mercoledì 28 dicembre 2011

Firmato Accordo Integrativo Aziendale

Si comunica che in data odierna, 28 dicembre 2011 è stato siglato il nuovo Accordo Integrativo Aziendale approvato dai lavoratori tramite il referendum tenutosi il 6 e il 7 dicembre.
Tale accordo entrerà in vigore dal 1 gennaio 2012.
Si conferma che l'importo di una tantum verrà erogato in data 30 dicembre 2011.

lunedì 19 dicembre 2011

Giorgio Cremaschi: “Barricate per difendere ed estendere l’articolo 18”

Le dichiarazioni di esponenti del governo e della Confindustria che aprono la strada, come peraltro richiesto dalla lettera della Bce, verso la messa in discussione dell’articolo 18 e verso licenziamenti ancora più facili, sono di una gravità inaudita. Mentre la stessa Confindustria annuncia 800 mila nuovi disoccupati per il prossimo anno, si pensa di affrontare la crisi rendendo più facile il licenziamento. Il tutto in nome dei giovani. E’ un’autentica follia. Al contrario, di fronte a questa situazione drammatica sul piano occupazionale, occorrerebbero misure di segno opposto a quelle prospettate, quale il blocco dei licenziamenti e della chiusura delle aziende, l’estensione della tutela dell’articolo 18 a chi non ce l’ha. A questo punto occorre un’azione del movimento sindacale ben più incisiva di quella finora attuata.
Se davvero il governo andrà avanti a gennaio dobbiamo fare le barricate, ci vuole una mobilitazione sociale e politica in grado di fermare il governo e la Confindustria. Su questa materia non ci saranno prove di appello, o travolgeremo il governo, o tutti i diritti del movimento del lavoro ne verranno travolti.

Il fallimento dell’euro

Intervento scritto di Loretta Napoleoni all’assemblea NO Debito di Roma 17 dicembre

Cari compagni, mi spiace molto non essere qui con voi oggi. Vi mando alcune riflessioni sulla situazione economica e sulla politica di austerità del governo Monti.
Iniziamo dalla situazione economica: è ormai ufficiale che l’Europa è in recessione e che nel 2012 ci sarà un’ulteriore contrazione del PIL. Se saremo fortunati rimarremo intorno allo 0,5, 0,7% ma è escluso che ci sia crescita. Ad oriente la locomotiva cinese ha iniziato a rallentare e, sebbene nel 2011 la Cina crescerà di almeno il 9% l’anno prossimo si prospetta una flessione.
I motivi della recessione mondiale sono presto detti: il debito gigantesco dell’Europa Unita, in particolare dei paesi PIIGS, di cui noi facciamo parte. Voi direte: perché tanta preoccupazione quando il debito complessivo di Eurolandia è solo l’80% del PIL dell’area?
Perché l’integrazione che avrebbe dovuto accompagnare la moneta unica non è avvenuta ed oggi. Chi ci presta i soldi, il mercato dei capitali, non guarda ad Eurolandia come un’entità unica ma come un agglomerato di stati.
I vantaggi dell’euro, dunque, stanno svanendo rapidamente: questi erano l’indebitamento a basso prezzo e la garanzia finanziaria dei paesi più ricchi di noi. Rimangono solo gli svantaggi: una moneta troppo forte per la nostra economia e l’assenza di sovranità monetaria: solo la BCE può stampare carta moneta.
Chi ne fa le spese è l’economia reale, e quindi l’industria e gli operai: questi ultimi, in particolare, sono le vittime di un sistema economico che non funziona più. L’unione monetaria poggia sulla teoria dell’area con l’ottima moneta, teoria che sostiene che, quando un gruppo di economie sono molto simili o hanno un’alta flessibilità, avere una moneta comune è un vantaggio. Oggi è a tutti chiaro che tra noi e la Germania ci sono poche similitudini quindi l’unica soluzione per salvare l’euro è la flessibilità. Ciò significa che il costo del lavoro deve scendere per far sì che la nostra economia raggiunga i livelli di competitività di quella tedesca. Ed ecco spiegata la politica di Marchionne che vuole trasformare l’Italia nella Cina europea.
Questo meccanismo però non funziona proprio a causa dell’euro: anche ipotizzando che si potesse abbattere il costo del lavoro, quello di sopravvivenza rimane sempre alto perché monetarizzato in euro, una moneta forte.
Queste verità le sapevamo anche nel 2002, nel 2005 o nel 2007 quando il paese non cresceva ma nessuno ce le ha dette perché si suppliva a queste carenze con l’indebitamento. Dagli appalti ai furbetti del quartierino fino allo scempio dell’Aquila, lo stato metteva in circolazione denaro che bene o male manteneva a galla la barca. Ma nel momento in cui il mercato dei capitali ha deciso che il debito era troppo alto e che l’Italia rischiava la bancarotta, le cose sono cambiate. E dato che la crisi del debito sovrano dei paesi PIIGS ormai minaccia tutta Eurolandia, Bruxelles ci impone di attivare quella flessibilità adesso per riallinearci con i paesi ricchi del nord Europa.
I tagli imposti dal governo Monti hanno questo scopo e basta. Per riallinearci dobbiamo sprofondare nella povertà, come sta succedendo ai greci. Quello che voleva Marchionne si avvererà: la nostra forza lavoro sarà cinesizzata. Nella manovra, che tra l’altro cambia nei dettagli quasi quotidianamente per regalare concessioni alle varie lobby, non c’è assolutamente nulla che migliori l’occupazione e la competitività dell’industria italiana. Anzi direi che l’aumento dell’IVA e della tassazione su quella fetta di classe media tartassata da Berlusconi per anni perché a lui contraria, peggiorerà la situazione perché colpirà pesantemente la piccola e media impresa. Ma non sono certo io che ve lo devo dire: il sindacato e voi lavoratori lo sapete bene.
Dato che le banche italiane sono le uniche a sottoscrivere il debito che poi danno come collaterale alla BCE in cambio di denaro, e che questo serve a ricostituire le riserve di capitale, l’impresa non solo è in competizione con lo stato per approvvigionarsi ma ha sempre meno accesso al credito. 
E’ quindi evidente che la politica di austerità imposta dall’Europa Unita, o meglio dall’asse conservatore Merkel Sarkozy, avrà in Italia gli stessi effetti che ha avuto in Grecia. In 18 mesi l’economia greca è precipitata nella depressione. Le ultime proiezioni del Fondo Monetario ci dicono che alla fine del 2011 il PIL greco si sarà contratto del 7%. Come farà questo paese a riprendersi? Nessuno fuori della Grecia sembra chiederselo. Monti ed il suo governo di tecnici cattolici farebbe bene ad andare in gita nel Pireo per toccare con mano i risultati dell’austerità. La disoccupazione ha superato il 40%, il pubblico impiego è stato la prima vittima ma ormai anche il turismo risente dei tagli, il paese è prossimo al collasso. 
Purtroppo tra il  governo Monti e  quello precedente c’è poca differenza. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, insomma, ed infatti dietro Monti ci sono gli stessi poteri forti che hanno appoggiato Berlusconi.  A me sembra proprio che si sia ricostituito il grande centro e che sia guidato da gente di centro destra. Ma questo non è il problema principale; ciò che temo è che anche questo governo sia composto da ideologi neo-liberisti che non si rendono conto delle conseguenze drammatiche delle loro decisioni.
L’Italia deve abbandonare questa strada e rinegoziare la sua adesione all’Europa Unita. Deve uscire dall’euro ed affrontare un default pilotato. Il prezzo sarà altissimo, anche in termini di occupazione, ma almeno questa politica, se fatta bene, ci porterà a crescere di nuovo. Il sindacato dovrebbe avviare degli studi a riguardo, produrre scenari alternativi da discutere con il governo. Come succedeva un tempo, il sindacato deve proporre e non accettare solamente.  E, naturalmente, bisogna tornare a lottare in piazza, poiché è solo lì che ormai si esercita la democrazia.
E’ ora di tornare a far sentire la nostra voce e di smettere di parlare dei privilegi della casta; qui in gioco c’è l’economia di un intero paese e la dissoluzione dei diritti dei lavoratori: è una situazione esplosiva, da rivoluzione.

giovedì 15 dicembre 2011

Solidarietà ai fratelli senegalesi e al popolo rom

Basta col razzismo e la xenofobia. Diritti per tutte e tutti!
La strage razzista di Firenze, il polgrom antirom a Torino, dimostrano che la misura è colma, che si è andati oltre, che bisogna reagire. Razzismo e xenofobia hanno covato per anni nel nostro paese, alimentati dai governi e dalla destra, dal leghismo, dal neofascismo, ma anche da tanta cultura "legge e ordine" utilizzata per tutti gli schieramenti politici.
Ora bisogna reagire, biosgna scendere in piazza contro il neofasismo, il razzismo e la xenofobia per chiedere diritti per tutte e tutti, l'abolizione della legge Bossi-Fini e della persecuzione continua contro i migranti.
Che i fratelli senegalesi morti a Firenze, non siano almeno caduti invano!
Chiudiamo Casa Pound, come hanno chiestio gli immigranti di Firenze.
basta col razzismo

Eguaglianza e Costituzione per tutte e tutti!

No al debito, no a Monti. Il 17 assemblea a Roma

Dobbiamo fermarli! Così concludevamo l’appello lanciato nel luglio scorso contro l’Europa delle banche e della speculazione finanziaria, appello che portò all’assemblea di Roma del 1° ottobre.
Quando siamo partiti c’era ancora il governo Berlusconi e la politica economica dettata dalla finanza internazionale si era scatenata soprattutto sulla Grecia. Pensavamo che sarebbe arrivata da noi, visto che l’Ue di oggi ne è una pura esecutrice, tuttavia non potevamo prevedere che tutto sarebbe precipitato così in fretta. Invece l’attacco speculativo al debito pubblico italiano e a quello di tutti i principali paesi dell’Ue, e il contemporaneo totale fallimento del governo Berlusconi, hanno portato a far sì che il governo unico delle banche divenisse il concreto governo della Repubblica italiana.
Ora che la lettera della Bce è diventata formalmente programma di governo, ciò che sembrava largamente diffuso nell’opinione pubblica e soprattutto nella grande informazione, non lo è più. Come in Fiat la brutalità di Marchionne ha cancellato il contratto nazionale e ha costruito il consenso alla schiavitù del lavoro rispetto alla globalizzazione, così il governo Monti costruisce il consenso alla schiavitù del paese rispetto al diktat della speculazione sul debito.
Eppure basterebbero poche cifre, per dare l’idea della brutalità, e anche della follia dell’offensiva che stiamo subendo. La manovra lacrime e sangue del governo porta via dalle nostre tasche sostanzialmente 30 miliardi di euro. Secondo la Cgia di Mestre la somma complessiva delle manovre adottate dal governo Berlusconi e da quello Monti, porta via, entro la fine del 2014, 208 miliardi di euro. E’ una cifra enorme, in gran parte, almeno al 90%, pagata dai lavoratori, dai pensionati, dai poveri. Eppure non basterà. Con i tassi di interesse attuali sui buoni del tesoro l’Italia dovrà pagare dagli 80 ai 90 miliardi all’anno solo per gli interessi sul debito. Quindi nello stesso periodo di tempo ci vorranno dai 250 ai 300 miliardi solo per pagare gli interessi sul debito, senza intaccarlo minimamente nella sua dimensione complessiva.
Queste aride cifre ci dicono che le manovre non basteranno, che si dovrà tagliare ancora e che tutto questo provocherà ulteriori disastri all’economia. E’ la medicina greca, adottata da tutti i governi dell’Europa, cambiando solo le dosi a seconda del Paese a cui viene applicata. Oggi pare che in Grecia l’Ue chieda il licenziamento di 150mila dipendenti statali, fatte le proporzioni sarebbe quasi un milione da noi. Si fanno le manovre, si scopre che non bastano perché l’economia si deprime ancora di più e quindi si torna a farne delle altre, mentre il debito resta sempre lì a imporci la sua schiavitù.
E’ un meccanismo di semplice usura, quello a cui i governi europei sotto il dettato della finanza internazionale e delle banche stanno sottoponendo i loro cittadini. Il governo Monti è espressione di questa politica fallimentare. Nello stesso tempo si affossa la democrazia. In Grecia il primo ministro Papandreu è stato sostituito quando voleva fare un referendum sulle misure dettate dall’Europa. In Italia si è fatto il governo Monti, per non andare al voto, perché lo spread non voleva.
Qui bisogna essere chiari. La stima personale che abbiamo nei confronti del presidente della Repubblica non cancella il fatto, ormai riconosciuto in Italia e all’estero, che stiamo precipitando verso un modello di governo più monarchico che repubblicano. Nella nostra democrazia costituzionale non sono previsti governi del presidente, governi del sovrano, e il precedente è inquietante. Immaginiamo infatti se al posto di Napolitano ci fossero altre personalità, simili ad altri presidenti che hanno esercitato la loro funzione nella storia della nostra Repubblica. Immaginiamo come potrebbero utilizzare il potere presidenziale che si è così creato. Sì, dobbiamo essere preoccupati profondamente per la crisi della nostra democrazia. E d’altra parte, cosa si sta realizzando in Fiat se non prima di tutto la cancellazione delle libertà fondamentali di sciopero e di rappresentanza per i lavoratori del gruppo? L’economia della globalizzazione, se non viene contrastata distrugge la democrazia, nella fabbrica, nella società, nelle istituzioni. E il governo Monti non ha nemmeno un centesimo di anticorpo culturale per opporsi a questa deriva.
Per reggere dobbiamo ripartire dall’opposizione a questo governo, alla logica e ai principi che lo ispirano, ai mandati che deve eseguire.
Il 17 a Roma ci troviamo proprio per questo. Per costruire un punto di vista alternativo a quello del governo delle banche che domina l’Europa oggi e per essere coerentemente alternativi al governo Monti e a chi lo sostiene. La situazione è troppo grave per limitarci a chiedere il cambiamento a questa o a quella misura. E’ la schiavitù del debito che va rovesciata, e con essa, in tutta Europa, i governi che se ne sono fatti interpreti.
E’ una grande sfida democratica, decisiva per non precipitare nella barbarie, nelle guerre tra i poveri, nei razzismi, che crescono come sempre nella storia europea in tempi di crisi. Bisogna dire basta alle politiche liberiste che ci governano da trent’anni e che ci hanno portato a questa crisi. E’ necessaria l’unità tra chi si oppone oggi da sinistra al governo Monti. La situazione è troppo grave perché si possa continuare così e a mobilitarsi in ordine sparso. E’ allarme rosso, compagni e compagne, dobbiamo unirci per lottare contro chi ci vuole distruggere e l’assemblea del 17 a Roma vuole mandare questo chiarissimo messaggio.

Giorgio Cremaschi

Il trilemma dell'Unione europea

Nell suo ultimo bel libro sui paradossi della globalizzazione, l'economista di Harvard Dani Rodrik descrive il "trilemma" dell'economia mondiale: democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione economica sono obiettivi che possono essere perseguiti solo a coppie. Secondo Rodrik, se si vuole perseguire l'iperglobalizzazione economica e mantenere la sovranità nazionale bisogna rinunciare ad elementi sostanziali di democrazia. Se si vuole salvare la globalizzazione e garantire allo stesso tempo la possibilità di scelte democratiche, bisogna rinunciare alla centralità della nazione in favore di autorità democratiche globali. Se invece si intende salvare lo Stato nazione e la democrazia politica, allora bisogna rinunciare all'iperglobalizzazione e limitarne l'azione in alcuni settori. Quest'ultima scelta è la soluzione preferita da Dani Rodrik: le diversità sociali e culturali fra i popoli del mondo impedirebbero una vera e propria democrazia globale.
Il trilemma descritto qui sopra, applicato a quell'esempio di sistema economico regionale che è l'Unione europea, spiega al meglio le diverse alternative che si presentano oggi ai cittadini europei. Anche nell'Unione europea, Stati nazionali, democrazia politica e Mercato unico imperniato sull'euro, non possono essere perseguiti tutti e tre allo stesso tempo, ma solo a coppie.
Se infatti si vuole salvare il Mercato unico (e con esso l'euro) e allo stesso tempo la sovranità nazionale bisogna rinunciare a quote significative di democrazia politica. Rodrik chiama questa opzione la "regola aurea": un meccanismo in cui per sopravvivere i governi nazionali dovrebbero perseguire solo politiche adatte ad attrarre capitali e a godere della fiducia dei mercati, e dunque gli ambiti delle scelte democratiche sarebbero estremamente limitati.
Al contrario, se si vuole mantenere partecipazione democratica e Stati nazionali bisogna rinunciare all'euro e al Mercato unico e ritornare al tempo del "Mercato comune" - il modello di integrazione europea esistente fino metà degli anni '80 - in cui non vi era piena libertà di movimento dei capitali e gli Stati potevano proteggere, in caso anche legiferando in autonomia, le caratteristiche essenziali dei propri compromessi sociali e dei servizi pubblici. 
In ultimo, se l'obiettivo è quello di preservare l'euro e allo stesso tempo la democrazia partecipativa, bisogna necessariamente sacrificare quote sostanziali di sovranità nazionale. Occorre cioè creare un governo democratico e federale dell'economia che possa legiferare in materia di politica economica e non solo.
L'illusione che questo "trilemma" non esista sta facendo prevalere nei fatti la prima opzione. Deve essere chiaro che il percorso tracciato da Merkel e Sarkozy il 9 dicembre scorso a Bruxelles, e appoggiato dall'attuale governo italiano, va esattamente nella direzione di ridurre, fino a renderli inconsistenti, i margini delle scelte democratiche. Norme di bilancio rigide, decise attraverso accordi intergovernatativi e gestite da entità sovranazionali come la Corte di giustizia di Lussemburgo (Maastricht 2), diventeranno tavole della legge sulle quali nessun potere democratico potrà incidere. Gli stessi trattati intergovernativi prevederanno modifiche della Costituzione - in primo luogo quella del pareggio di bilancio - avverando l'impensabile risultato di accordi fra governi in grado di modificare il patto sul quale si fonda il rapporto fra Stato e cittadini. Sul mercato del lavoro, la tassazione e le privatizzazioni, i popoli europei dovranno accettare che i propri governi mettano semplicemente lo stampino a quanto loro richiesto da organismi non eletti come la Commissione europea e la Banca centrale o del tutto imperscrutabili come i mercati.
Di fronte a tutto ciò occorrono massicce mobilitazioni sociali che siano in grado di bloccare questo processo e la più larga alleanza possibile fra le forze politiche, intellettuali e sociali di tutti i paesi europei. Tale sussulto di dignità e partecipazione non potrà prescindere da una dura opposizione al governo di Mercozy e Monti e dovrà mirare a far prevalere, contro ogni tentazione autarchica, l'opzione della salvaguardia dell'euro e allo stesso tempo dello spostamento a livello europeo di alcune scelte democratiche, con la creazione di un governo federale dell'economia. Questo governo dovrà legiferare sulle politiche di bilancio, sul fisco e sugli standard lavorativi, ma dovrà anche promuovere una salvaguardia dei beni comuni europei contro il loro progressivo svilimento.
Giuliano Garavini

lunedì 12 dicembre 2011

Cremaschi: “Sciopero: azione simbolica. Bene solo quando Cgil e Fiom hanno fatto da sole”

Lo sciopero di 3 ore complessivamente non è andato bene e non poteva che essere così. E’ stato organizzato nella totale confusione, come uno sciopero pressoché simbolico. (...)
E’ stato preceduto da un ridicolo incontro con il governo ove Cgil, Cisl e Uil hanno solo mostrato debolezza e impotenza di fronte a un esecutivo che prendeva il sindacato (sobriamente) a pesci in faccia.
Gli unici successi sono quelli degli scioperi e delle manifestazioni della sola Fiom e della sola Cgil, che si sono tenuti a Brescia, in Emilia, in parte a Torino e in altre sedi. I presidi unitari, dove sono stati organizzati, sono stati veri e propri piccoli presidi.
Si conferma che mentre contro i lavoratori viene sferrato un attacco senza precedenti, la debolezza e la confusione con cui si muovono Cgil, Cisl e Uil, non solo non rappresentano una risposta ma anzi sono, in alcuni casi persino controproducenti, perché rafforzano le intenzioni di chi, nel padronato, nel governo e nelle banche, vuole andare fino in fondo con il rigore.
Il vecchio modello di azione sindacale è morto, in Italia e in Europa. O si fa sul serio o non si conta nulla.
Per questo gli unici punti di tenuta della giornata odierna sono stati quegli scioperi e quelle manifestazioni che erano contro Monti, contro Marchionne e senza Cisl e Uil che oggi non hanno alcuna credibilità nel lottare contro una politica economica e contro un attacco ai diritti che finora hanno accettato.
Così non va, l’abbiamo detto e lo ribadiamo, occorre costruire un’opposizione vera a Monti, Marchionne e alla Bce, ed è per questo che ci troviamo il 17 a Roma.
Giorgio Cremaschi

mercoledì 7 dicembre 2011

Risultati referendum su Accordo Integrativo Insiel

Si comunica l’esito del referendum sull’approvazione dell'Accordo Integrativo Aziendale Insiel, tenutosi nelle giornate del 6 e 7 dicembre 2011.


Aventi diritto al voto: 730
Votanti: 608 (83%)
Schede Bianche: 3 (0,49%)
Schede Nulle: 2 (0,33%)
NO: 30 (4,93%)
SI: 573 (94,25%)

sabato 26 novembre 2011

Cremaschi: Ecco perché quello di Fiat è fascismo aziendale

Vorrei rispondere alle critiche che ho ricevuto per aver usato la definizione fascismo aziendale per quello che oggi sta facendo la Fiat di Marchionne.
Partiamo dai fatti. Dopo la svolta di un anno e mezzo fa, quando l’amministratore delegato del gruppo lanciò il suo diktat agli operai di Pomigliano, l’aggressione al diritto dei lavoratori si è estesa a valanga nel Paese. Altro che eccezione, come disse allora il segretario del partito democratico. Il ricatto Fiat («O rinunci ai diritti o non lavori») è diventato il leit motiv che ha guidato la più grave offensiva contro i contratti, i diritti, le leggi a tutela del lavoro dal ’45 a oggi. Il sistema Pomigliano si è prima esteso a tutto il sistema Fiat e poi è diventato un modello per tutte le relazioni sindacali. L’arroganza e lo strapotere della casta dei top manager ha perso ogni senso della misura.
Cito qui, tra tanti episodi, il vergognoso licenziamento di Riccardo Antonini deciso dall’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Licenziamento avvenuto perché questo ferroviere è tecnico di parte civile per le famiglie vittime della strage di Viareggio. Il dovere della fedeltà, costi quel che costi, al capo dell’azienda e ai suoi principi è diventato la costituzione formale che ha sostituito in tanti luoghi di lavoro i principi della costituzione repubblicana.
Con l’accordo interconfederale del 28 giugno il principio delle deroghe al contratto nazionale è stato accettato da tutti i sindacati compresa la Cgil e con l’articolo 8 del decreto sulla crisi, voluto da Sacconi, si è persino stabilita la facoltà per le imprese prepotenti (e per i sindacati venduti ad esse) di non applicare più la legge dello Stato, a partire dalla tutela contro i licenziamenti.
Il dilagare del modello Marchionne ha comportato un giro di vite terribile sulle libertà dei lavoratori. Anche chi non usa quegli strumenti esplicitamente, li utilizza come minaccia. Se consideriamo che già una parte del mondo del lavoro, quello con contratti precari, è sottoposto al supersfruttamento, comprendiamo come l’attacco alla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori sia diventato una costante comune ovunque.
In Fiat a tutto questo si aggiunge un sistema persecutorio meticoloso e raffinato, indagini sul pensiero e sui sentimenti dei dipendenti che vanno persino a rovistare su facebook. Un clima di intimidazione e di attacco alle libertà personali che si traduce nella consapevolezza che ogni lavoratore ha di essere sottoposto a un regime speciale.
I licenziamenti politici, come quelli avvenuti a Melfi, l’autoritarismo continuo, l’oppressione sul lavoro resa ancora più forte dal fatto che si continuano a chiudere fabbriche, tutto questo non è ancora fascismo.
Nel suo bellissimo ultimo romanzo “One big union” Valerio Evangelisti ci racconta le terribili lotte e le violentissime persecuzioni che subì il movimento operaio americano alla fine dell’ottocento. Marchionne e la casta manageriale che ragiona e si comporta come lui vengono da quella cultura. Da quelle campagne antisindacali fondate sulla liquidazione di chi si oppone ai voleri dell’azienda e sulla costruzione sapiente di sindacati servili per il padrone e inutili per i lavoratori. La storia della Fiat affonda in queste radici americane. Quelle che fecero sì che il presidente Roosevelt, negli anni Trenta considerasse Henry Ford un padrone autoritario da contrastare e combattere in tutti i modi.
Si può quindi definire la politica di Marchionne come una politica autoritaria, aziendalista e reazionaria, distruttrice di posti di lavoro e di diritti, senza utilizzare il termine fascismo. Perché allora l’ho usato? Perché con l’ultima decisione, quella di applicare dal 1° gennaio il contratto Fiat a tutti gli stabilimenti del gruppo, sia dell’auto che degli altri settori, l’azienda compie un passo in più.
Negli anni Cinquanta il capo della Fiat, Vittorio Valletta, usò tutte le politiche antisindacali e autoritarie, tutti gli strumenti della repressione allora conosciuti. Si fermò però di fronte ad una soglia: non abolì mai le elezioni delle commissioni interne. Anche nei periodi più bui della persecuzione della Fiom e dei comunisti e dei socialisti in fabbrica, i lavoratori periodicamente votavano per eleggere i propri rappresentanti. Marchionne ha invece abolito le elezioni. Dal 1° gennaio 2012 i lavoratori Fiat avranno solo sindacalisti nominati dall’alto, con il gradimento dell’azienda, le elezioni delle Rsu sono formalmente abolite.
C’è un solo precedente nella storia del nostro Paese che possa essere citato. Il 2 ottobre 1925, presidente del consiglio Benito Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi e fascisti si accordarono per riconoscersi reciprocamente l’esclusiva nella rappresentanza sindacale. E conseguentemente abolirono le elezioni delle commissioni interne.
In un Paese ove è stata condotta una grande e giusta campagna contro i parlamentari nominati, e che però oggi subisce un governo nominato, non c’è da stupirsi se la cancellazione della democrazia formale negli stabilimenti Fiat passi sotto silenzio. Purtroppo verifichiamo ogni giorno che quando si parla di economia non c’è più la democrazia e che i principi brutali annunciati un anno e mezzo fa da Marchionne si stanno estendendo dalla fabbrica a tutta la società e a tutte le istituzioni. Per questo ho usato questo termine.
Marchionne ha dichiarato che la disdetta di tutti i contratti per imporre un nuovo sistema senza alcuna libertà formale per i lavoratori costituisce una semplice scelta tecnica. Tecnicamente è fascismo aziendale. La definizione è un po’ forte, si capisce chi la critica ricordando che il fascismo è stato qualcosa di ben altro e di ben più terribile. Tuttavia io penso che debba essere usata e urlata per forare il muro dell’indifferenza e della complicità che sta coprendo il massacro delle libertà fondamentali in Fiat. In Fiat soltanto? Un’altra eccezione? Non credo proprio.

martedì 22 novembre 2011

Si riparte dal no al governo Monti

Marco Revelli sostiene che occorre di nuovo "baciare il rospo". Non sono d'accordo. Monti gestirà un programma durissimo. Si può lavorare per costruire un'ampia opposizione sociale e politica

Mi dispiace tanto, ma questa volta non sono proprio d’accordo con il mio amico Marco Revelli. In tutti questi anni ci siamo sempre trovati dalla stessa parte. Questa volta no. Io non bacio il rospo e mi preparo a fare tutto quel che mi è possibile per mandarlo via.
Confesso che non sono sceso in piazza con la bandiera tricolore per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ho passato questi ultimi 17 anni a combattere Berlusconi, la sua cultura, le sue prepotenze. Prima ho fatto lo stesso con il suo maestro Craxi. Eppure la sera del 12 novembre non l’ho sentita come una liberazione. I paragoni storici che si stanno facendo mi paiono fuorvianti. Come Marco Revelli non vedo nessun 25 aprile in atto. Non mi risulta che il governo di allora fosse di larghe intese tra Cln e Repubblica sociale. Ma non vedo nemmeno un chiaro 25 luglio, se non per l’annuncio del governo Badoglio: “la guerra continua”. 
Se proprio si deve ricorrere ai paragoni storici, bisogna tornare all’Europa del 1914. Al suicidio di un continente nel nome della guerra e del nazionalismo, e alla corrispondente dissoluzione di gran parte della sinistra socialdemocratica e dei sindacati. Oggi per fortuna non siamo (ancora?) a quel punto ma è sicuramente in atto un suicidio e una dissoluzione dell’Europa e della sinistra in essa. La guerra del debito, scatenata in tutto il continente, sta mettendo in crisi democrazia e conquiste sociali. Tutti i governi europei sono soggetti alle stesse scelte e agli stessi indirizzi economici. Poi, benignamente, questa tirannia finanziaria ci concede la facoltà di accettarla. Ma non si può dire di no. Il governo Greco è stato destituito perché voleva fare un referendum. In Italia le elezioni politiche immediate farebbero salire lo spread e quindi non si fanno. 
A me tutto è più chiaro da un anno e mezzo, da quando Marchionne disse agli operai di Pomigliano che se volevano lavorare nell’epoca della globalizzazione, dovevano rinunciare a tutti i loro diritti. E aggiunse che potevano solo votare sì al referendum sul suo diktat, perché il no avrebbe comportato la distruzione dell’azienda. Marchionne, fino a poco tempo prima incensato come borghese illuminato, così come oggi Monti, ottenne il consenso pressoché unanime del parlamento italiano. 
Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale, con suoi intellettuali organici di valore. E’ la prima volta che questo avviene nella storia della nostra repubblica ed è sicuramente un segno della crisi totale della classe politica. In questi venti anni il padronato italiano ha alternato politiche di rottura populista e politiche di concertazione democratica. L’obiettivo era sempre lo stesso, contenere il salario ed estendere flessibilità e precarietà, allargare la sfera del profitto con le privatizzazioni. Quando le condizioni lo permettevano e si sentiva particolarmente forte, il padronato italiano ricorreva a Berlusconi  e alla destra. Se la risposta sociale e politica cresceva, allora si tornava alla concertazione. Quest’ultima ammorbidiva le scelte, le rallentava, ma non ne fermava la direzione di fondo.
La novità è che oggi il sistema economico dominante salta qualsiasi mediazione politica, non si fida più non solo di Berlusconi, ma anche dell’opposizione e decide di agire in proprio. Altro che governo tecnico, questo è uno dei più politici e ideologici tra i governi della repubblica. E’ il governo che più nettamente sposa l’ideologia neoliberale. 
La crisi economica mondiale ha travolto la ridicola classe politica italiana, così come è toccato ad altre del continente. Non bisogna credere ai complotti, anche se oggi la stampa annuncia un programma segreto della Germania per controllare le economie in crisi. Sarà quindi un puro caso, ma tutti i paesi piigs sono stati posti rapidamente sotto controllo. Se si fossero messi assieme, se avessero fatto una comune politica del debito, come a un certo punto i paesi dell’America Latina, banche tedesche e Fondo monetario internazionale sarebbero dovuti venire a patti. La ridicola classe politica europea è invece stata facilmente travolta e commissariata. 
Anche a me fa piacere la sobrietà e lo stile del nuovo governo, contrapposto ai nani e alle ballerine, ai bordelli, alle barzellette che facevano piangere, al degrado culturale e civile che ispirava quello precedente. Tuttavia la mia esperienza sindacale mi ha insegnato che il padrone per bene, quello che dice “siamo tutti nella stessa barca tutti dobbiamo fare gli stessi sacrifici”, può farti molto più male del padrone sfacciato e impresentabile. 
Questo governo ha un mandato chiaro, quello della Bce. E’ il mandato di quel capitalismo internazionale che pensa di affrontare la sua stessa crisi con riforme neoliberali, come negli ultimi trent’anni. Con la solita ipocrisia dell’equità e del rigore, si mettono in discussione ancora una volta i diritti pensionistici dei lavoratori, la tutela contro i licenziamenti, i diritti contrattuali, i diritti punto e basta. Si risponde al referendum sull’acqua con le privatizzazioni e si annuncia quella mostruosità giuridica ed economica del pareggio di bilancio in Costituzione. Si risponde agli studenti in sciopero esaltando la riforma Gelmini. Sì, certo, la sobrietà del governo produrrà dei contentini. Un po’ di privilegi di casta politica verranno tagliati, ma solo per giustificare i sacrifici sociali. Si annuncia che non ci sarà massacro sociale. Ma questo è già in atto. E’ la crisi, è la recessione che stanno producendo una drammatica selezione sociale. Il governo può anche non volere il massacro, ma se opera con riforme neoliberali lo agevola e lo accresce.
E’ la ricetta neoliberista che è destinata a fallire. Perché non si riuscirà, per quanti sacrifici si impongano, a far ripartire il meccanismo della globalizzazione. Per questo sarebbe necessario prima di tutto prendere atto della crisi di sistema, cosa che Monti nella sua relazione programmatica si è ben guardato dal fare. E costruire una vera alternativa. Il debito non può essere pagato da un’economia in recessione, pretendere di farlo a tutti i costi significa aggravare la recessione e appesantire il debito. E’ successo alla Grecia e succederà all’Italia, nonostante la professionalità di Monti.
Bisogna partire dall’opposizione al nuovo governo per costruire un’alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo. 

Giorgio Cremaschi (Il Manifesto 22 novembre 2011)

lunedì 21 novembre 2011

Giorgio Cremaschi: "Contro il fascismo Fiat fatti, non parole”

Un anno e mezzo fa a Pomigliano Marchionne per la prima volta imponeva il suo diktat.
Allora in tanti dissero che quella era un’eccezione. Oggi quell’eccezione è diventata la distruzione del contratto nazionale e la negazione delle più elementari libertà per i lavoratori.
Quello della Fiat è un sostanziale fascismo, perché non solo si vogliono imporre condizioni di supersfruttamento ai lavoratori, ma si vuole anche impedire ad essi la libera azione sindacale e persino il libero voto per le proprie rappresentanze. Nemmeno negli anni Cinquanta la Fiat si sognò di abolire le elezioni delle Commissioni interne. Oggi Marchionne stabilisce un sistema extracostituzionale ed extralegale che cancella per i lavoratori Fiat le libertà costituzionali.
Non è più il tempo delle parole o dei timidi distinguo. Ognuno è chiamato a dire da che parte sta. In primo luogo chiediamo una rigorosa autocritica a chi, dicendosi di sinistra e per la democrazia come i sindaci di Torino e Firenze, ha sinora appoggiato l’autoritarismo di Marchionne. Il governo, a sua volta, ha uno strumento molto semplice per dimostrare che non è d’accordo con la Fiat: mettere in mora e abolire l’articolo 8 della manovra del precedente governo. Senza quell’articolo l’operazione di Marchionne è priva di qualsiasi sostegno giuridico. Se questo non verrà fatto vorrà dire che il governo sostiene nei fatti l’azione della Fiat.
Il tempo delle parole è finito, se si vuole fermare il dilagare del fascismo aziendale dalla Fiat a tutto il paese, è il momento di fatti nudi e crudi.

domenica 20 novembre 2011

Se il capitalismo divorzia dalla democrazia

Mi è capitato di partecipare a uno di quei talk show televisivi ove la confusione è programmata per fare audience. Lì ho sentito Massimo Cacciari affermare con fastidio che, di fronte al fallimento della democrazia degli stati, è persino ovvio accettare le necessità imposte dall’economia globale. Tale terribile affermazione è scivolata via e questo mi ha convinto che, dopo il postmoderno ed il postfordismo, è il momento della postdemocrazia. Tanti intellettuali di sinistra hanno così accettato lo stato di necessità alla base della costituzione del governo Monti. Tutte le munizioni della critica si sono esaurite nella lotta contro Berlusconi?
La devastazione sociale e culturale di questi 20 anni è stata terribile, così come lo è stato il logoramento della democrazia, ridotta sempre più al pronunciamento popolare su un capo a cui affidare tutto. Mentre azienda e politica, mercato e potere si intrecciavano sempre di più. Berlusconi, che oggi lamenta una democrazia sospesa, è vittima dei meccanismi che ha costruito: il degrado del paese alla fine si è concentrato sulla figura del suo capo.
Pochi mesi fa Alberto Asor Rosa auspicò una deposizione dall’alto di Berlusconi. E questa alla fine c’è stata per opera di quella superiore autorità che è oggi il mercato finanziario internazionale. Non illudiamoci, non siamo stati noi che abbiamo tanto lottato alla fine a far cadere il governo, ma lo spread. Come è toccato alla Grecia, anche l’Italia è stata commissariata. Il ruolo del Presidente della Repubblica, la pacificazione nazionale vengono dopo questa presa di potere da parte mercati internazionali.
I partiti si erano già arresi da tempo. Lo si era capito già un anno e mezzo fa quando Sergio Marchionne impose agli operai di Pomigliano di rinunciare a tutti i diritti pur di lavorare. Marchionne, come Monti, si è presentato in veste austera e con la fama di borghese illuminato, e ha imposto le scelte più feroci come stato di necessità di fronte alla globalizzazione. E il 95% del Parlamento lo ha sostenuto.
Allora Marco Revelli si scagliò con passione e intelligenza contro la FIAT e chi l’appoggiava. Oggi si schiera a favore dell’inevitabile necessità del governo Monti, che pure Marchionne ha sostenuto e difeso. Certo il governo non è un amministratore delegato, anche se questo governo tecnico è ciò che ci somiglia di più. Il punto è che il programma di questo governo è esattamente la lettera della BCE, che a sua volta è il programma unificato che viene imposto a tutti i governi europei dal capitalismo internazionale.
Si sono utilizzati molti paragoni storici in questi giorni. Per me l’unico davvero calzante è quello con il 1914, quando l’Europa e la sinistra si suicidarono per fare la guerra. Oggi la guerra è la schiavitù del debito, che impone lo stesso stato di necessità, lo stesso appello all’unità di patria, la stessa ricerca di un consenso unanime. Se guardiamo in questi giorni il telegiornale a reti unificate che viene trasmesso dalle principali reti italiane, sembra già di essere in una informazione di guerra.
Basta la caduta di Berlusconi a far accettare tutto questo? Per me no. Il governo Monti, con intellettuali di valore, è espressione diretta di quella ideologia neoliberale che ha guidato la politica economica degli ultimi trent’anni. La crisi economica attuale, la crisi della globalizzazione sono proprio il frutto di quelle politiche, eppure il programma economico e sociale del governo propone un rilancio di esse, giustificato da dichiarazioni di equità e da qualche taglio alla casta politica.
Il programma del governo Monti è un classico programma di destra economica liberale e per questo fallirà. Non eviterà il massacro sociale per la semplice ragione che il massacro è già in atto e le politiche liberali non lo fermeranno, quando non lo agevoleranno. E’ il sistema che e’ andato in crisi e non lo si salva certo con l’ unita’ nazionale attorno alle politiche di sempre. La guerra del debito va fermata e non invece combattuta fino al disastro. Occorre una radicale svolta nelle politiche economiche in italia e in europa,a favore del pubblico del sociale, ci vuole una  drastica redistribuzione della ricchezza, altro che equità dei sacrifici  per rassicurare i mercati.
Il governo Monti fallirà nel suo obiettivo di fondo, rilanciare la crescita, e la crisi si aggraverà. A quel punto cosa succederà della nostra democrazia già posta sotto il vincolo della necessità?
Michele Salvati sul Corriere della Sera paragona Monti a un dictator romano, ma afferma che il suo compito è più difficile perché camera e senato dovranno approvare ogni sua iniziativa… Quali poteri speciali verranno reclamati allora per il governo, se le cose dovessero peggiorare e se la logica politica resterà la stessa? Dove ci fermeremo se ci fermeremo?
Il capitalismo occidentale sta divorziando dalla democrazia, se si vuole salvare la seconda bisogna mettere in discussione il primo. Superato Berlusconi resta in piedi tutto il meccanismo ideologico e di potere che l’ha portato al governo in questi anni.
Credo che questo sottovalutino alcuni amici intellettuali profondamente impegnati. Io penso essi non abbiano colto la dimensione della crisi e anche quella delle forze in campo. Essi sperano che il governo Monti ci dia una tregua nella quale riorganizzare le forze per una alternativa reale al berlusconismo. Ma si sbagliano, la tregua non ci sarà, ci sarà invece l’attacco all’articolo 18 e alle pensioni, ai bene comuni e alla scuola pubblica e non perché i nuovi governanti siano cattivi o prepotenti, ma perché questo è il loro mandato. No, questa tregua non ci sarà e per difendere la democrazia e cambiare davvero si dovrà partire dall’opposizione a questo governo e non dal consenso, seppure per necessità, ad esso.

Giorgio Cremaschi – da Liberazione

martedì 15 novembre 2011

Lettera del figlio di un operaio


Dal berlusconismo al bocconismo

Se, come pare, il prossimo governo Monti sarà composto dalle personalità apparse sui giornali, potremmo dire che l’Università Bocconi sarà andata al governo del paese.
La Bocconi non è soltanto una scuola di eccellenza, a pagamento, ma è anche una ideologia. La Bocconi è il centro della cultura e della proposta politica liberale e liberista. I bocconiani pensano che l’Italia abbia ancora troppi freni al libero sviluppo del mercato e che solo tagliando tutti i lacci e lacciuoli che frenano la crescita, questa potrà ripartire.
Non sappiamo quanto di questa ideologia si tradurrà in programma concreto, basta però leggere la lettera della Bce per capire che qui c’è la sostanza del governo Monti. La crescita nasce dai tagli e dai sacrifici. Che naturalmente dovranno essere più equi possibili, ma che sostanzialmente, per fare cassa, non potranno che colpire prima di tutto e più di tutto il lavoro dipendente e i redditi medi. Queste, del resto, sono le ricette che la Banca centrale europea ha applicato in Grecia, portando quel paese a una recessione senza ritorno. 
Qui però ci interessa sottolineare l’aspetto culturale. Per anni l’Italia è stata invasa dall’ideologia berlusconiana. Quel misto di populismo e ricerca dell’interesse personale a tutti i costi, che è stato alla base del berlusconismo. Oggi muore il berlusconismo, e gli succede un’ideologia di destra più austera, ma non meno pericolosa. Il bocconismo. 
C’è un solo aspetto positivo in tutto questo. Che i commentatori economici bocconiani che in questi giorni sono scatenati su tutti i mass-media con le loro ricette, non potranno sottrarsi più all’onere di essere nel governo. Essi sono oggi a Palazzo Chigi e troverei un po’ ridicolo per loro praticare una cultura politica di lotta e di governo. No, i bocconiani sono ora al governo e dovranno assumere tutte le responsabilità del disastro che le loro ricette provocheranno nel paese.
di Giorgio Cremaschi

sabato 12 novembre 2011

Governo Monti: dichiarazione di Giorgio Cremaschi, FIOM

Dalle prime indiscrezioni sui nomi che dovrebbero comporre la compagine del governo Monti, pare che si stia discutendo di persone più adatte al consiglio di amministrazione delle Assicurazioni Generali che al Governo della Repubblica. Se il governo Monti si farà davvero così e con il programma contenuto nella lettera della BCE, questo governo non si troverà di fronte solo un'opposizione leghista, ma anche un'opposizione di sinistra e sociale, che magari non è rappresentata in Parlamento ma c'è e ci sarà nel paese.

venerdì 11 novembre 2011

Bellavita (Fiom): “Netto dissenso nei confronti del comunicato della Segreteria Cgil a favore della formazione di un Governo di emergenza”

“Esprimo il mio netto dissenso nei confronti del comunicato con cui la Segreteria nazionale della Cgil ha preso posizione a favore della formazione di un Governo di emergenza. La Segreteria della Cgil non ha infatti nessun mandato per esprimere sostegno nei confronti di un Governo che avrebbe come unico obiettivo quello di attuare drastiche misure in materia economica e sociale. Ovvero le misure che sono state chieste a gran voce dai padroni, dalla Bce e dall’Unione Europea col pretesto del debito.”
“I lavoratori, i giovani, i pensionati e i precari sono creditori sociali. Bisogna lottare contro il pagamento del debito a chi trae profitto dalla crisi e a favore di una nuova politica economica e sociale.”

lunedì 7 novembre 2011

Piattaforma Fiom. Il 95,16 delle lavoratrici e dei lavoratori approva la piattaforma

Si è conclusa la consultazione sulla piattaforma Fiom per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici.
Su oltre 372.000 lavoratrici e lavoratori votanti, il 95,16% ha approvato la piattaforma.
I votanti sono stati nettamente superiori rispetto al numero complessivo degli iscritti alla Fiom che per la consultazione sull'accordo interconfederale del 28 giugno hanno votato in circa 137.000.
Molto alta è la percentuale del 61,47% dei votanti rispetto agli aventi diritto, superiore alla media delle consultazioni precedenti.
Vanno infine considerate le molte chiusure e le aziende coinvolte dalla cassa integrazione – soprattutto in grandi realtà – che, insieme all'assenza dell'ora di assemblea di organizzazione (già consumata), hanno reso impossibile il coinvolgimento di una platea più ampia.
Un valore particolare va attribuito al dato relativo al Gruppo Fiat dove, negli stabilimenti in cui è stato possibile, le lavoratrici e i lavoratori hanno partecipato massicciamente al voto, nonostante le scelte di Marchionne li abbiano esclusi dal contratto nazionale.

venerdì 4 novembre 2011

No agli ispettori del Fondo monetario internazionale, responsabile di crimini contro l’umanità

"Gli ispettori del Fondo monetario internazionale devono essere respinti dalla democrazia italiana, se questa esiste ancora. Il Fondo monetario internazionale con i suoi programmi di aggiustamento strutturale, è responsabile di veri e propri crimini contro l’umanità che hanno provocato fame e devastazione e che sono stati denunciati anche da numerosi economisti e premi nobel.
La democrazia italiana non può accettare che gli ispettori di questa squalificatissima organizzazione vengano a dettar legge sulle nostre scelte. Chiunque si pieghi ai diktat del Fondo monetario internazionale e dei suoi ispettori opera per distruggere la democrazia e la civiltà nel nostro Paese.
Verificheremo su questo i comportamenti e le dichiarazioni, sia del Governo sia dell’opposizione."

di Giorgio Cremaschi

giovedì 3 novembre 2011

No ai governi delle lettere sì al referendum

L’annuncio di un referendum in Grecia sul “fraterno aiuto” europeo ha avuto il grande pregio di squarciare i veli dell’ipocrisia e dimostrare che oggi il continente è governato con un regime autoritario che rigetta ogni forma di reale partecipazione. Diversi commentatori hanno infatti scritto: la Grecia è in guerra e sulle guerre non si fanno consultazioni.
In realtà il primo ministro Papandreu probabilmente ha concepito, per ricostruire il proprio consenso, un’operazione alla Marchionne su scala nazionale: imporre ai propri cittadini di votare sì sotto il ricatto della catastrofe economica e della fame. Ma nonostante queste intenzioni, che dovrebbero piacere ai vertici europei, il primo ministro greco non è stato capito, tutti i potenti d’Europa si sono scandalizzati e, di fronte alla sola ipotesi di un intervento dei cittadini nella gestione della crisi, le borse e i titoli del debito pubblico sono crollati.
Nel 1989 furono i popoli dell’Est a travolgere i regimi del socialismo reale. Allora nelle cancellerie occidentali si brindò per l’estendersi della democrazia in tutto il continente. Nel 2011 i pronunciamenti dei popoli europei fanno paura e si teme che qualsiasi atto di partecipazione democratica - un referendum ma anche solo uno sciopero come una manifestazione - possa far crollare il regime burocratico finanziario che governa il continente. Tra queste due date si dipana il fallimento del capitalismo liberista assieme a quello di una costruzione europea fondata sulla moneta, sulle banche, sul mercato selvaggio e sulla flessibilità del lavoro. L’unità dell’ Europa non esiste e nulla di quello che oggi si decide fa davvero riferimento ad essa. L’unità dell’ Europa è oggi uno specchietto per le allodole, un argomento di vuota retorica buono solo per coprire gli interessi reali delle fallimentari classi dirigenti del continente. Francia e Germania hanno in mente prima di tutto la tutela della propria finanza e delle proprie banche e  hanno la forza di chiedere il conto a tutti gli altri. I paesi più deboli, tra cui l’Italia, mendicano riconoscimenti e sostegni in competizione e in alternativa tra loro. Tutti sono uniti solo nel colpire i redditi e i diritti del mondo del lavoro. L’Europa democratica non c’è, al suo posto arranca una costruzione misera economicamente e moralmente che sta riproducendo le decisioni dei tempi di guerra. I governi di destra e la sinistra ad essi subalterna sottoscrivono i rispettivi crediti di guerra come avvenne nel tragico suicidio europeo del 1914. Per fortuna oggi non si spara, ma quegli impegni e quelle “riforme” che i governi sottoscrivono per salvare i profitti della finanza e delle banche colpiscono in maniera brutale tutti i diritti e le condizioni di vita dei popoli. Questo mentre un regime informativo embedded al seguito dei convogli bancari veicola un unico pensiero secondo il quale lo scopo della politica oggi dovrebbe essere prima di tutto quello di rassicurare i mercati.
L’Italia è solo un punto estremo della crisi della democrazia europea.
L’impresentabilità e i fallimenti del governo Berlusconi aggiungono costi ai costi. Il governo Berlusconi va cacciato, ma non per continuare a somministrare le stesse ricette di sempre. Questo rischio c’è tutto visto che il programma scritto nella lettera che il presidente del consiglio ha inviato in Europa sta diventando il testo di riferimento per tutti i prossimi governi. Non siamo d’accordo con il presidente della Repubblica quando, come ha fatto per la guerra in Libia, interviene esplicitamente nella gestione politica della crisi chiedendo coesione nazionale attorno a un governo che attui le misure richieste dalla lettera famigerata della Bce.
Il vincolo europeo dei patti di stabilità non può più essere accettato. 
Per uscire dalla crisi bisogna innanzitutto respingere la lettera della Bce e costruire una politica economica sociale e fiscale alternativa a quella proposta in quel testo. Bisogna, come afferma anche Guido Rossi sul Corriere della sera, ripartire dall’uguaglianza, cioè togliere ricchezza a chi ce l’ha e redistribuire reddito a favore prima di tutto dei salari. Bisogna allargare non diminuire la spesa pubblica. Bisogna nazionalizzare il sistema bancario invece che finanziarlo gratuitamente con i soldi dello stato sociale. 
Si torna così alla crisi politica italiana. Infatti ormai è chiaro che non solo il centrodestra, ma anche l’attuale centrosinistra sono inadeguati di fronte a questo disastro e non a caso si stanno scomponendo. Una riedizione degli schieramenti del 2006 ci consegnerebbe un centrosinistra magari vincente ma sostanzialmente succube alle banche e alla grande borghesia che hanno sfiduciato Berlusconi da destra. Sbaglia il Pdci di Diliberto a riproporre le scelte di cinque anni fa. O si sta con la Bce e allora si fa una politica di destra anche se ci si chiama in un altro modo, oppure ci si batte per il cambiamento sociale ed economico e allora si entra in conflitto immediato con i poteri che oggi governano l’Italia e l’Europa. 
E’ per questo che il referendum greco fa tanta paura. Ed è per questo che nell’assemblea del primo ottobre contro il debito abbiamo chiesto di poter votare anche in Italia. Bisogna riprendersi il diritto di decidere, come chiedono le piazze degli indignati che difendono davvero la democrazia.

di Giorgio Cremaschi [Articolo su Liberazione del 3 novembre 2011]

giovedì 20 ottobre 2011

Integrativo: Comunicato per chiarimenti sulla comunicazione dell' Ing. Brischi


G.Cremaschi - No a Giavazzi e no a Marcegaglia

Su “Il Corriere della Sera”, l’economista Francesco Giavazzi ha esaltato il dannunzianesimo padronale di Marchionne e ha dichiarato la Confindustria ente inutile. Gli ha risposto ovviamente la Presidente dell’organizzazione, elencando tutti i suoi meriti. E’ interessante seguire questo scontro tra destra ed estrema destra nel capitalismo italiano, perché si chiariscono molte cose che il solito teatrino della politica nasconde. Per Giavazzi, che ha ricevuto gli elogi pubblici di Giuliano Ferrara, la scelta della Fiat porta finalmente da noi il modello americano e segna la fine della concertazione e della contrattazione. La Confindustria va sciolta perché così si mettono anche in discussione i sindacati nazionali e con essi i contratti nazionali. Tutto questo nel nome della lotta contro i monopoli. 
Alla fine dell’Ottocento molti giudici negli Stati Uniti si opposero alla nascita dei sindacati, utilizzando le prime leggi antitrust. Il sindacato, per essi, esercitava il monopolio della forza lavoro impedendo la concorrenza tra i lavoratori - trova un posto chi accetta di lavorare di più al prezzo più basso - e per questo veniva condannato e sciolto per legge.
Francesco Giavazzi pensa a questo e, nel nome della modernità, auspica il ritorno all’Ottocento americano.
La signora Marcegaglia, spaventata dal fatto che la critica le venga dalla prima pagina del giornale della borghesia italiana, risponde che con gli accordi sindacali ha ottenuto proprio quello che Giavazzi auspica. Secondo la Presidente della Confindustria l’accordo del 2009, quello separato che dava il via alla piena derogabilità dei contratti nazionali, dopo due anni di guerra è stato infine imposto anche alla Cgil. Dopo l’accordo del 28 giugno, “ogni impresa italiana è oggi libera di scegliere a seconda delle proprie esigenze, settori e dimensioni tra tre strade diverse: contratto nazionale, modifiche contrattate all’intesa nazionale e intese aziendali”.
Si chiarisce così che per la Confindustria, ma anche per la Cisl e la Uil che hanno confermato gli accordi Fiat dopo che l’azienda è uscita dall’organizzazione padronale, l’accordo del 28 giugno firmato dalla Cgil il 21 settembre è la pura prosecuzione e legittimazione degli accordi di Pomigliano e Mirafiori.
Nella sostanza la polemica tra il partito confindustriale e quello di Marchionne non è sugli obiettivi, che sono gli stessi cioè la distruzione di ogni tutela contrattuale dei lavoratori e la totale flessibilità del lavoro, ma sui mezzi. Si discute cioè se questi obiettivi siano più realizzabili attraverso la Confindustria e i suoi accordi, o azienda per azienda facendo saltare le grandi organizzazioni.
Viene da chiedersi: la Cgil, il centrosinistra, l’opposizione a Berlusconi sempre più confusa sul piano economico e sociale, hanno capito cosa sta succedendo? Hanno capito che nel padronato italiano c’è uno scontro tra due destre, una multinazionale e sovversiva, una più burocratica e centralizzata, che stanno solo litigando tra loro su come si distrugge meglio il sindacato? E, soprattutto, la sua funzione contrattuale?
Secondo la Confindustria non c’è alcuna incompatibilità tra gli accordi del 28 giugno e del 21 settembre e  il famigerato articolo 8 della manovra del Governo, che, come chiedeva la lettera della Bce, dà via libera ai licenziamenti. Per questo chiediamo al gruppo dirigente della Cgil di rendersi conto che quella che ha firmato il 21 settembre è una resa persino inutile, perché il padronato italiano continua a comportarsi e a dividersi come se quella firma nemmeno esistesse.
I lavoratori della Fiat come quelli di Fincantieri, che scendono in piazza a Roma venerdì nonostante i divieti vergognosi di Alemanno e della Questura, e tutti gli altri che oggi devono lottare per difendere lavoro e diritti, hanno di fronte oggi un doppio ricatto. Se vuoi lavorare devi accettare la ricetta di Marchionne, dicono alcuni. Oppure, dicono altri, se vuoi evitare la ricetta Marchionne devi concedere le stesse cose, ma in modalità concertate secondo gli accordi esaltati dalla signora Marcegaglia.
Bisogna dire di no agli uni e agli altri. No alla linea americana di Giavazzi, ma no anche a quella europea, nel senso della Bce, della signora Marcegaglia. Entrambe queste linee del padronato rappresentano la regressione economica e sociale. Esse rappresentano quel sistema finanziario e produttivo in crisi che vuol farci pagare tutti i suoi costi e tutti i suoi debiti. Per questo ogni cedimento a una di queste due linee va contrastato con tutte le forze. Solo un’alternativa radicale, un altro modello sociale contrapposto ad entrambe le linee del padronato italiano, ci può far uscire dalla crisi con giustizia e democrazia.
Giorgio Cremaschi

venerdì 7 ottobre 2011

Risultati questionario mensa

Pubblichiamo il risultato del questionario sulla mensa aziendale, molto interessanti i commenti liberi.

mercoledì 5 ottobre 2011

Questionario Mensa terminato


Il questionario sulla mensa aziendale è terminato oggi alle ore 10.00, ringraziamo tutti gli innumerevoli colleghi che hanno partecipato.
Nei prossimi giorni elaboreremo i risultati e li forniremo ai lavoratori.


lunedì 3 ottobre 2011

Accordo sulla mobilità in Insiel

Cremaschi: “La Fiat fa la secessione”

Quella della Fiat è una secessione vera e propria, che in fondo realizza i sogni della Lega Nord.
La multinazionale americana con sede a Torino decide di uscire dal sistema unitario di diritti e regole del nostro paese. Per Marchionne l’Italia non è nient’altro che un’espressione geografica, un territorio da ricattare e da sfruttare finché si può.
Si chiarisce così il disegno radicalmente antidemocratico della Fiat e vengono smentiti tutte e tutti coloro che, in nome della modernità, l’hanno sostenuta. La Fiat vuole semplicemente la libertà di licenziare e far quel che vuole, che le è concessa dall’articolo 8 della manovra del governo. 
Il prossimo capo del personale della Fiat sarà Roberto Cota.
Giorgio Cremaschi

domenica 2 ottobre 2011

In mille all'assemblea del 1 ottobre. NO al debito! Ora in piazza il 15 ottobre




Quello che segue è il documento approvato all'unanimità (meno 2 astenuti e 2 contrari) dai circa 1000 partecipanti all'assemblea nazionale delle/dei firmatari/e dell'appello "Dobbiamo fermarli. Noi il debito non lo paghiamo" svoltasi il 1° ottobre al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Ora in piazza il 15 ottobre! 

Documento finale

Noi partecipanti all’assemblea del 1° ottobre a Roma: “Noi il debito non lo paghiamo. Dobbiamo fermarli” ci assumiamo l’impegno di costruire un percorso comune.
Tale percorso ha lo scopo di affermare nel nostro paese uno spazio politico pubblico, che oggi viene negato dalla sostanziale convergenza, sia del governo sia delle principali forze di opposizione, nell’accettare i diktat della Banca Europea, del Fondo Monetario Internazionale, della Confindustria e della speculazione finanziaria. Vogliamo costruire uno spazio politico pubblico, che rifiuti le politiche e gli accordi di concertazione e patto sociale, che distruggono i diritti sociali e del lavoro. Vogliamo costruire uno spazio politico pubblico nel quale si riconoscono tutte e tutti coloro che non vogliono più pagare i costi di una crisi provocata e gestita dai ricchi e dal grande capitale finanziario e vogliono invece rivendicare sicurezza, futuro, diritti, reddito, lavoro, uguaglianza e democrazia.
Vogliamo partire dai cinque punti attorno ai quali è stata convocata questa assemblea
1.Non pagare il debito, far pagare i ricchi e gli evasori fiscali, nazionalizzare le banche
2.No alle spese militari e cessazione di ogni missione di guerra, no alla corruzione e ai privilegi di casta
3.Giustizia per il mondo del lavoro. Basta con la precarietà. Siamo contro l'accordo del 28 giugno e l'articolo 8 della manovra finanziaria.
4.Per l’ambiente, i beni comuni, lo stato sociale. Per il diritto allo studio nella scuola pubblica.
5.Una rivoluzione per la democrazia. Uguale libertà per le donne. Parità di diritti per i migranti. Nessun limite alla libertà della rete. Il vincolo europeo deve essere sottoposto al nostro voto.
Ci impegniamo a portare i temi affrontati in questa assemblea diffusamente in tutto il territorio nazionale, costruendo un movimento radicato e partecipato. Così pure vogliamo approfondire i singoli punti della piattaforma con apposite iniziative e con la costruzione di comitati locali aperti alle firmatarie e ai firmatari e a chi condivide il nostro appello. Intendiamo organizzare una petizione di massa sul diritto a votare sul vincolo europeo.
Nel mese di dicembre, a conclusione di questo percorso a cui siamo tutti impegnati a dare il massimo di diffusione e partecipazione, verrà convocata una nuova assemblea nazionale, che raccoglierà tutti i risultati e le proposte del percorso e che definirà la piattaforma, le modalità di continuità dell’iniziativa, le mobilitazioni e anche eventuali proposte di mobilitazione e di lotta.
Intendiamo costruire un fronte comune di tutte e tutti coloro che oggi rifiutano sia le politiche del governo Berlusconi, sia i diktat del governo unico delle banche. Diciamo no al vincolo europeo che uccide la nostra democrazia. Chi non è disposto a rinviare al mittente la lettera della Banca Europea non sta con noi. Questo fronte comune non ha scopo elettorale, ma vuole intervenire in maniera indipendente nella vita sociale e politica del paese, per rivendicare una reale alternativa alle politiche del liberismo e del capitalismo finanziario. Questo fronte comune vuole favorire tutte le iniziative di mobilitazione, di lotta, di autorganizzazione che contrastano le politiche economiche liberiste. Questo percorso si inserisce nel contesto dei movimenti che, in diversi paesi europei e con differenti modalità e percorsi, contestano le politiche di austerità e la legittimità del pagamento debito a banche e imprese.
Su queste basi i partecipanti all’assemblea saranno presenti attivamente anche alla grande manifestazione del 15 ottobre a Roma sotto lo striscione “Noi il debito non lo paghiamo”.

venerdì 30 settembre 2011

Questionario sulla Mensa Insiel di Trieste


Considerate le continue lamentele da parte dei colleghi sul servizio mensa e le risposte insufficienti ricevute da chi gestisce per conto dell'Azienda il rapporto tra la ditta fornitrice e l'Insiel, abbiamo la necessità di raccogliere informazioni direttamente dai colleghi, in quanto per l'Insiel il servizio è buono (l'azienda ha registrato diversi commenti positivi).
Vi invitiamo a rispondere al questionario da noi proposto e di inoltrare la mail con il link a più colleghi possibile in modo da ottenere un'immagine veritiera e incontestabile.


Rispondere al questionario non vi porterà via più di qualche minuto!

giovedì 29 settembre 2011

Schema Accordo sulla Mobilità e Contatti


In merito all'assemblea odierna alleghiamo lo schema sull'accordo della mobilità in Insiel e il riferimento del Patronato INCA per procurarsi l'estratto conto certificativo.

In caso di problemi non esitate a contattarci.





Il giorno 29 settembre 2011, presso la mensa aziendale, si sono riuniti in Assemblea Unitaria i lavoratori di Insiel SPA della sede di Trieste.
Durante l'Assemblea le RSU hanno letto il testo dell’Accordo sulla mobilità.
Dopo aver commentato con i lavoratori il foglio esplicativo presentato per chiarezza e risposto alle domande poste dai lavoratori stessi, si è passati ad una votazione per alzata di mano dalla quale, a fronte di circa 150 presenti, non vi sono stati voti contrari alla sigla dell’accordo e sette sono stati gli astenuti.
In base al mandato così ricevuto dall’Assemblea dei lavoratori, l’Accordo, dopo il passaggio in Cda, verrà firmato dall’Azienda, dalle RSU e dai rappresentanti sindacali territoriali.



Patronato INCA
STRUTTURA
INDIRIZZO
TEL
FAX
ORARIO
TRIESTE 
via Pondares 8
040.3788205
040.3788203
lunedì, martedì e giovedì
8.30-12.30; 15.30-18.30
mercoledì 8.30-12.30; 16.30-18.30
venerdì 8.30-13.00
TRIESTE-DOMIO
Str. della Rosandra 58
040.829698
040.281296
lunedì 15.00-18.30
martedì e venerdì 09.00-13.00
giovedì 15.00-18.30
MUGGIA
Via Mazzini 3
040.271086
040.273410
lunedì, martedì, giovedì e venerdì
09.00-13.00
AURISINA
P.za San Rocco 103
040.200036
040.2024053
lunedì e venerdì 09.00-13.00
martedì e giovedì 15.00-18.00