Se molti, a partire da certi intellettuali marxisti “scientifici”, hanno archiviato durante il Novecento l’imbarazzante discorso sull’Alienazione del giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, oggi tale discorso ritorna prepotentemente di attualità, anche nella stessa Italia, insieme alle nuove forme di alienazione indotte dal capitalismo del terzo millennio e dalla globabalizzazione neoliberista.
L’Alienazione marxiana dell’operaio di fabbrica, prepotentemente suscitata già nel diciannovesimo secolo dall’attivazione e dall’espansione dei rapporti di produzione capitalistici, convive con lo Schiavismo classico dai lineamenti precapitalistici, con il Neoschiavismo precario e con le più raffinate, invasive e ideologico–culturali forme d’alienazione che lo scrivente ha sintetizzato nell’espressione di Meta-alienazione.
Tutte queste forme coesistono nello stesso tempo storico e non di rado all’interno di molte formazioni sociali particolari, come ho già cercato di spiegare in altra sede, ma oggi è bene concentrare l’attenzione sulla forma storica dell’alienazione che riporta al pensiero e alle analisi del giovane Marx, suscitata dal capitalismo ottocentesco, perché oltre a non essersi affatto “estinta” nello spazio finanziarizzato e globalizzato, sta riacquistando una certa importanza.
E certamente vero che una forma di alienazione, di estraniazione della forza–lavoro, molto simile a quella marxiana legata alle spietate dinamiche produttive e sociali della prima industrializzazione, ha interessato lo sviluppo capital-comunista cinese fin dai suoi inizi ed è osservabile anche oggi nelle aree di rapida e selvaggia industrializzazione di quello che fu l’impero di mezzo.
Questa forza–lavoro, in non pochi casi, è costituita da contadini di recente urbanizzazione che hanno in questi giorni intrapreso una lotta per migliorare le loro condizioni economiche, chiedendo aumenti salariali e proclamando scioperi – che colpiscono la Honda delocalizzata come la Toyota – nelle ormai storiche regioni manifatturiere cinesi, a partire dal Guangdong.
Inutile dire che non si tratta, con buona probabilità, di vere proteste anticapitaliste, con la riaffermazione di una “speranza” esterna al sistema, ma di rivendicazioni per miglioramenti economici e di paga dei subalterni che non mettono in discussione, dalle fondamenta, il “mercatismo orientale” e il modello dell’”economia socialista di mercato” il cui successo, la cui vertiginosa espansione è stata resa possibile proprio dai meccanismi attivati a livello planetario dalla globalizzazione neoliberista.
Un’inedita stagione di rivendicazionismo sociale – ancorché interno al capital-comunismo mercatista – ha avuto inizio in Cina, in questi giorni?
Potrebbe anche essere, e osserveremo gli sviluppi futuri di queste lotte e la loro eventuale diffusione, ma c’è un insidioso elemento di novità, di questi tempi, che investe l’Europa e nella fattispecie l’Italia, e riguarda il lavoro operaio e dipendente in fabbrica.
In breve, è in atto un tentativo epocale, in un paese cosiddetto sviluppato quale dovrebbe essere appunto l’Italia, di spostare indietro le lancette dell’orologio della storia e di tornare a quella sciagurata condizione – ossia la condizione dell’operaio-proletario della prima industrializzazione, ridotto a merce umana – per una spietata, “ricardiana” compressione dei salari e dei diritti.
Il recentissimo caso delle condizioni poste da Fiat Auto [l’”agente strategico” Marchionne e suoi referenti] ad alcune migliaia di lavoratori campani in quel di Pomigliano d’Arco, con la clausola della limitazione del diritto di sciopero pena il licenziamento, la turnazione selvaggia, gli straordinari imposti liberamente dall’azienda, la malattia “approvata”, le pause mensa che saltano per le superiori esigenze della produzione, eccetera, ne costituisce la miglior [anzi, la peggior] testimonianza.
Come dire che in una società che si vorrebbe [eccezion fatta per la Lega e per alcuni componenti del PdL, che immaginano una società ancora peggiore dell'attuale] popperianamente “aperta”, votata in apparenza ad un multiculturalismo tollerante e includente, rispettosa dei “diritti individuali ed umani”, attenta alle “libertà dell’individuo”, fondata su un dettato costituzionale formale “avanzato”, si impone una pesante militarizzazione bismarkiana del lavoro industriale regolare, diminuendo in modo sostanziale diritti e tutele, come se operai, impiegati, lavoratori dipendenti non appartenessero a questa stessa società, come se non fossero meritevoli di tutela alcuna, costituendo puri strumenti per il profitto e la creazione del valore finanziario, e rappresentassero materie prime indispensabili ma problematiche da “razionalizzare”.
Il caso Fiat dimostra che la tendenza sarà quella di creare delle zone “di libero scambio” sotto la sovranità assoluta del Capitale finanziarizzato e mobile anche in Europa occidentale, delle autentiche “zone franche” sottratte, anzitutto per quel che attiene la tutela del lavoro, alla garanzia rappresentata da fastidiose legislazioni giuslavoristiche in essere, dai contratti nazionali di categoria, dallo stesso dettato costituzionale ed infine, come già si può temere, sottratte anche all’applicazione delle norme penali.
Se tutto ciò si concretizzerà, se la Fiat riuscirà ad imporre una prima volta in Campania il suo nuovo modello aziendal-autoritario “armonizzato” con le esigenze globali del Capitale ultimo, se il grande stabilimento di Pomigliano d’Arco fungerà concretamente da “apripista” per un’estensione dell’applicazione del modello ben oltre la Fiat, le condizioni di lavoro e di vita dell’operaio italiano tenderanno sempre di più ad approssimare quelle, ancor oggi decisamente peggiori, dell’operaio cinese.
Nel contempo, se prevarrà la Fiat spalleggiata da un governo complice, da un’opposizione sistemica amebica e vigliacca, dai sindacalisti gialli e da intellettuali-cortigiani, vi sarà un’ultima, decisiva sconfitta di quella parte del sindacato italiano – rappresentata essenzialmente dalla Fiom – che non si è venduta e non ha intenzione di vendere fino alle estreme conseguenze la pelle dei lavoratori, e giungerà a definitivo compimento quel processo storico di “rotta di classe” iniziato nel lontano 1980 con la “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati Fiat a Torino, ed innescato al fine di neutralizzare una volta e per tutte l’Antagonismo, per spezzare un’opposizione sociale e politica all’epoca ancora forte e per distruggere fino alle fondamenta la coscienza della classe subalterna novecentesca.
Se vi sarà un referendum, come sembra dovrà accadere il 22 di questo mese e limitatamente allo stabilimento di Pomigliano, i votanti saranno lavoratori terrorizzati di perdere il posto di lavoro e i già scarsi mezzi di sussistenza, quindi esposti al ricatto dell’agente strategico globalista/ macellaio sociale Marchionne, nonché pressati dalla maggioranza dei sindacati e dalla sconcia politica sistemica [sono tutti favorevoli all’accordo, questi loschi figuri, da Berlusconi e Sacconi a Veltroni e Bersani] che punta alla definitiva capitolazione dei lavoratori, per far di loro ciò che si vuole.
Si nota che in questo caso piena è la smentita della melensa favoletta sistemica del “lavoro libero”, che dovrebbe animare il mondo capitalistico, e della universalizzazione delle fantomatiche “libertà individuali” a tutti garantite.
La situazione è perciò gravissima, se vista in combinata con la manovra finanziaria tremontiana che massacra lo stato sociale, riduce i servizi pubblici, non tocca evasione e privilegi e apre le porte ad un’ultima, finale stagione di de-emancipazione e ri-plebeizzazione di buona parte della popolazione italiana.
La "battaglia di Pomigliano" per una militarizzazione bismarkiana del lavoro regolare in fabbrica, pur riguardando direttamente e in apparenza soltanto qualche migliaio di lavoratori metalmeccanici, ha un enorme valore simbolico e potrà rivelarsi decisiva.
Perciò riporto di seguito una mail che mi è stata girata, oggi, da ambienti della Fiom giuliana, datata 16 giugno e scritta da dipendenti Fiat che si trovano in “prima linea” nell’impari scontro … e che indubbiamente vale più di tutte le mie parole:
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