spesa – essendo destinata al personale, alle scuole, allo svolgimento
dei compiti fondamentali dell’ente – risulta però estremamente rigida [4];
di conseguenza, lo spazio per nuove acquisizioni si assottiglia, e
l’amministrazione, per rispettare il patto, si trova costretta a non
pagare i creditori [5].
Il paradosso è evidente: un comune ben amministrato, e con sufficienti
soldi in cassa, rischia pesanti sanzioni - in pratica, l’asfissia -
se si comporta con la buona fede e la diligenza che il codice civile
richiede al debitore… e a spingerlo all’inadempimento è proprio quel
soggetto che ha sancito l’obbligo generale di adempiere! Lo Stato,
dunque, smentisce clamorosamente se stesso, ma a pagare lo scotto di
questa “bizzarria” giuridica sono le imprese, i lavoratori e le
comunità.
La situazione è assurda, ma gravissima: il garante degli accordi fra privati non si cura di quelli da lui sottoscritti (non è un unicum:
si pensi alla vicenda degli esodati, vittime di un raggiro di stato),
obbliga i soggetti suoi sottoposti ad infrangere la legge e, in ultima
analisi, causa disoccupazione e fallimenti che sono occasionati non
dalla crisi economico-finanziaria, ma da sue scelte discrezionali [6] - il tutto in nome di un “patto” che, non essendo oggetto di una vera contrattazione, è piuttosto un cappio messo al collo dei cittadini.
Esistono
delle deroghe alla disciplina vigente, che però non sono suscettibili
di interpretazione estensivo-analogica; fatto sta che l’Associazione dei
comuni italiani (ANCI) si sta organizzando per la resistenza, e
minaccia di sforare il patto 2013.
I
sindaci che vediamo in televisione sono giustamente affranti, e hanno
molte ragioni da far valere; certo, un po’ di timore devono avercelo
anche loro. Il problema non è stabilire se le loro rivendicazioni siano
giuridicamente ineccepibili (lo sono, e nel prosieguo spiegheremo il
perché): si tratta piuttosto di verificare se il potere nazionale e
quello europeo saranno disposti a riconoscere la necessità di cambiare
rotta sul punto e, in caso negativo, se la magistratura dimostrerà
quell’indipendenza che non sempre, in questi anni di crisi, è stato
agevole intravvedere [7].
Da
un punto di vista giuridico, il patto di stabilità (?) interno – almeno
com’è concepito – fa acqua da tutte le parti. Se è vero che l’Italia è
soggetta alla volontà della UE, altrettanto indiscutibile è l’asserto
secondo cui il legislatore nazionale, in sede di recepimento di trattati
e direttive, deve tener conto del complesso delle disposizioni vigenti.
Ora, la direttiva 2011/7/UE [8], disciplinante tutte le transazioni commerciali, equipara espressamente i ritardi di pagamento da parte delle pubbliche amministrazioni a una “violazione contrattuale” (punto 12 delle premesse) e sancisce l’obbligo, per i debitori pubblici e privati, di pagare entro “trenta giornidi calendario dal ricevimento della fattura o di una richiesta equivalente di pagamento (art. 4, co. 3)[9]”.
Certo, l’articolo 12 dà facoltà agli Stati membri di escludere i
contratti conclusi prima del 16 marzo 2013, ma il principio della
tempestività di pagamento era già esplicitato nella precedente direttiva
2000/35/UE, successivamente alla quale sono stati emanati regolamenti
CE istitutivi del titolo esecutivo europeo (n. 805/2004) e del
procedimento europeo d’ingiunzione (n. 1896/2006).
Va sottolineato che
entrambe le direttive menzionate hanno trovato attuazione con legge
dello Stato [10], e che quindi ciascun creditore può liberamente agire in giudizio ed ottenere la condanna dell’amministrazione morosa [11].
Un tanto implica che se l’amministratore versa il dovuto ai fornitori
in spregio al patto risponderà del suo operato dinanzi alla Corte dei
Conti; in caso contrario, sarà convenuto davanti al giudice civile per
il risarcimento e, in aggiunta, dovrà rispondere alla stessa Corte dei
Conti del danno erariale per gli interessi di mora… insomma: qualunque
cosa faccia, sbaglia, e la colpa è dell’ordinamento!
Siamo dunque in presenza di un’antinomia [12], peraltro non irrisolvibile.
Ogni
studente di giurisprudenza sa che la legge speciale deroga a quella
generale – ma quale delle due norme è speciale rispetto all’altra?
Difficile dirlo con certezza. Meno rischioso è sostenere che il
perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario, demandato agli
Stati nazionali, non può pregiudicare diritti sanciti a livello europeo:
se il patto interno non li rispetta, va adeguato.
C’è un ulteriore argomento, che reputiamo decisivo. Come ci ricorda l’interprete [13],
esiste un “orientamento, prevalente in dottrina e accolto dalla Corte
costituzionale, volto ad ammettere la derogabilità da parte delle norme
comunitarie delle norme costituzionali che non siano principi fondamentali della Costituzione.”
Quali sono i principi fondamentali – e dunque intoccabili - della
nostra Carta costituzionale? Sicuramente quelli contenuti negli articoli
che vanno dall’uno al tredici [14],
ma anche – a parer nostro – quelli che prevedono diritti fondamentali
per l’individuo e la collettività (istruzione, sanità, libertà ecc.).
Una norma europea che contraddicesse tali enunciati sarebbe
irreparabilmente incostituzionale, e come tale andrebbe dichiarata
illegittima dalla Consulta [15].
Il
divieto di pagare i fornitori appare in insanabile contrasto – almeno –
con l’articolo 1, che fonda la Repubblica sul lavoro, inteso come
attività produttiva, senza distinzioni tra attività subordinata,
imprenditoriale e professionale; con l’articolo 4, esplicativo del
precedente, che impone allo Stato di promuovere “le condizioni che
rendano effettivo questo diritto”; con l’articolo 3, in materia di
eguaglianza sostanziale [16]; con l’articolo 5, che “riconosce e promuove le
autonomie locali” (le quali vengono poste, dall’attuale patto,
nell’assoluta impossibilità di “curare gli interessi e promuovere lo
sviluppo della propria comunità [17]”); con l’articolo 41 (libertà di iniziativa privata) e con l’articolo 97, che prevede il “buon andamento dell’amministrazione”.
C’è
di più: il mancato riferimento, in Costituzione, ad un obbligo dello
Stato di comportarsi correttamente deriva dal fatto che la buona fede
dell’autorità è condicio sine qua non dell’esistenza stessa di un
ordinamento giuridico, oltre che della perdurante validità del patto
sociale con cui i cittadini, titolari del potere sovrano, accettano
liberamente di sottostare a delle regole in nome dell’interesse
collettivo. Uno Stato inadempiente ai propri doveri essenziali perde
qualsiasi legittimazione, e il suo potere può essere disconosciuto dai
membri della comunità.
Senza arrivare, comunque, all’aperta ribellione, i sindaci potrebbero invocare lo stato di necessità o, meglio ancora, l’adempimento di un preciso dovere (quello di pagare i creditori dell’ente) che - secondo una norma penalistica [18] espressione di una regola generale – esclude l’antigiuridicità e, dunque, la punibilità del comportamento adottato.
In verità, in questi ultimi giorni, tanto la Commissione europea (per bocca del berlusconiano Tajani e dell’amerikano Olli
Rehn) quanto il Governo in scadenza hanno dimostrato disponibilità a
trattare; vedremo se, e in che misura, alle dichiarazioni seguiranno i
fatti.
La
vibrante protesta dei sindaci italiani e l’assai più clamorosa
mobilitazione dei cittadini ciprioti sembrano poter conseguire risultati
apprezzabili: non sappiamo come si concluderanno le due vicende, ma di
giorno in giorno si rafforza in noi la convinzione che solo una
massiccia pressione popolare, ben coordinata a livello sovranazionale,
possa rappresentare un effettivo ostacolo per un ramificato sistema di
potere che ambisce - scopertamente - a saccheggiare l’Europa.
Norberto Fragiacomo - 22/03/2013
fonte e riferimenti : qui
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venerdì 22 marzo 2013
Lavoro: la punizione di Dio
Oggi, mentre camminavo, ho pensato al mercato.
Ma non ai mercati classici, quelli pieni di box, mercanzia di ogni
tipo, alimenti, pesci e venditori che urlano, cantano, ammiccano e
offrono. No, il mercato mio, quello virtuale, quello che in verità non
esiste perché altro non è che un insieme di relazioni tra soggetti: il mercato del lavoro.
Sarà perché è il mio mestiere, sarà perché al singolare è uno fra i più evocati, camminando mi è venuto in testa. È strano come il mercato del lavoro, contrariamente a quelli declinati al plurale, “i mercati”, non abbia particolari desideri: a oggi non ho sentito mai dire “il mercato del lavoro vuole…” o “il mercato del lavoro ci chiede…
” Lui, che dev’essere il fratello povero o sfortunato della altrimenti opulenta famiglia dei mercati, ha piuttosto “necessità di…”, “ha bisogno di…” Credo sia un po’ legato e imbolsito perché da molti anni la cura è sempre la stessa: stretching e iniezioni per aumentarne la flessibilità.
Io un’idea me la sono fatta, ma ammetto che pur potendomi fregiare del titolo di esperto, sempre meno ne capisco. O forse è la categoria di esperto a essere sopravvalutata oppure sono soltanto io a essere un cazzone.
Intanto, qualche puntino sulle “i” bisognerà pur metterlo: se abbiamo cento asini e ottanta carote sarà molto difficile che ogni asino abbia una carota. Credo che su questo possiamo concordare tutti, belli e brutti, piddini e grillini, maschi e femmine, destra e sinistra.
Quindi su cosa dovremmo concentrarci, sull’alleggerire l’asino per farlo arrivare prima alla carota oppure sull’aumentare le carote?
Perché la scelta non è indifferente. E visto che la strategia prevalente è stata quella di lavorare sull’asino, così che fosse più reattivo, più rapido, più leggero, più capace di affrontare le mutate condizioni, significa che noi viviamo in un sistema costruito per ottanta asini e che venti saranno sempre in esubero: se le carote saranno abbastanza grandi da generare scarti sufficienti bene, ma con carote rachitiche tipiche dei periodi di crisi pietà l’è morta…
C’è anche chi dice che se si vedono asini particolarmente reattivi, rapidi ecc. da fuori, dal resto del mondo inizieranno a tirarci carote oppure le carote cresceranno da sole, spontaneamente, ansiose di offrirsi agli asini. Oppure gli asini dovranno farsi “imprenditori di sé stessi” e inventarsela la carota.
Il mercato del lavoro è difficile da intrappolare in una metafora, asini e carote, i posti al cinema (occupati, non occupati, distrutti creati, comodi e scomodi, con spettatori che entrano e che escono), spiegano – come tutte le metafore in fondo – i meccanismi fino a un certo punto.
Intanto perché “il mercato del lavoro” non esiste, ma è un concetto teorico forse valido per l’analisi generale (l’insieme degli occupati, l’insieme dei disoccupati e via dicendo), per farsi un’idea di massimo, ma quasi inutile dal punto di vista operativo.
Contano “i mercati”: per esempio, se sono un idraulico…lasciamo perdere gli idraulici!
Se sono un insegnante entrerò in uno specifico mercato del lavoro che è quello dell’insegnamento, che ha le sue regole: concorsi, chiamate, domande a istituti pubblici e privati, competenze, acquisizione di competenze. E bisogna conoscerlo per potersi orientare, per avere qualche possibilità. E si sa pure quanti posti potranno essere disponibili, quanti quelli “fissi”, quanti quelli “mobili”.
Questo vale per quasi tutti i mestieri e le professioni, ciascuna ha un suo mercato. E in questo mercato vige un certo evoluzionismo: vince il più “adatto”, dove a volte il più adatto non è il più serio, il più bravo o il più preparato, ma quello con più relazioni, più “accozzato”, “il figlio di…” (non nel senso della professione della mamma, di genitori abbienti e ben introdotti, of course).
Resta la sensazione che in tutto questo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato. Mi occupo di mercato del lavoro dai tempi della mia tesi di laurea e la situazione è peggiorata. Questo nonostante leggi, pacchetti di leggi, riforme e controriforme. Ma forse avevano ragione Aris Accornero e Fabrizio Carmignani nel libro che mi convinse a studiare questo argomento e a fare una tesi di laurea sulla disoccupazione:
è un’attenzione fatta esclusivamente di parole!
Quando iniziai a occuparmi di mercato del lavoro i soggetti più deboli erano le giovani donne del Sud Italia con bassa scolarizzazione e oggi mi sa che è la stessa cosa. La differenza è che ieri la disoccupazione era un passaggio probabile in una traiettoria di vita: finivi le scuole, mettevi in conto – in virtù dell’alta disoccupazione giovanile – un certo periodo, più o meno lungo, alla ricerca di un lavoro, ma entro una certa età eri sicuro di trovarlo. Infatti, superati i 35/40 anni i tassi di disoccupazione, soprattutto quella maschile, erano poco significativi anche da noi.
Oggi non è più così e la disoccupazione, anche quella mascherata (perché siamo pieni di cassaintegrati che non rientreranno mai al lavoro precedente), è un evento che può capitare a tutte le età.
Da qui la grande truffa nel dividere “insider” da “outsider”, padri da figli, come ha fatto questa destra maledetta – che il diavolo se la pigli – nella repubblica delle banane in cui viviamo (con simpatie anche dalla parte avversa, che di polli che si credono aquile grazie a dio ne abbiamo anche noi!).
Ad un certo punto sembrava che le tutele dei lavoratori delle grandi imprese fossero un ostacolo all’assunzione dei figli i quei lavoratori e che il problema fosse tutto lì! Non che mancasse una politica industriale, uno straccio di idea di futuro, un minimo di governo dell’economia, una visione laica delle dinamiche produttive e non dogmatica da taliban del mercato “che fa bene tutto, basta lasciarlo stare…”
Occultando il fatto però che padri e figli sono legati e che i figli in genere sono mantenuti dai padri e che se tu non tuteli il padre, ma lo sostituisci col figlio, senza prevedere una stato sociale capace di far fronte a un mutato equilibrio sociale, fai esplodere il sistema.
Perché sostituisci chi è tutelato con chi è indifeso, chi può mantenere anche altri con chi a malapena riesce a mantenere sé stesso.
Quindi, l’obiettivo vero qual è?
Aiutare i giovani a entrare nel mercato del lavoro o disarmare i padri, indebolendo la classe lavoratrice, giovani compresi?
Non vi pare che i diversi strumenti messi in campo, le diverse varianti di stage e tirocini, non servano per selezionare e modellare lavoratori che abbiano quale caratteristica principale la docilità?
Perché sembra che l’inadeguatezza sia tutta dal lato dell’offerta del lavoro e mai da quella della domanda, anche quando l’insufficienza della nostra classe imprenditoriale è palese e dimostrabile dalla scelta costante della via più facile?
Come se non fosse chiaro che chi sul mercato resta, in fin dei conti, è chi lavora sulle innovazioni di prodotto e non chi scarica sulla forza lavoro ogni problema e tira a scardinare le organizzazioni sindacali, cercando di trasformarle (senza grandissima e diffusa opposizione a dire il vero, che teniamo famiglia tutti…) in complici, da antagoniste quali dovrebbero essere, almeno in una sana democratica dialettica fra interessi contrapposti…
Perché la cosiddetta “concertazione” avrà pure portato un pochino di pace sociale, ma ha anche drenato immense risorse dalla tasche di chi lavora a quelle di redditieri vari.
Nel linguaggio comune poi si fa pure confusione fra le parti in gioco, perché “offerta di lavoro” sembra essere chi offre posti di lavoro, cioè imprese, pubblica amministrazione e famiglie; mentre “domanda di lavoro” invece sembra essere chi il lavoro lo chiede, cioè i lavoratori disoccupati. Invece è esattamente il contrario.
Agire sul lato dell’offerta (i “quattro pilastri” UE del Trattato di Lisbona questo esplicitamente promuovono, con l’accento posto su “occupabilità”, “adattabilità”, “imprenditorialità” e “pari opportunità”) significa in qualche modo scaricare la responsabilità dello Stato, che si ritira dall’economia e dal suo governo (in ottemperanza al dogma), sui lavoratori, che si devono industriare per essere più appetibili e la funzione dello Stato che non è quella di promuovere l’economia attraverso la creazione di lavoro (più carote), ma coi servizi ai lavoratori (cioè allenando gli asini alla corsa…).
È chiaro che la partita è tutta politica e poco tecnica: gli strumenti dell’economia sono per l’appunto “attrezzi” ed è inutile attribuire loro caratteristiche che non hanno. A ben vedere, tutta questa enfasi sui mercati, con l’attribuzione di caratteri antropomorfici
(i mercati “chiedono” e reagiscono come fossero esseri animati e dotati di senso) rientrano in quei meccanismi detti “euristiche” di cui scrivevo ieri.
È necessario quindi ragionare attorno al concetto di “job guarantee“, ovvero di garanzia del lavoro e impegnare le istituzioni, dalle comunità locali fino all’UE passando per lo Stato, nella promozione del lavoro.
Il fatto che fino a oggi non ci siano stati risultati significativi può voler significare che le soluzioni adottate sono semplicemente inutili, se non dannose. Esiste la necessità di implementare e manutenere le competenze, oggi a rischio di obsolescenza, ci sono settori dove si può produrre ad alto valore aggiunto con rispetto dei diritti e dell’ambiente (due dei tre lati del triangolo della sostenibilità).
Anche se nel mio cuore io continuo a inseguire il sogno di Karl Marx per il quale bisognava abolire la condizione di lavoratore, non estenderla a tutti gli uomini!
Perché, non dimentichiamolo, il lavoro è una punizione divina, non un dono.
Marcello Cadeddu - 20/03/2013
fonte : http://www.megachip.info/tematiche/fondata-sul-lavoro/9998-lavoro-la-punizione-di-dio.html
originale : http://marcellosovjetcadeddu.wordpress.com/2013/03/20/la-punizione-di-dio/
Sarà perché è il mio mestiere, sarà perché al singolare è uno fra i più evocati, camminando mi è venuto in testa. È strano come il mercato del lavoro, contrariamente a quelli declinati al plurale, “i mercati”, non abbia particolari desideri: a oggi non ho sentito mai dire “il mercato del lavoro vuole…” o “il mercato del lavoro ci chiede…
” Lui, che dev’essere il fratello povero o sfortunato della altrimenti opulenta famiglia dei mercati, ha piuttosto “necessità di…”, “ha bisogno di…” Credo sia un po’ legato e imbolsito perché da molti anni la cura è sempre la stessa: stretching e iniezioni per aumentarne la flessibilità.
Io un’idea me la sono fatta, ma ammetto che pur potendomi fregiare del titolo di esperto, sempre meno ne capisco. O forse è la categoria di esperto a essere sopravvalutata oppure sono soltanto io a essere un cazzone.
Intanto, qualche puntino sulle “i” bisognerà pur metterlo: se abbiamo cento asini e ottanta carote sarà molto difficile che ogni asino abbia una carota. Credo che su questo possiamo concordare tutti, belli e brutti, piddini e grillini, maschi e femmine, destra e sinistra.
Quindi su cosa dovremmo concentrarci, sull’alleggerire l’asino per farlo arrivare prima alla carota oppure sull’aumentare le carote?
Perché la scelta non è indifferente. E visto che la strategia prevalente è stata quella di lavorare sull’asino, così che fosse più reattivo, più rapido, più leggero, più capace di affrontare le mutate condizioni, significa che noi viviamo in un sistema costruito per ottanta asini e che venti saranno sempre in esubero: se le carote saranno abbastanza grandi da generare scarti sufficienti bene, ma con carote rachitiche tipiche dei periodi di crisi pietà l’è morta…
C’è anche chi dice che se si vedono asini particolarmente reattivi, rapidi ecc. da fuori, dal resto del mondo inizieranno a tirarci carote oppure le carote cresceranno da sole, spontaneamente, ansiose di offrirsi agli asini. Oppure gli asini dovranno farsi “imprenditori di sé stessi” e inventarsela la carota.
Il mercato del lavoro è difficile da intrappolare in una metafora, asini e carote, i posti al cinema (occupati, non occupati, distrutti creati, comodi e scomodi, con spettatori che entrano e che escono), spiegano – come tutte le metafore in fondo – i meccanismi fino a un certo punto.
Intanto perché “il mercato del lavoro” non esiste, ma è un concetto teorico forse valido per l’analisi generale (l’insieme degli occupati, l’insieme dei disoccupati e via dicendo), per farsi un’idea di massimo, ma quasi inutile dal punto di vista operativo.
Contano “i mercati”: per esempio, se sono un idraulico…lasciamo perdere gli idraulici!
Se sono un insegnante entrerò in uno specifico mercato del lavoro che è quello dell’insegnamento, che ha le sue regole: concorsi, chiamate, domande a istituti pubblici e privati, competenze, acquisizione di competenze. E bisogna conoscerlo per potersi orientare, per avere qualche possibilità. E si sa pure quanti posti potranno essere disponibili, quanti quelli “fissi”, quanti quelli “mobili”.
Questo vale per quasi tutti i mestieri e le professioni, ciascuna ha un suo mercato. E in questo mercato vige un certo evoluzionismo: vince il più “adatto”, dove a volte il più adatto non è il più serio, il più bravo o il più preparato, ma quello con più relazioni, più “accozzato”, “il figlio di…” (non nel senso della professione della mamma, di genitori abbienti e ben introdotti, of course).
Resta la sensazione che in tutto questo ci sia qualcosa di profondamente sbagliato. Mi occupo di mercato del lavoro dai tempi della mia tesi di laurea e la situazione è peggiorata. Questo nonostante leggi, pacchetti di leggi, riforme e controriforme. Ma forse avevano ragione Aris Accornero e Fabrizio Carmignani nel libro che mi convinse a studiare questo argomento e a fare una tesi di laurea sulla disoccupazione:
è un’attenzione fatta esclusivamente di parole!
Quando iniziai a occuparmi di mercato del lavoro i soggetti più deboli erano le giovani donne del Sud Italia con bassa scolarizzazione e oggi mi sa che è la stessa cosa. La differenza è che ieri la disoccupazione era un passaggio probabile in una traiettoria di vita: finivi le scuole, mettevi in conto – in virtù dell’alta disoccupazione giovanile – un certo periodo, più o meno lungo, alla ricerca di un lavoro, ma entro una certa età eri sicuro di trovarlo. Infatti, superati i 35/40 anni i tassi di disoccupazione, soprattutto quella maschile, erano poco significativi anche da noi.
Oggi non è più così e la disoccupazione, anche quella mascherata (perché siamo pieni di cassaintegrati che non rientreranno mai al lavoro precedente), è un evento che può capitare a tutte le età.
Da qui la grande truffa nel dividere “insider” da “outsider”, padri da figli, come ha fatto questa destra maledetta – che il diavolo se la pigli – nella repubblica delle banane in cui viviamo (con simpatie anche dalla parte avversa, che di polli che si credono aquile grazie a dio ne abbiamo anche noi!).
Ad un certo punto sembrava che le tutele dei lavoratori delle grandi imprese fossero un ostacolo all’assunzione dei figli i quei lavoratori e che il problema fosse tutto lì! Non che mancasse una politica industriale, uno straccio di idea di futuro, un minimo di governo dell’economia, una visione laica delle dinamiche produttive e non dogmatica da taliban del mercato “che fa bene tutto, basta lasciarlo stare…”
Occultando il fatto però che padri e figli sono legati e che i figli in genere sono mantenuti dai padri e che se tu non tuteli il padre, ma lo sostituisci col figlio, senza prevedere una stato sociale capace di far fronte a un mutato equilibrio sociale, fai esplodere il sistema.
Perché sostituisci chi è tutelato con chi è indifeso, chi può mantenere anche altri con chi a malapena riesce a mantenere sé stesso.
Quindi, l’obiettivo vero qual è?
Aiutare i giovani a entrare nel mercato del lavoro o disarmare i padri, indebolendo la classe lavoratrice, giovani compresi?
Non vi pare che i diversi strumenti messi in campo, le diverse varianti di stage e tirocini, non servano per selezionare e modellare lavoratori che abbiano quale caratteristica principale la docilità?
Perché sembra che l’inadeguatezza sia tutta dal lato dell’offerta del lavoro e mai da quella della domanda, anche quando l’insufficienza della nostra classe imprenditoriale è palese e dimostrabile dalla scelta costante della via più facile?
Come se non fosse chiaro che chi sul mercato resta, in fin dei conti, è chi lavora sulle innovazioni di prodotto e non chi scarica sulla forza lavoro ogni problema e tira a scardinare le organizzazioni sindacali, cercando di trasformarle (senza grandissima e diffusa opposizione a dire il vero, che teniamo famiglia tutti…) in complici, da antagoniste quali dovrebbero essere, almeno in una sana democratica dialettica fra interessi contrapposti…
Perché la cosiddetta “concertazione” avrà pure portato un pochino di pace sociale, ma ha anche drenato immense risorse dalla tasche di chi lavora a quelle di redditieri vari.
Nel linguaggio comune poi si fa pure confusione fra le parti in gioco, perché “offerta di lavoro” sembra essere chi offre posti di lavoro, cioè imprese, pubblica amministrazione e famiglie; mentre “domanda di lavoro” invece sembra essere chi il lavoro lo chiede, cioè i lavoratori disoccupati. Invece è esattamente il contrario.
Agire sul lato dell’offerta (i “quattro pilastri” UE del Trattato di Lisbona questo esplicitamente promuovono, con l’accento posto su “occupabilità”, “adattabilità”, “imprenditorialità” e “pari opportunità”) significa in qualche modo scaricare la responsabilità dello Stato, che si ritira dall’economia e dal suo governo (in ottemperanza al dogma), sui lavoratori, che si devono industriare per essere più appetibili e la funzione dello Stato che non è quella di promuovere l’economia attraverso la creazione di lavoro (più carote), ma coi servizi ai lavoratori (cioè allenando gli asini alla corsa…).
È chiaro che la partita è tutta politica e poco tecnica: gli strumenti dell’economia sono per l’appunto “attrezzi” ed è inutile attribuire loro caratteristiche che non hanno. A ben vedere, tutta questa enfasi sui mercati, con l’attribuzione di caratteri antropomorfici
(i mercati “chiedono” e reagiscono come fossero esseri animati e dotati di senso) rientrano in quei meccanismi detti “euristiche” di cui scrivevo ieri.
È necessario quindi ragionare attorno al concetto di “job guarantee“, ovvero di garanzia del lavoro e impegnare le istituzioni, dalle comunità locali fino all’UE passando per lo Stato, nella promozione del lavoro.
Il fatto che fino a oggi non ci siano stati risultati significativi può voler significare che le soluzioni adottate sono semplicemente inutili, se non dannose. Esiste la necessità di implementare e manutenere le competenze, oggi a rischio di obsolescenza, ci sono settori dove si può produrre ad alto valore aggiunto con rispetto dei diritti e dell’ambiente (due dei tre lati del triangolo della sostenibilità).
Anche se nel mio cuore io continuo a inseguire il sogno di Karl Marx per il quale bisognava abolire la condizione di lavoratore, non estenderla a tutti gli uomini!
Perché, non dimentichiamolo, il lavoro è una punizione divina, non un dono.
Marcello Cadeddu - 20/03/2013
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lunedì 18 marzo 2013
Riforma Fornero: dopo nove mesi più licenziati e più precari
Dice la riforma Fornero che lo scopo è “l’instaurazione di rapporti di lavoro più stabili” e quello di ribadire “il rilievo prioritario del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (…) quale forma comune di rapporto di lavoro”. Adesso che sono passati quasi nove mesi dalla sua entrata in vigore si può dire che quell’auspicio è purtroppo destinato a rimanere tale.
In realtà le due grandi direttrici di riforma – in attesa dei nuovi ammortizzatori sociali, che dovrebbero entrare a regime nel 2017, se mai lo faranno – hanno già largamente fallito: da un lato infatti la riduzione delle tutele dell’articolo 18 ha dato il via ad una serie di licenziamenti individuali prima impossibili (riuscendo per di più a peggiorare la situazione del contenzioso in tribunale), dall’altro gli irrigidimenti sul’uso dei contratti flessibili ha portato alla perdita di posti di lavoro o a un peggioramento delle condizioni di quelli già esistenti (leggi la scheda: che cosa prevede la riforma Fornero).
D’altronde, come ha detto lo stesso ministro, questa non è una riforma fatta per uscire dalla recessione, per quello “servivano i soldi”, mentre le nuove norme andranno verificate in condizioni normali: rimane però da chiedersi perché introdurre norme che rendono più facili i licenziamenti e più rigide le assunzioni in un momento in cui la priorità dovrebbe essere assicurare un posto a più gente possibile. Ecco, dunque, per capire di che si parla, un riassunto per punti della riforma e dei suoi risultati in questi mesi.
articolo completo qui
In realtà le due grandi direttrici di riforma – in attesa dei nuovi ammortizzatori sociali, che dovrebbero entrare a regime nel 2017, se mai lo faranno – hanno già largamente fallito: da un lato infatti la riduzione delle tutele dell’articolo 18 ha dato il via ad una serie di licenziamenti individuali prima impossibili (riuscendo per di più a peggiorare la situazione del contenzioso in tribunale), dall’altro gli irrigidimenti sul’uso dei contratti flessibili ha portato alla perdita di posti di lavoro o a un peggioramento delle condizioni di quelli già esistenti (leggi la scheda: che cosa prevede la riforma Fornero).
D’altronde, come ha detto lo stesso ministro, questa non è una riforma fatta per uscire dalla recessione, per quello “servivano i soldi”, mentre le nuove norme andranno verificate in condizioni normali: rimane però da chiedersi perché introdurre norme che rendono più facili i licenziamenti e più rigide le assunzioni in un momento in cui la priorità dovrebbe essere assicurare un posto a più gente possibile. Ecco, dunque, per capire di che si parla, un riassunto per punti della riforma e dei suoi risultati in questi mesi.
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mercoledì 13 marzo 2013
Lo tsunami sindacale
Bisognerebbe forse rivolgersi a "Chi
l'ha visto?" per avere notizie dei gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL.
Sono scomparsi anche dallo spettacolo mediatico e se qualche presenza
c'è stata, non se ne è accorto nessuno. Qualcuno
potrebbe obiettare che questo avviene perché le grandi confederazioni
sono estranee all'avvitarsi su se stessa della crisi politica, fanno un
altro mestiere. Ma è difficile dimenticare il loro impegno pre
elettorale. La CISL è stata
promotrice della lista Monti, mentre la CGIL ha investito tutto sulla
vittoria di Bersani. Entrambi i gruppi dirigenti di queste
confederazioni sono dunque usciti sonoramente sconfitti dal voto, a
maggior ragione perché un gran numero degli iscritti alle loro
organizzazioni non li ha seguiti e ha votato 5 stelle.(...)
Ma
la scelta di collateralismo elettorale non è la causa, ma solo un
disperato, fallito, tentativo di affrontare così una crisi del
sindacalismo confederale che ora sta precipitando dopo anni e anni di
scivolamento verso il basso.
Oggi
milioni di lavoratori si chiedono a che serva il sindacato. E non
perché abbiano sposato le teorie neoliberiste secondo le quali la
contrattazione sindacale sarebbe un freno allo sviluppo. Ma al contrario
perché sentono il sindacato assente o lontano dal disastro della loro
condizione sociale.
I
precari e i disoccupati sono fuori dal mondo sindacale organizzato, ma
anche quest'ultimo è sempre meno tutelato dalla contrattazione. Gli
accordi che si firmano sono solo peggiorativi, sia quelli separati come
l'ennesimo in Fiat, sia quelli unitari come alle Trenord. Ovunque i
lavoratori sindacalizzati ricevono piu danni che benefici dagli accordi
sindacali.
Si
può obiettare a questo brutale giudizio che sempre nei momenti di crisi
e disoccupazione i sindacati hanno fatto fatica a reggere. Però bisogna
anche provarci a resistere.
Il
governo Monti ha realizzato le sue peggiori controriforme, dalle
pensioni all'articolo 18, e la sua disastrosa politica di austerità con
il consenso della Cisl e con le brontolate senza mobilitazione della
CGIL. La UIL non è pervenuta.
Questo
ultimo anno catastrofico per le condizioni complessive del mondo del
lavoro ha visto una complicità e una passività sindacale uniche in
Europa, o in ogni caso in contrasto clamoroso con quello che era
considerato uno dei movimenti più forti del continente. Le resistenze
della FIOM e dei sindacati di base, le singole lotte aziendali, non sono
riuscite a fermare questa ritirata generale.
Si
capisce allora meglio perché i gruppi dirigenti di CGIL e CISL si
sono così platealmente spesi nella campagna elettorale. Dalla vittoria
dello schieramento amico speravano di riottenere quel ruolo
istituzionale che avevano perso senza lottare.
Non
è andata così ed ora i gruppi dirigenti delle grandi confederazioni
brancolano nel buio, sperando in chissà quale miracolo che permetta loro
di continuare così senza cambiare nulla.
La
burocrazia sindacale sente arrivare la crisi, ma spesso reagisce ad essa
con la chiusura al dissenso e l'obbligo alla fedeltà. Due operai,
militanti sindacali esemplari generosi e onesti, sono stati espulsi
dalla CGIL a Padova perché su internet contestavano i dirigenti. E non è
certo il solo caso di autoritarismo nella vita interna.
Questo
sindacato che oggi pare scomparso non produce autocritiche, non
ricerca vie nuove, non si rinnova né tantomeno si sburocratizza, ma
pretende solo l'arroccamento dell'organizzazione attorno ai gruppi
dirigenti.
Eppure oggi come non mai le
lavoratrici ed i lavoratori, i precari e i disoccupati, quel 65 % della
popolazione il cui reddito non basta più per vivere, avrebbero bisogno
di un sindacato che lotti e soffra assieme a loro.
Serve
oggi un sindacato di lotta e cambiamento sociale profondamente
democratico e totalmente indipendente dagli schieramenti politici. E se
per ottenerlo occorre che anche le grandi confederazioni siano colpite
dallo tsunami che ha sconvolto il quadro politico, bene che accada.
Il
prezzo che il mondo del lavoro paga oggi anche per la passività
sindacale, è troppo pesante e ingiusto per continuare così.
G. Cremaschi - 08/03/2013
Rete28Aprile
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martedì 12 marzo 2013
lunedì 11 marzo 2013
Più rigore,più crescita:le deliranti profezie di Harvard
Nell’autunno del 2010, quando la crisi
dei debiti sovrani era già scoppiata ed erano iniziati i primi
programmi di rigore per rientrare dai deficit, Alberto Alesina si lanciò
in una previsione piuttosto azzardata col senno del poi. Secondo
l’economista, professore ad Harvard e diventato noto in Italia come
editorialista de “Il Sole 24 Ore” e del “Corriere della Sera”,
l’austerità imposta dalla Germania conservatrice di Angela Merkel e
dalla Bce di Trichet stava dispiegando i suoi frutti positivi sulla
crescita dell’Eurozona. Grazia ai tagli alla spesa pubblica la crisi
si sarebbe risolta in fretta, mentre in realtà è scoppiata la più grave
contrazione economica dalla Grande Depressione. «Sembra che la velocità
della ripresa europea sia sostenuta, più rapida di quella degli Stati
Uniti», scriveva Alesina, «e la Bce ha recentemente aumentato le
previsioni di crescita dell’Eurozona».
La sortita di Alesina, osserva Gad Lerner sul suo blog, partiva da un documento redatto nel 2009 insieme alla sua collega di Harvard Silvia Ardagna, che rimarcava come l’austerità fosse il modo migliore per uscire dalla grande contrazione globale scoppiata dopo il crack di Wall Street. «L’analisi dei due economisti italiani – rivela Lerner – è stata una delle ricerche accademiche che più hanno influenzato le forze conservatrici, come il governo Cameron o i deputati repubblicani legati al movimento del Tea Party, che hanno introdotto politiche anti-crisi basate su più o meno pesanti tagli alla spesa pubblica». Come riporta il blog di uno degli economisti citati da Alesina, Mike Konzcal, i due “guru” italiani rimarcavano come «un aggiustamento fiscale dal punto di vista della domanda può diventare espansivo se gli agenti reputano che la riduzione delle spese generi un cambiamento nel sistema che elimini il bisogno di un più grande, forse molto più distruttivo aggiustamento in futuro».
Gli economisti di Harvard, aggiunge Lerner, cristallizzano in questa frase la cosiddetta “teoria della fata fiducia”, ovvero: come una riduzione del perimetro dell’intervento pubblico faccia tornare la fiducia degli attori privati, così da generare una nuova mole di investimenti che sappiano stimolare la crescita. «Una posizione tipica degli economisti di scuola neoliberale, che fino ad ora si è scontrata, in modo anche doloroso, contro la realtà». L’errore di Alesina? Non è tanto in una previsione così clamorosamente sbagliata, come l’annuncio di una sostenuta ripresa dell’Eurozona, in realtà precipitata nei mesi successivi nella sua crisi più grave dal dopoguerra ad oggi. «Il punto vero – scrive Lerner – è la riproposizione di una tesi già allora piuttosto smentita dai fatti», e cioè «che tagli alla spesa significhino, automaticamente, crescita economica». Lo ha ammesso lo stesso Fondo Monetario Internazionale, che in questi mesi ha pubblicato vari studi che hanno evidenziato come questa posizione sia stata, quantomeno, smentita dalla realtà della crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona.
www.libreidee.org - 08/03/2013
fonte: http://www.libreidee.org/2013/03/piu-rigore-piu-crescita-le-deliranti-profezie-di-harvard/
La sortita di Alesina, osserva Gad Lerner sul suo blog, partiva da un documento redatto nel 2009 insieme alla sua collega di Harvard Silvia Ardagna, che rimarcava come l’austerità fosse il modo migliore per uscire dalla grande contrazione globale scoppiata dopo il crack di Wall Street. «L’analisi dei due economisti italiani – rivela Lerner – è stata una delle ricerche accademiche che più hanno influenzato le forze conservatrici, come il governo Cameron o i deputati repubblicani legati al movimento del Tea Party, che hanno introdotto politiche anti-crisi basate su più o meno pesanti tagli alla spesa pubblica». Come riporta il blog di uno degli economisti citati da Alesina, Mike Konzcal, i due “guru” italiani rimarcavano come «un aggiustamento fiscale dal punto di vista della domanda può diventare espansivo se gli agenti reputano che la riduzione delle spese generi un cambiamento nel sistema che elimini il bisogno di un più grande, forse molto più distruttivo aggiustamento in futuro».
Gli economisti di Harvard, aggiunge Lerner, cristallizzano in questa frase la cosiddetta “teoria della fata fiducia”, ovvero: come una riduzione del perimetro dell’intervento pubblico faccia tornare la fiducia degli attori privati, così da generare una nuova mole di investimenti che sappiano stimolare la crescita. «Una posizione tipica degli economisti di scuola neoliberale, che fino ad ora si è scontrata, in modo anche doloroso, contro la realtà». L’errore di Alesina? Non è tanto in una previsione così clamorosamente sbagliata, come l’annuncio di una sostenuta ripresa dell’Eurozona, in realtà precipitata nei mesi successivi nella sua crisi più grave dal dopoguerra ad oggi. «Il punto vero – scrive Lerner – è la riproposizione di una tesi già allora piuttosto smentita dai fatti», e cioè «che tagli alla spesa significhino, automaticamente, crescita economica». Lo ha ammesso lo stesso Fondo Monetario Internazionale, che in questi mesi ha pubblicato vari studi che hanno evidenziato come questa posizione sia stata, quantomeno, smentita dalla realtà della crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona.
www.libreidee.org - 08/03/2013
fonte: http://www.libreidee.org/2013/03/piu-rigore-piu-crescita-le-deliranti-profezie-di-harvard/
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mercoledì 6 marzo 2013
Addio Comandante. Y gracias.
Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra. È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grande latinoamericana. Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”. Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino (si, vabbe'... ndr). Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale. Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali. Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nell’89 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela. Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari. Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia. È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito. Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa. La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.
Gennaro Carotenuto - 06/03/2013
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martedì 5 marzo 2013
La Cgil nel pantano delle maggioranze parlamentari, addio alla sponda politica
Ed ora che cosa ne sarà della Cgil?
Il sindacato di Susanna Camusso ha puntato tutto sulla vittoria della coalizione del Pd alle elezioni. Lo ha fatto in modo chiaro e netto, fino al punto da escludere con un tratto di penna “Rivoluzione civile” come si ricorderà. Non aveva previsto, evidentemente, la vittoria di misura in un quadro di caos generale. La differenza è sostanziale. E così, se da una parte dai risultati elettorali esce un parziale rintuzzamento delle smanie aggressive sull’articolo 18, grazie al magro risultato rimediato da Mario Monti - sempre che Napolitano non torni dalla Germania esibendo una precisa opzione di Angela Merker -, dall’altra un Governo che andrà a cercarsi maggioranze improvvisate di volta in volta in Parlamento o, peggio, faccia un qualsiasi tipo di accordo con Berlusconi, per la Cgil rappresenterebbe un problema di portata insostenibile. Altre soluzioni non ci sono.
Questa situazione di instabilità non può non creare problemi seri al sindacato che aveva obiettivamente bisogno di tirare il fiato dopo un lunghissimo periodo di logoramento, durato per l’intera legislatura chiusa alla fine del 2012. La Cisl, che aveva aperto una vera e propria offensiva verso il sindacato confederale, non tornerà certo indietro dai suoi propositi. Anzi, in fondo, e l'ha dimostrato, è la situazione migliore per la sua strategia. E la Cgil, che vedeva nella vittoria del Pd la possibilità di avere almeno una sorta di camera di compensazione delle contraddizioni sul tappeto, ora è costretta a rielaborare le sue strategie. E lo deve fare in fretta perché uno dei capitoli aperti, quello della legge sulla democrazia sindacale, non può più aspettare. C’è il rischio che più di qualcuno decida, sia nel settore privato che nel pubblico, di rompere gli indugi e approfittare a piene mani della vacatio legis.
Se il “firmare con chi ci sta” diventa uno slogan più di quanto sia stato fino una chiara e precisa scelta politica da parte di alcune sigle sindacali protagoniste dello strappo del 2009, per il sindacato confederale si apre una fase di terremoto generale. Un cambio di scenario ben oltre i disastri dell’accordo del 28 giugno 2011 e oltre qualsiasi “marchionismo”, anche di seconda scelta. Né la soluzione "a metà" che intanto era venuta fuori dagli incontri con Confindustria è in grado di restituire quell'unità di facciata che interessa alla Cgil. Se a decidere non sono in ultima istanza i lavoratori allora l'"ordine del discorso" rimarrà sempre in mano alle burocrazie sindacali.
Per la Cgil, infilarsi in una legislatura, l’ennesima, in cui l’opzione politica, scelta come la classica sponda, induce un effetto paralizzante diretto sul movimento sindacale, non solo rappresenta la riproposizione di una incertezza che non può più permettersi ma la fine del modello che l’aveva sin qui sorretta. Il “sindacato di lotta e di governo” ha senso, infatti, in un quadro in cui ad una fase di costruzione della piattaforma fa seguito una fase di scelte e di decisioni reali. Ciò non corrisponde alla realtà odierna in cui, tra l’altro, la crisi ha rappresentato un forte elemento di logoramento.
In questo quadro uno dei “punti di caduta” più probabili è che tutto si risolva in uno scontro interno, segnatamente con la Fiom, consumato al solo scopo di consolidare uno spazio politico che si va via via consumando. Sarebbe una triste conclusione di una storia lunga e gloriosa.
C’è stato un periodo, immediatamente prima dell’ultimo congresso che ha portato Susanna Camusso alla guida del sindacato, in cui il richiamo al rinnovamento della Cgil, così come nella crisi degli anni ’50, ha rappresentato qualcosa di più di un semplice slogan. Nessuno, tra i vertici, ha anche soltanto preso in considerazione l’idea di tornare a creare un rapporto organico e sostanziale con i lavoratori. Poi c’è stata la crisi economica, con tutto quel che ne è venuto fuori e quella profonda trasformazione della rappresentanza politica che di fatto ha cambiato il volto del paese. Come a dire, mentre il paese reale andava da una parte il sindacato non solo era fermo ma nemmeno provava a vedere quello che stava accadendo.
Fabio Sebastiani - 28/02/2013
da Liberazione
fonte : http://www.controlacrisi.org
Il sindacato di Susanna Camusso ha puntato tutto sulla vittoria della coalizione del Pd alle elezioni. Lo ha fatto in modo chiaro e netto, fino al punto da escludere con un tratto di penna “Rivoluzione civile” come si ricorderà. Non aveva previsto, evidentemente, la vittoria di misura in un quadro di caos generale. La differenza è sostanziale. E così, se da una parte dai risultati elettorali esce un parziale rintuzzamento delle smanie aggressive sull’articolo 18, grazie al magro risultato rimediato da Mario Monti - sempre che Napolitano non torni dalla Germania esibendo una precisa opzione di Angela Merker -, dall’altra un Governo che andrà a cercarsi maggioranze improvvisate di volta in volta in Parlamento o, peggio, faccia un qualsiasi tipo di accordo con Berlusconi, per la Cgil rappresenterebbe un problema di portata insostenibile. Altre soluzioni non ci sono.
Questa situazione di instabilità non può non creare problemi seri al sindacato che aveva obiettivamente bisogno di tirare il fiato dopo un lunghissimo periodo di logoramento, durato per l’intera legislatura chiusa alla fine del 2012. La Cisl, che aveva aperto una vera e propria offensiva verso il sindacato confederale, non tornerà certo indietro dai suoi propositi. Anzi, in fondo, e l'ha dimostrato, è la situazione migliore per la sua strategia. E la Cgil, che vedeva nella vittoria del Pd la possibilità di avere almeno una sorta di camera di compensazione delle contraddizioni sul tappeto, ora è costretta a rielaborare le sue strategie. E lo deve fare in fretta perché uno dei capitoli aperti, quello della legge sulla democrazia sindacale, non può più aspettare. C’è il rischio che più di qualcuno decida, sia nel settore privato che nel pubblico, di rompere gli indugi e approfittare a piene mani della vacatio legis.
Se il “firmare con chi ci sta” diventa uno slogan più di quanto sia stato fino una chiara e precisa scelta politica da parte di alcune sigle sindacali protagoniste dello strappo del 2009, per il sindacato confederale si apre una fase di terremoto generale. Un cambio di scenario ben oltre i disastri dell’accordo del 28 giugno 2011 e oltre qualsiasi “marchionismo”, anche di seconda scelta. Né la soluzione "a metà" che intanto era venuta fuori dagli incontri con Confindustria è in grado di restituire quell'unità di facciata che interessa alla Cgil. Se a decidere non sono in ultima istanza i lavoratori allora l'"ordine del discorso" rimarrà sempre in mano alle burocrazie sindacali.
Per la Cgil, infilarsi in una legislatura, l’ennesima, in cui l’opzione politica, scelta come la classica sponda, induce un effetto paralizzante diretto sul movimento sindacale, non solo rappresenta la riproposizione di una incertezza che non può più permettersi ma la fine del modello che l’aveva sin qui sorretta. Il “sindacato di lotta e di governo” ha senso, infatti, in un quadro in cui ad una fase di costruzione della piattaforma fa seguito una fase di scelte e di decisioni reali. Ciò non corrisponde alla realtà odierna in cui, tra l’altro, la crisi ha rappresentato un forte elemento di logoramento.
In questo quadro uno dei “punti di caduta” più probabili è che tutto si risolva in uno scontro interno, segnatamente con la Fiom, consumato al solo scopo di consolidare uno spazio politico che si va via via consumando. Sarebbe una triste conclusione di una storia lunga e gloriosa.
C’è stato un periodo, immediatamente prima dell’ultimo congresso che ha portato Susanna Camusso alla guida del sindacato, in cui il richiamo al rinnovamento della Cgil, così come nella crisi degli anni ’50, ha rappresentato qualcosa di più di un semplice slogan. Nessuno, tra i vertici, ha anche soltanto preso in considerazione l’idea di tornare a creare un rapporto organico e sostanziale con i lavoratori. Poi c’è stata la crisi economica, con tutto quel che ne è venuto fuori e quella profonda trasformazione della rappresentanza politica che di fatto ha cambiato il volto del paese. Come a dire, mentre il paese reale andava da una parte il sindacato non solo era fermo ma nemmeno provava a vedere quello che stava accadendo.
Fabio Sebastiani - 28/02/2013
da Liberazione
fonte : http://www.controlacrisi.org
venerdì 1 marzo 2013
L’euro è ormai un morto che cammina. Occorre tentare una exit strategy “da sinistra”
Il signor euro aveva più volte rischiato l’infarto. Il dottor Draghi
decise allora di metterlo in coma farmacologico. Sulla cura però
indugiava, e a intervalli periodici il dilemma amletico gli si
ripresentava: lasciarlo dormire o farlo morire? Draghi insisteva per la
prima soluzione. Ma ad un tratto il popolo italiano ha improvvisamente
optato per la seconda: ormai l’euro è solo uno zombie, un morto che
cammina. Volenti o nolenti, prendiamone atto.
Vedrete che nel Direttorio della Bce l’avranno già capito. A Francoforte si accingeranno a modificare la “regola di solvibilità” della politica monetaria: il famigerato ombrello europeo contro la speculazione verrà pian piano chiuso, per poi finire in cantina [1]. La dottrina del falco Jurgen Stark, uscita dalla porta, si appresta dunque a rientrare dalla finestra. Si può star certi che il dottor Draghi dovrà accoglierla con tutti gli onori. Le più fosche previsioni di un appello di 300 economisti, pubblicato nel giugno 2010, si stanno dunque avverando [2]. La pretesa della Bce di proteggere dagli attacchi speculativi solo i paesi devoti alla disciplina dell’austerity, si è rivelata un clamoroso errore, logico e politico. L’Italia, che ha dato i lumi al Rinascimento ma anche al Fascismo, ieri ha sancito che per l’euro non resta che recitare il De Profundis. Nessuno osi affermare che ha fatto da sola: i tecnocrati europei, condizionati dagli interessi prevalenti in Germania, stavano già da tempo preparando il fosso in cui seppellire la moneta unica.
E ora? Gli eredi più o meno degni del movimento operaio novecentesco che faranno? Sapranno anticipare il corso degli eventi o preferiranno anche stavolta fungere da ultima ruota del carro della Storia? Anziché lasciarsi travolgere dall’idea ottusa della “grande coalizione”, o riesumare il giovane dinosauro liberista Renzi per suicidarsi entro un anno, sarebbe forse opportuno che il Partito democratico e la CGIL prendessero atto che non è più tempo di parlare di politiche di convergenza o magari di standard retributivo europeo [3]. I proprietari tedeschi non sono più interessati alla moneta unica, le speranze di riforma dell’Unione monetaria sono ormai vane. Il punto dirimente è dunque uno soltanto: in che modo uscire dalla zona euro.
Il più probabile, allo stato dei fatti, è il modo di “destra”, che consiste nel favorire le fughe di capitale, aprire alle acquisizioni estere del capitale bancario e degli ultimi spezzoni rilevanti di capitale industriale nazionale, e lasciare i salari completamente sguarniti di fronte a un possibile sussulto dei prezzi e soprattutto delle quote distributive. C’è motivo di prevedere che non soltanto il redivivo Berlusconi ma anche molti altri inizieranno ad ammiccare a questa soluzione. Sedicenti “borghesi illuminati”, orde di opinionisti del mainstream si affretteranno a rifarsi una verginità giudicando l’euro un ideale kantiano fin dalle origini destinato al fallimento, riesumando Milton Friedman e i cambi flessibili e dichiarandosi favorevoli alla svalutazione allo scopo di rendere il paese appetibile per i capitali esteri a caccia di acquisizioni a buon mercato. Che dunque la moneta unica se ne vada al diavolo, grideranno: l’importante è salvare il mercato unico e la libera circolazione dei capitali dalle pulsioni protezioniste dei cosiddetti populisti! Ebbene, se le cose andranno in questi termini, c’è motivo di temere che la deflagrazione della zona euro potrebbe rivelarsi una macelleria messicana. Del resto, chi un po’ ha studiato la storia economica dell’ultimo secolo sa bene che la sovranità monetaria, presa isolatamente, non è la panacea, e che non sono stati per nulla infrequenti i casi di sganciamento da un regime di cambi fissi che hanno prodotto veri e propri disastri in termini di liquidazione del capitale nazionale e distruzione degli ultimi scampoli di diritti sociali. Beninteso, non sempre è andata male, ma in alcuni casi e per alcuni soggetti è andata malissimo. Per citare solo qualche esempio: nel 1992, dopo l’uscita dallo SME, in Italia la quota salari crollò dal 62 al 54%. Nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Per non parlare dei “fire sales” dei capitali nazionali favoriti dalla svalutazione. Il ripristino della sovranità monetaria è ormai imprescindibile, ma l’uscita “da destra” potrebbe trasformarlo in un incubo.
Questa prospettiva non costituisce però un destino inesorabile. Come abbiamo cercato di argomentare in questi mesi, c’è anche un modo alternativo di gestire l’implosione dell’eurozona, che consiste nel tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una ipotesi di uscita dall’euro declinata a “sinistra”. Vale a dire, in primo luogo: un arresto delle fughe di capitale; accorte nazionalizzazioni al posto delle acquisizioni estere dei capitali bancari; un meccanismo di indicizzazione dei salari e di amministrazione di alcuni prezzi base per governare gli sbalzi nella distribuzione dei redditi; la proposta di un’area di libero scambio tra i paesi del Sud Europa. Insomma: la soluzione “di sinistra” dovrebbe vertere sull’idea che se salta la moneta unica bisognerà mettere in questione anche alcuni aspetti del mercato unico europeo.
Verificare se esistono le condizioni per formare una coalizione sociale intorno a una ipotesi di uscita “da sinistra” dall’euro significherebbe anche mettere alla prova il Movimento 5 Stelle. Che sebbene abbia il vento in poppa difficilmente arriverà a governare da solo, e che in ogni caso si troverà presto di fronte al bivio ineludibile di qualsiasi politica economica: dare priorità agli imprenditori e ai piccoli proprietari, oppure cercare una sintesi con gli interessi dei lavoratori subordinati.
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro”. Pochi giorni dopo Draghi rimise la plurinfartuata moneta unica in coma farmacologico e il “piano B” finì nuovamente nel limbo dell’indicibile. Oggi se ne può riparlare? In tutta franchezza, anche adesso che l’euro è di nuovo in prossimità dello sfascio ho il sospetto che il PD e la CGIL non saranno in grado di compiere una tale virata. L’iceberg ormai lo vedono anche loro, e forse hanno persino capito che in gioco è la loro stessa sopravvivenza, come il destino del Pasok insegna. Ma hanno mangiato per decenni pane e “liberoscambismo”, e sono stati educati dai bignami di economia e di storia di Eugenio Scalfari, che fatica ormai persino a rammentare che alla vigilia della prima guerra mondiale imperversava non certo l’autarchia ma il gold standard e la piena libertà di circolazione internazionale dei capitali. Bisognerebbe oggi rileggere Keynes e studiare Dani Rodrik, di Harvard. Temo però che a sinistra non vi sarà nemmeno il tempo di un’autocritica, figurarsi di un cambio di paradigma [4].
Gli scomodi panni delle Cassandre iniziano a pesare davvero: speriamo, almeno stavolta, di sbagliarci.
Emiliano Brancaccio - 26/02/2013
[1] Brancaccio, E., Fontana G. (2012). “Solvency rule” versus “Taylor rule”. An alternative interpretation of the relation between monetary policy and the economic crisis. Cambridge Journal of Economics. doi: 10.1093/cje/bes028.
[2] Lettera degli economisti contro le politiche di austerity in Europa (cfr. anche la versione in inglese). Rinvio inoltre a Brancaccio, E. (2011). Il punto di vista del creditore fa danni. Il Sole 24 Ore, 10 ottobre.
[3] Brancaccio, E. (2012). Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a “European wage standard”. International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.
[4] Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Milano, Il Saggiatore.
Questo articolo è apparso su www.emilianobrancaccio.it. La riproduzione è consentita citando la fonte e includendo le note.
Vedrete che nel Direttorio della Bce l’avranno già capito. A Francoforte si accingeranno a modificare la “regola di solvibilità” della politica monetaria: il famigerato ombrello europeo contro la speculazione verrà pian piano chiuso, per poi finire in cantina [1]. La dottrina del falco Jurgen Stark, uscita dalla porta, si appresta dunque a rientrare dalla finestra. Si può star certi che il dottor Draghi dovrà accoglierla con tutti gli onori. Le più fosche previsioni di un appello di 300 economisti, pubblicato nel giugno 2010, si stanno dunque avverando [2]. La pretesa della Bce di proteggere dagli attacchi speculativi solo i paesi devoti alla disciplina dell’austerity, si è rivelata un clamoroso errore, logico e politico. L’Italia, che ha dato i lumi al Rinascimento ma anche al Fascismo, ieri ha sancito che per l’euro non resta che recitare il De Profundis. Nessuno osi affermare che ha fatto da sola: i tecnocrati europei, condizionati dagli interessi prevalenti in Germania, stavano già da tempo preparando il fosso in cui seppellire la moneta unica.
E ora? Gli eredi più o meno degni del movimento operaio novecentesco che faranno? Sapranno anticipare il corso degli eventi o preferiranno anche stavolta fungere da ultima ruota del carro della Storia? Anziché lasciarsi travolgere dall’idea ottusa della “grande coalizione”, o riesumare il giovane dinosauro liberista Renzi per suicidarsi entro un anno, sarebbe forse opportuno che il Partito democratico e la CGIL prendessero atto che non è più tempo di parlare di politiche di convergenza o magari di standard retributivo europeo [3]. I proprietari tedeschi non sono più interessati alla moneta unica, le speranze di riforma dell’Unione monetaria sono ormai vane. Il punto dirimente è dunque uno soltanto: in che modo uscire dalla zona euro.
Il più probabile, allo stato dei fatti, è il modo di “destra”, che consiste nel favorire le fughe di capitale, aprire alle acquisizioni estere del capitale bancario e degli ultimi spezzoni rilevanti di capitale industriale nazionale, e lasciare i salari completamente sguarniti di fronte a un possibile sussulto dei prezzi e soprattutto delle quote distributive. C’è motivo di prevedere che non soltanto il redivivo Berlusconi ma anche molti altri inizieranno ad ammiccare a questa soluzione. Sedicenti “borghesi illuminati”, orde di opinionisti del mainstream si affretteranno a rifarsi una verginità giudicando l’euro un ideale kantiano fin dalle origini destinato al fallimento, riesumando Milton Friedman e i cambi flessibili e dichiarandosi favorevoli alla svalutazione allo scopo di rendere il paese appetibile per i capitali esteri a caccia di acquisizioni a buon mercato. Che dunque la moneta unica se ne vada al diavolo, grideranno: l’importante è salvare il mercato unico e la libera circolazione dei capitali dalle pulsioni protezioniste dei cosiddetti populisti! Ebbene, se le cose andranno in questi termini, c’è motivo di temere che la deflagrazione della zona euro potrebbe rivelarsi una macelleria messicana. Del resto, chi un po’ ha studiato la storia economica dell’ultimo secolo sa bene che la sovranità monetaria, presa isolatamente, non è la panacea, e che non sono stati per nulla infrequenti i casi di sganciamento da un regime di cambi fissi che hanno prodotto veri e propri disastri in termini di liquidazione del capitale nazionale e distruzione degli ultimi scampoli di diritti sociali. Beninteso, non sempre è andata male, ma in alcuni casi e per alcuni soggetti è andata malissimo. Per citare solo qualche esempio: nel 1992, dopo l’uscita dallo SME, in Italia la quota salari crollò dal 62 al 54%. Nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Per non parlare dei “fire sales” dei capitali nazionali favoriti dalla svalutazione. Il ripristino della sovranità monetaria è ormai imprescindibile, ma l’uscita “da destra” potrebbe trasformarlo in un incubo.
Questa prospettiva non costituisce però un destino inesorabile. Come abbiamo cercato di argomentare in questi mesi, c’è anche un modo alternativo di gestire l’implosione dell’eurozona, che consiste nel tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una ipotesi di uscita dall’euro declinata a “sinistra”. Vale a dire, in primo luogo: un arresto delle fughe di capitale; accorte nazionalizzazioni al posto delle acquisizioni estere dei capitali bancari; un meccanismo di indicizzazione dei salari e di amministrazione di alcuni prezzi base per governare gli sbalzi nella distribuzione dei redditi; la proposta di un’area di libero scambio tra i paesi del Sud Europa. Insomma: la soluzione “di sinistra” dovrebbe vertere sull’idea che se salta la moneta unica bisognerà mettere in questione anche alcuni aspetti del mercato unico europeo.
Verificare se esistono le condizioni per formare una coalizione sociale intorno a una ipotesi di uscita “da sinistra” dall’euro significherebbe anche mettere alla prova il Movimento 5 Stelle. Che sebbene abbia il vento in poppa difficilmente arriverà a governare da solo, e che in ogni caso si troverà presto di fronte al bivio ineludibile di qualsiasi politica economica: dare priorità agli imprenditori e ai piccoli proprietari, oppure cercare una sintesi con gli interessi dei lavoratori subordinati.
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro”. Pochi giorni dopo Draghi rimise la plurinfartuata moneta unica in coma farmacologico e il “piano B” finì nuovamente nel limbo dell’indicibile. Oggi se ne può riparlare? In tutta franchezza, anche adesso che l’euro è di nuovo in prossimità dello sfascio ho il sospetto che il PD e la CGIL non saranno in grado di compiere una tale virata. L’iceberg ormai lo vedono anche loro, e forse hanno persino capito che in gioco è la loro stessa sopravvivenza, come il destino del Pasok insegna. Ma hanno mangiato per decenni pane e “liberoscambismo”, e sono stati educati dai bignami di economia e di storia di Eugenio Scalfari, che fatica ormai persino a rammentare che alla vigilia della prima guerra mondiale imperversava non certo l’autarchia ma il gold standard e la piena libertà di circolazione internazionale dei capitali. Bisognerebbe oggi rileggere Keynes e studiare Dani Rodrik, di Harvard. Temo però che a sinistra non vi sarà nemmeno il tempo di un’autocritica, figurarsi di un cambio di paradigma [4].
Gli scomodi panni delle Cassandre iniziano a pesare davvero: speriamo, almeno stavolta, di sbagliarci.
Emiliano Brancaccio - 26/02/2013
[1] Brancaccio, E., Fontana G. (2012). “Solvency rule” versus “Taylor rule”. An alternative interpretation of the relation between monetary policy and the economic crisis. Cambridge Journal of Economics. doi: 10.1093/cje/bes028.
[2] Lettera degli economisti contro le politiche di austerity in Europa (cfr. anche la versione in inglese). Rinvio inoltre a Brancaccio, E. (2011). Il punto di vista del creditore fa danni. Il Sole 24 Ore, 10 ottobre.
[3] Brancaccio, E. (2012). Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a “European wage standard”. International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.
[4] Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Milano, Il Saggiatore.
Questo articolo è apparso su www.emilianobrancaccio.it. La riproduzione è consentita citando la fonte e includendo le note.
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