Come al solito, quando si prefigura una fregatura per i lavoratori,
si alzano in coro autorevoli voci e si muovono autorevoli penne, per
giustificare la necessità di sacrifici, di collaborazioni tra lavoratori
e padronato, di maggiore senso di responsabilità (anche se quest’ultimo
non sempre è chiaro verso chi debba essere rivolto). Stavolta, tocca al
cosiddetto Patto di produttività ricevere una sorta di sigillo di necessità.
A pochi giorni dalla sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl
delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della
competitività in Italia” (questo l’altisonante titolo del documento) si
diffondono i dati Istat sulla produttività in Italia, che sono
effettivamente catastrofici.
E la distanza dell’Italia da molti Paesi
europei in termini di produttività, giustificherebbe il Patto.
Si legge nel rapporto Istat che “con riferimento al periodo
1992-2011, la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio
annuo dello 0,9%. Tale incremento è la risultante di una crescita media
dell’1,1% del valore aggiunto e dello 0,2% delle ore lavorate. La
produttività totale dei fattori è salita dello 0,5%”. Insomma, siamo a livelli di produttività davvero bassi. Ma quello che i sostenitori del Patto dimenticano di dire (guarda il caso) è che per produttività l’Istat intende giustamente “il rapporto tra il valore aggiunto in volume e uno o più dei fattori produttivi impiegati per realizzarlo”.
In altri termini, la produttività è la misura di un incremento di
valore a fronte di un aumento di uno o più fattori di produzione, sia
esso in termini di lavoro o di capitale. Che è cosa ben diversa dal numero di ore lavorate o dalla velocità di produzione.
Non è il lavorare più in fretta che permette un incremento del valore
aggiunto e quindi della produttività. E nemmeno deriva dal lavorare di
più. Tant’è che lo stesso rapporto dell’ente di statistica afferma che
mentre nel 2010, a fronte di una contrazione dell’input di lavoro il
valore aggiunto è cresciuto del 3,2%; nel 2011, nonostante un aumento
delle ore lavorate, il valore aggiunto è cresciuto solo dello 0,7%.
La produttività, intesa come l’Istat, è direttamente legata agli investimenti,
specie in ricerca e sviluppo. E com’è messa l’Italia su questo fronte?
Molto male. I dati Istat descrivono una produttività del capitale
(intesa come rapporto tra il valore aggiunto e l’input di capitale) in costante diminuzione
tra il 1992 ed il 2011: in media l’Italia perde in questo senso uno
0,6% annuo. Nello stesso periodo, “l’intensità del capitale, misurata
come rapporto tra input di capitale e ore lavorate, è aumentata in media
d’anno dell’1,6%”. Nonostante sia riconosciuta la positiva correlazione
tra investimenti in ricerca e sviluppo e produttività, l’Italia rimane
al palo. Un recente rapporto della Banca d’Italia (“Il gap innovativo
del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi”) segnala che
la spesa in Ricerca e Sviluppo in rapporto al PIL è di circa l’1% in
Italia, “un valore inferiore alla media della UE (1,8
per cento) e ben distante dalla Germania (2,6 per cento) e dai paesi
Scandinavi (Svezia e Finlandia si collocano sul 3,7-3,8 per cento)”.
Chiaramente, stante questi dati, il valore aggiunto delle produzioni
italiane non possono essere competitive.
E allora la domanda è: perché insistere sull’aumento delle ore di
lavoro o sulla velocità dei ritmi di lavoro? La risposta è in quegli
stessi dati: il padronato italiano ha rinunciato da molto tempo ad
essere competitivo sulla tipologia e sulla qualità del prodotto, e punta
tutto sul basso costo del lavoro. In questi termini, la competizione le
industrie italiane la fanno con i Paesi meno sviluppati dal punto di
vista industriale o emergenti e con maggiore sfruttamento del lavoro.
Per stare al passo di quei Paesi, bisogna adeguarsi ai loro standard
lavorativi.
Non è un caso che il modello produttivo che Fiat ha imposto ai
lavoratori serbi – che ad esempio prevede turni di 10 ore di lavoro,
straordinari e riduzione delle pause – fosse già stato previsto per
Mirafiori. E non è un caso che il Patto per la produttività sia il
naturale prolungamento dello sciagurato accordo del 28 giugno 2011 e dell’articolo 8 della “manovra di Ferragosto”,
che deregolamentano i rapporti di lavoro dando all’impresa la
possibilità di agire in deroga ai contratti nazionali ed alle leggi.
Il Patto per la produttività segna un altro passo verso la generalizzazione del ricatto di Marchionne. Chi lo firma sostiene quel ricatto, perché ne sostiene l’impianto ideologico e perciò gli interessi di classe padronali.
C.Tomeo - 21/11/2012
reset-italia.net
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