venerdì 23 novembre 2012

Alcune considerazioni sull'accordo «produttività»

Come è noto a tutti, nella tarda serata di mercoledì 21 novembre, governo e “parti sociali”, insieme a numerose organizzazioni di categoria, hanno firmato l'accordo sulla produttività, con la sola esclusione della Cgil.
Ancora una volta, per "salvare le sorti del paese" e tentare di rilanciare lavoro all'interno della produttività, si fanno accordi sulla pelle dei lavoratori. A presentare l'incartamento è un soggetto, il governo, e alcune pecore (per non perdere il treno e la voglia politico sindacale di stare seduti sui tavoli che contano), i sindacati confederali, abituati a firmare a prescindere.
In parole povere, il modello Marchionne fa scuola anche all'interno del mondo dei "tecnici".

Facciamo bene attenzione: non ci si deve illudere sulla non-firma della Cgil, perché se si vanno ad analizzare le dichiarazioni del sindacato di Corso Italia, è vero che c'è dissenso rispetto a quel documento, ma rimane presente quella continua ricerca di una unitarietà attraverso gli accordi del 28 giugno, per arrivare alla gestione totale del mondo del lavoro, una sorta di co-gestione sul modello tedesco, lo stesso modello tanto decantato all'interno della conferenza stampa dei firmatari.

C'è bisogno di fare una premessa in tutto questo discorso e spiegare quali sono le reali condizioni e i rapporti di forza che si hanno all'interno dei posti di lavoro. Questo per dire che è ormai palese come Confindustria e poteri forti hanno in mano questa parte di società - concetto questo, ribadito con forza con il piano Marchionne - non trovando nessuna resistenza all'interno proprio dei posti di lavoro, trovando complicità con una buona parte dei sindacati e debolezza da parte della Cgil e dalla classe lavoratrice. Tutto questo ha permesso alla classe imprenditoriale di muoversi all'interno di questa lunga guerra come voleva, lasciando con il tempo assopire lotte e diritti acquisiti e lentamente toglierli uno ad uno. L'ultimo in ordine di tempo è il contratto nazionale, lasciato sul banco per una questione di principio ma che con il tempo sta perdendo la sua importanza e forza; un soggetto contenente norme spesso derogate e non tenute in considerazione a cui si affianca l'aspetto economico che ad ogni rinnovo perde la sua importanza non essendo più in grado di andare a coprire inflazione e recuperi salariali; qui scatta il ruolo dell'accordo firmato in questi giorni dove si pone al centro la contrattazione di secondo livello, ovvero un contratto che non tutti hanno: leggendo i dati possiamo affermare che solo il 30% dei posti di lavoro hanno una contrattazione di secondo livello.

Ma cosa vuole dire contrattazione di secondo livello? É una contrattazione che va ad aggiungersi al contratto nazionale fatta singolarmente all'interno di ogni azienda, se questa ritiene di averlo; una contrattazione che vede protagonista l'azienda e le organizzazioni sindacali e le rsu. Qui, allora, si svela il trucco dell'accordo sulla produttività, perché in uno scenario come quello italiano, delegare equivalenza delle mansioni, organizzazione del lavoro, orario di lavoro e sua distribuzione flessibile, impiego di nuove tecnologie, ecc. vuole dire consegnare piena libertà alle aziende di avere pieno potere sul lavoratore con la complicità dei sindacati “amici”, sopratutto se premi e salario saranno sempre più legati alla produttività. Cosa tra l'altro che in molti posti di lavoro è già presente, fattore legato molto alla presenza individuale, cioè: il tuo futuro salario sarà legato alla tua disponibilità, come piace ai padroni. Disponibilità che sarà legata al filo della ricattabilità quotidiana sui posti di lavoro.

In sintesi l'accordo sulla produttività non ha fatto altro che definire le posizioni all'interno del mondo del lavoro: i Padroni che avranno piena mano libera su scelte delle loro aziende e sui lavoratori, una serie di sindacati collaborativi e pronti a partecipare in maniera attiva alla gestione del mondo del lavoro e al momento un sindacato, la Cgil, in attesa che ci siano quelle condizioni necessarie per rientrare senza snaturare troppo la sua natura davanti a milioni d' iscritti.

Proprio su quest'ultima riprendendo il nostro editoriale: dopo aver assopito le lotte nella speranza diarrivare alla gestione totale del mondo del lavoro, si ritrova in un limbo pieno di contraddizioni dopo le numerose manovre che sono avvenute in questi ultimi mesi, partendo dal cambio della segreteria nazionale della Fiom, dove sono stati fatti fuori gli uomini della cosiddetta sinistra o ala radicale della Fiom e della Cgil, dal contratto firmato dai chimici da un segretario di categoria sfiduciato sia dalla base che dalla stessa Cgil, che pone pericolosi precedenti all'interno della contrattazione nazionale, dallo stesso contratto degli alimentaristi dove ancora una volta per non perdere il tavolo della gestione si firmano contratti al ribasso e in difesa nonostante 5 categorie di settore non l'abbiano ancora firmato, cercando di vedere se ci sono le basi per un modello Marchionne anche nel mondo degli alimentari arrivando in fine alla farsa dello sciopero europeo sovrastata dall'imponenza e dalla rabbia del mondo della formazione e di quella base che ha scelto da che parte stare. Per questo diventa interessante analizzare le prossime mosse perché in questa fase risulta difficile andare a chiedere di scioperare con le rivendicazioni che si porta dietro la Cgil, andare a scioperare in difesa e sempre al ribasso per andare ad assecondare le logiche di potere di un sindacato che con il tempo, perduta quella nomea di “lotta” da molto tempo, si sta dirigendo verso un sindacato di servizi e gestione del mondo del lavoro.

Ovviamente in tutto questo non ci si può scordare delle numerose lotte che ogni giorno molti lavoratori portano avanti, dalla Sodexo a Pisa alla Gesip di Palermo, passando dai lavoratori delle cooperative dell'Ikea (apriamo una parentesi su questa lotta per dire che la Cgil nel suo ultimo direttivo ha respinto un ordine del giorno in solidarietà ai lavoratori in lotta perché questi vanno contro accordi firmati dalla stessa Cgil e perché la lotta è portata avanti dal SìCobas) e della coop arrivando a quelle del Sulcis, lotte che non devono essere lasciate isolate ma che devono trovare un filo logico per cominciare a contrastare in maniera seria questo lento ma portentoso attacco al mondo del lavoro.



Un rsu-Cgil della provincia di Modena

Infoaut - 22/11/2012

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Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia
 

Premessa 

Le Parti firmatarie del presente documento considerano la contrattazione collettiva uno strumento utile per perseguire la crescita della produttività e della competitività in Italia. Attraverso la contrattazione collettiva è, infatti, possibile definire modalità e strumenti per perseguire e raggiungere obiettivi di miglioramento della produttività contemperando le ragioni delle imprese e delle persone che vi lavorano.
In questo senso le Parti firmatarie credono che l'autonomia contrattuale debba essere valorizzata anche con riferimento ai contenuti delle intese finalizzate a perseguire i miglioramenti della produttività e, pertanto, si attendono che le determinazioni di Governo e Parlamento, volte a incentivare questi processi, risultino conseguentemente coerenti. Le Parti considerano, quindi, essenziale che la scelta, confermata anche con la presente intesa, a favore della valorizzazione degli accordi collettivi per il miglioramento della produttività, venga sostenuta e promossa da adeguate e strutturali misure di incentivazione fiscale e contributiva.
Le Parti, pertanto, chiedono al Governo e al Parlamento di rendere stabili e certe le misure previste dalle disposizioni di legge per applicare, sui redditi da lavoro dipendente fino a 40 mila euro lordi annui, la detassazione del salario di produttività attraverso la determinazione di un' imposta, sostitutiva dell'IRPEF e delle addizionali, al 10%. Le Parti, con riferimento alla decontribuzione del salario di produttività, chiedono che venga data compiuta applicazione ai contenuti della legge numero 247 del 2007 che prevede lo sgravio contributivo per incentivare la contrattazione collettiva di secondo livello fino al limite del 5% della retribuzione contrattuale percepita.
Le Parti firmatarie sono consapevoli della necessità che la scelta a favore della contrattazione
collettiva per la produttività debba trovare un adeguato sostegno nella legislazione di vantaggio e in questa prospettiva fissano nel presente documento le linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia.
 

1. Considerazioni introduttive

Dalla prima metà degli anni 90 l'economia italiana ha presentato, nel confronto internazionale, più bassi livelli di sviluppo, sia in termini effettivi che potenziali, denunciando la natura strutturale e di lungo periodo della stagnazione della domanda aggregata.
La crisi economica ha accentuato il fenomeno e i dati ufficiali di crescita indicano che il Pil in Italia si è ridotto più che altrove. Il conto che il Paese sta pagando per i nodi strutturali che frenano l'economia italiana è molto alto, sia in termini di perdita di lavoro che di benessere, e si traduce in minori retribuzioni reali, minori consumi, più bassa redditività delle imprese, carenti risorse per la solidarietà, l'istruzione e la ricerca, più elevata pressione fiscale.
Diviene centrale il tema della produttività su cui incidono, oltre al lavoro, molte altre voci sia
materiali (energia, logistica, trasporti) sia immateriali (ad esempio burocrazia, sicurezza, legalità, istruzione) che producono costi e diseconomie sensibilmente diversi fra Nord e Sud d'Italia e fra grandi e piccoli centri urbani. Diviene, altresì, centrale l'investimento nell'ammodernamento dei macchinari e in ricerca e sviluppo per l'introduzione di innovazioni di prodotto e di processo. La modernizzazione del Paese e l'aumento della sua competitività si accompagnano necessariamente alla rimozione dei vincoli materiali e immateriali che ne bloccano lo sviluppo e alla promozione delle potenzialità. Le Parti ritengono che questi temi programmatici debbano trovare adeguato rilievo nella Agenda di Governo del Paese.
La più bassa crescita della produttività comporta un aumento del costo del lavoro per unità di
prodotto (CLUP) e, quindi, una perdita di competitività che è immediatamente riscontrabile nell'alto deficit con l'estero e si traduce in uno spostamento dei redditi e dell'occupazione a favore di altri paesi. Il tema della produttività è all'attenzione del Governo e delle Parti Sociali perché la crescita della produttività e della competitività del Paese possono permettere una ripresa dell'economia, dell'occupazione, del benessere sociale e consentire un più solido riequilibrio di bilancio.
Le Parti Sociali sono, però, consapevoli della impossibilità di ottenere significativi risultati sul
versante della crescita della competitività di sistema se non vi sarà una efficace azione del Governo volta a crearne le condizioni. A tal fine è necessario che il Governo definisca rapidamente indirizzi programmatici e piani di intervento per la modernizzazione del Paese in cui investimenti pubblici e privati concorrano ad accrescere i livelli di produttività del sistema Italia. In questo quadro è necessario che il Governo tracci le linee guida per attuare una riforma strutturale del sistema fiscale che lo renda più equo e, quindi, in grado di ridurre la quota del prelievo che oggi grava sul lavoro e sulle imprese in maniera del tutto sproporzionata e tale da disincentivare investimenti e occupazione.
Le Parti sociali, dal canto loro, sono consapevoli degli effetti che la contrattazione collettiva, in
particolare al secondo livello, può esercitare sulla crescita della produttività e a tale riguardo
convengono sulla necessità di condividere con il Governo i criteri di applicazione degli sgravi
fiscali e contributivi definiti in materia di salario di produttività.
Il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività sono obiettivi confermati dagli Accordi Interconfederali e da quelli di settore che contengono principi in grado di definire un positivo punto di equilibrio degli assetti della contrattazione collettiva.


2. Relazioni industriali e contrattazione collettiva
 

In diretta conseguenza di quanto precede, le Parti firmatarie del presente documento confermano l'obiettivo comune di sviluppare un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di competitività e produttività tali da rafforzare il sistema produttivo, l'occupazione e le retribuzioni. Per questo intendono orientare la contrattazione collettiva, nelle diverse sedi, alla regolarizzazione dei rapporti di lavoro, all'emersione del sommerso, alla produzione di quel maggior valore aggiunto che possa essere distribuito fra i fattori che hanno contribuito a determinarlo. Per cogliere questi obiettivi le Parti, tenuto conto delle specificità dei diversi comparti produttivi, consolideranno un modello contrattuale nel quale il contratto collettivo nazionale di lavoro abbia la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori, ovunque impiegati nel territorio nazionale, e la contrattazione di secondo livello, facilitata da idonee e strutturali politiche fiscali di vantaggio, operi per aumentare la produttività attraverso un migliore impiego dei fattori di produzione e dell'organizzazione del lavoro, correlando a tale aspetto la crescita delle retribuzioni dei lavoratori.
Diviene, pertanto, essenziale definire compiutamente, attraverso specifiche intese, un sistema di relazioni sindacali e contrattuali regolato e, quindi, in grado di dare certezze non solo riguardo ai soggetti, ai tempi e ai contenuti della contrattazione collettiva ma anche sull'affidabilità ed il rispetto delle regole stabilite. Per favorire questo processo è necessario, altresì, incrementare e rendere strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure fiscali e contributive volte ad incentivare la contrattazione di secondo livello che collega parte della retribuzione al raggiungimento di obiettivi di produttività, di qualità, di redditività, di efficacia, di innovazione, di valorizzazione del lavoro, di efficienza organizzativa e altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività del settore produttivo.
Le Parti si danno atto della necessità di favorire, soprattutto attraverso la contrattazione di secondo livello, soluzioni coerenti con i principi enunciati negli Accordi Interconfederali e in quelli di settore, al fine di agevolare la definizione di intese modificative delle norme contrattuali più mirate alle esigenze degli specifici contesti produttivi. Queste soluzioni contrattuali di secondo livello, peraltro, possono anche rappresentare un'alternativa a processi di delocalizzazione, divenire un elemento importante di attrazione di nuovi investimenti anche dall'estero, concorrere alla gestione di situazioni di crisi per la salvaguardia dell'occupazione, favorire lo sviluppo delle attività esistenti, lo start up di nuove imprese, il mantenimento della competitività, contribuendo così anche alla crescita territoriale e alla coesione sociale.
In questo quadro è opportuno che i CCNL, tenendo conto delle specificità dei diversi settori,
affidino alla contrattazione di secondo livello il compito di definire condizioni di gestione flessibile degli orari di lavoro, al fine di rispondere alle diverse dinamiche temporali della produzione e dei mercati, nel rispetto della vigente normativa comunitaria oltre che dei diritti e delle esigenze delle persone. Le parti firmatarie – riferendosi per la parte di rappresentanza delle imprese ognuna ai rispettivi settori di pertinenza – confermano, per quanto concerne lo stato delle relazioni industriali e degli assetti della contrattazione collettiva, le scadenze di verifica già precedentemente concordate, da effettuarsi anche alla luce delle risultanze della attuale stagione contrattuale che le parti auspicano si concluda entro le scadenze naturali.
Le parti firmatarie ritengono, pertanto, che per favorire la crescita della produttività, delle
retribuzioni ad essa correlate e dell'occupazione sia necessario informare i rispettivi sistemi di
contrattazione ai seguenti principi:
•il contratto collettivo nazionale di lavoro, tenuto conto di quanto già definito in specifici comparti produttivi, avendo la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori rientranti nel settore di applicazione del contratto, deve perseguire la semplificazione normativa, il miglioramento organizzativo e gestionale, prevedere una chiara delega al secondo livello di contrattazione delle materie e delle modalità che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività, quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro;
•il contratto collettivo nazionale di lavoro – superato definitivamente con il Protocollo del 1993 il
sistema di indicizzazione dei salari – avendo l'obiettivo mirato di tutelare il potere d'acquisto delle retribuzioni, deve rendere la dinamica degli effetti economici, definita entro i limiti fissati dai principi vigenti, coerente con le tendenze generali dell'economia, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e gli andamenti specifici del settore;
•i contratti collettivi nazionali di lavoro possono definire che una quota degli aumenti economici
derivanti dai rinnovi contrattuali sia destinata alla pattuizione di elementi retributivi da collegarsi ad incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello, così da
beneficiare anche di congrue e strutturali misure di detassazione e decontribuzione per il salario di produttività definito dallo stesso livello di contrattazione. Tale quota resterà parte integrante dei trattamenti economici comuni per tutti i lavoratori rientranti nel settore di applicazione dei contratti nazionali laddove non vi fosse o venisse meno la contrattazione di secondo livello;
•la contrattazione di secondo livello deve disciplinare, valorizzando i demandi specifici della legge o della contrattazione collettiva interconfederale e nazionale, gli istituti che hanno come obiettivo quello di favorire la crescita della produttività aziendale.
 

3. Rappresentanza
 

Le Parti firmatarie dell'Accordo Interconfederale 28 giugno 2011, per dare effettività a un sistema ordinato di relazioni industriali, definiscono un altrettanto ordinato sistema di regole sulla rappresentanza secondo i seguenti principi:
•entro il 31 dicembre 2012, la materia verrà disciplinata, con accordo e regolamento integrativo, per consentire il rapido avvio della procedura per la misurazione della rappresentanza nei settori di applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, in attuazione dei principi contenuti nell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011;
•entro il 31 dicembre 2012, in diretta conseguenza della definizione delle procedure di cui al punto precedente, saranno definite, per i settori interessati, le modifiche da introdurre alla disciplina delle rappresentanze sindacali unitarie contenuta nell'Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993, per armonizzarle con le finalità fissate il 28 giugno 2011 (esplicitare il superamento del terzo); 

•le intese dovranno, altresì, prevedere disposizioni efficaci per garantire, nel rispetto dei principi concordati nell'Accordo Interconfederale 28 giugno 2011, l'effettività e l'esigibilità delle intese sottoscritte, il rispetto delle clausole di tregua sindacale, di prevenzione e risoluzione delle controversie collettive, le regole per prevenire i conflitti, non escludendo meccanismi sanzionatori in capo alle organizzazioni inadempienti.
 

4. La partecipazione dei lavoratori nell'impresa
 

Le Parti, tenuto conto che la legge 28 giugno 2012, n.92, dispone che siano i contratti collettivi a dare attuazione alle misure per la partecipazione, ritengono che il Governo, nella prospettiva di conferire organicità e sistematicità alle norme in materia di informazione e consultazione dei
lavoratori, nonché di partecipazione dei dipendenti agli utili e al capitale, debba esercitare la delega in materia subordinatamente ad un approfondito confronto con le Parti sociali.
La cultura della partecipazione è favorita, altresì, da un modello di relazioni industriali moderno,
attento agli obiettivi generali dell'economia, orientato alla competitività delle imprese allo sviluppo coeso dei territori e al miglioramento delle condizioni e della qualità del lavoro.
La cultura della collaborazione fra imprese e lavoratori è favorita, anche, dal ruolo che possono
svolgere gli enti bilaterali di matrice contrattuale per la diffusione di modelli partecipativi. Per
diffondere questa cultura le Parti ritengono opportuno valorizzare, nei diversi livelli contrattuali, i
momenti di informazione e consultazione previsti, anche per favorire un responsabile
coinvolgimento nelle scelte dell'impresa sulle materie che migliorano la produttività, le condizioni di lavoro, lo sviluppo dell'impresa. In questa prospettiva le Parti ritengono, altresì, utile monitorare e rendere più omogenee le forme di welfare contrattuale fin qui realizzate con effetti positivi sia per la collettività in cui agiscono che per i lavoratori che ne beneficiano. In questo ambito le Parti ritengono che i contributi che le imprese e lavoratori versano per i sistemi di welfare contrattuale definiti dalla contrattazione collettiva nazionale e/o di secondo livello debbano beneficiare di un regime fiscale e contributivo di vantaggio, a partire dalla previdenza complementare.
Le Parti ritengono, infine, utile avviare un confronto sul quadro di riferimento normativo per
favorire l'incentivazione dell'azionariato volontario dei dipendenti, anche in forme collettive.
 

5. Formazione e occupabilità delle persone
 

Per il miglioramento della produttività occorre un sistema scolastico e formativo che punti
concretamente all'occupabilità delle persone, rilanci e valorizzi, arricchendola anche di contenuti nuovi, l'istruzione tecnico-professionale, esaltando maggiormente le competenze e le capacità di apprendimento delle persone, valorizzando la capacità formativa dell'impresa e del lavoro.
Le Parti ritengono necessario realizzare un miglior coordinamento tra il sistema della formazione pubblica e privata non solo per ottenere, attraverso collaborazioni e sinergie, maggiori benefici e migliori risultati, ma anche per favorire, ai diversi livelli, processi di coordinamento e indirizzo con le politiche attive.
Le Parti Sociali considerano che dal sistema della formazione possa, infatti, derivare un contributo anche nelle attività volte alla ricollocazione delle persone. Pertanto, chiedono al Governo di adottare misure dirette ad agevolare l'attività formativa, anche nell'ambito di procedure di sospensione collettiva, cassa integrazione guadagni o di mobilità, in applicazione di accordi collettivi aziendali o territoriali volti a favorire, attraverso tutte le sinergie possibili, la ricollocazione delle persone. In questa prospettiva le Parti sono convinte che un ruolo fondamentale possa essere svolto anche dai fondi interprofessionali per la formazione continua che, pur nelle specificità dei differenti settori, hanno dimostrato di operare efficacemente non solo per l'aggiornamento delle competenze dei lavoratori occupati ma anche per lavoratori coinvolti in procedure di cassa integrazione, di mobilità o sospensioni collettive dal lavoro.
Le parti sociali, al fine di rendere più agevole ed efficace l'azione dei Fondi Interprofessionali per la formazione, anche nella prospettiva del potenziamento delle politiche attive, auspicano la chiara affermazione per legge della loro natura privatistica.

In questo ambito le parti ritengono auspicabile una verifica e una riorganizzazione del sistema della formazione professionale.
 

6. Mercato del lavoro e misure di solidarietà intergenerazionale
 

E' intenzione delle Parti chiedere al Governo un confronto sui temi del mercato del lavoro con
particolare riferimento alla verifica sugli effetti della applicazione della recente riforma
sull'occupazione. È, altresì, intendimento delle Parti Sociali convenire iniziative di tipo
sperimentale sul territorio coinvolgendo gli enti locali, i soggetti pubblici e privati operanti
nell'ambito delle attività tipiche del mercato del lavoro per avviare un sistema più efficace di
politiche attive del lavoro. Le Parti ritengono, inoltre, opportuno definire "linee guida operative" per affrontare con il Governo, di concerto con gli enti pubblici del territorio, i processi di
ristrutturazione e le situazioni di crisi, individuando procedure e strumenti per attenuarne le ricadute occupazionali e favorire la ricollocazione delle persone e la tutela della capacità produttiva dei territori.
È volontà delle Parti firmatarie proporre al Governo l'istituzione di un osservatorio permanente sul sistema produttivo, con la partecipazione del Ministero dello Sviluppo Economico e del Ministero del Lavoro, allo scopo di individuare e condividere politiche per lo sviluppo della struttura produttiva e dei livelli occupazionali.
È volontà delle Parti individuare soluzioni utili a conciliare le esigenze delle imprese e quelle dei lavoratori più anziani, favorendo percorsi che agevolino la transizione dal lavoro alla pensione, creando nello stesso tempo nuova occupazione anche in una logica di "solidarietà
intergenerazionale". In questa prospettiva le Parti chiedono la definizione di una cornice normativa che agevoli queste soluzioni, definendo misure per garantire una adeguata e certa copertura contributiva.
 

7. Contrattazione collettiva per la produttività
 

Le parti ritengono necessario che la contrattazione collettiva fra le organizzazioni
comparativamente più rappresentative, nei singoli settori, su base nazionale, si eserciti, con piena autonomia, su materie oggi regolate in maniera prevalente o esclusiva dalla legge che, direttamente o indirettamente, incidono sul tema della produttività del lavoro. Le Parti s'impegnano ad affrontare, pertanto, in sede di contrattazione collettiva le questioni ritenute più urgenti quali in via esemplificativa:
•l'affidamento alla contrattazione collettiva di una piena autonomia negoziale rispetto alle tematiche relative all'equivalenza delle mansioni, alla integrazione delle competenze, presupposto necessario per consentire l'introduzione di modelli organizzativi più adatti a cogliere e promuovere l'innovazione tecnologica e la professionalità necessarie alla crescita della produttività e della competitività aziendale;
•la ridefinizione dei sistemi di orari e della loro distribuzione anche con modelli flessibili, in
rapporto agli investimenti, all'innovazione tecnologica e alla fluttuazione dei mercati finalizzati al
pieno utilizzo delle strutture produttive idoneo a raggiungere gli obiettivi di produttività convenuti.
•l'affidamento alla contrattazione collettiva delle modalità attraverso cui rendere compatibile
l'impiego di nuove tecnologie con la tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori, per facilitare
l'attivazione di strumenti informatici ordinari, indispensabili per lo svolgimento delle attività
lavorative.
Le Parti chiedono che, in conseguenza di quanto sopra convenuto per affrontare i temi legati
all'incremento della produttività delle imprese e del lavoro, vengano assunti a livello legislativo,
anche sulla base di avvisi comuni, provvedimenti coerenti con le intese intercorse e con la presente
intesa.


giovedì 22 novembre 2012

Patto per la produttività: la generalizzazione del ricatto di Marchionne

Come al solito, quando si prefigura una fregatura per i lavoratori, si alzano in coro autorevoli voci e si muovono autorevoli penne, per giustificare la necessità di sacrifici, di collaborazioni tra lavoratori e padronato, di maggiore senso di responsabilità (anche se quest’ultimo non sempre è chiaro verso chi debba essere rivolto). Stavolta, tocca al cosiddetto Patto di produttività ricevere una sorta di sigillo di necessità.
A pochi giorni dalla sottoscrizione da parte di Cisl, Uil e Ugl delle “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia” (questo l’altisonante titolo del documento) si diffondono i dati Istat sulla produttività in Italia, che sono effettivamente catastrofici. 
E la distanza dell’Italia da molti Paesi europei in termini di produttività, giustificherebbe il Patto.
Si legge nel rapporto Istat che “con riferimento al periodo 1992-2011, la produttività del lavoro è aumentata ad un tasso medio annuo dello 0,9%. Tale incremento è la risultante di una crescita media dell’1,1% del valore aggiunto e dello 0,2% delle ore lavorate. La produttività totale dei fattori è salita dello 0,5%”. Insomma, siamo a livelli di produttività davvero bassi. Ma quello che i sostenitori del Patto dimenticano di dire (guarda il caso) è che per produttività l’Istat intende giustamente “il rapporto tra il valore aggiunto in volume e uno o più dei fattori produttivi impiegati per realizzarlo”. In altri termini, la produttività è la misura di un incremento di valore a fronte di un aumento di uno o più fattori di produzione, sia esso in termini di lavoro o di capitale. Che è cosa ben diversa dal numero di ore lavorate o dalla velocità di produzione. Non è il lavorare più in fretta che permette un incremento del valore aggiunto e quindi della produttività. E nemmeno deriva dal lavorare di più. Tant’è che lo stesso rapporto dell’ente di statistica afferma che mentre nel 2010, a fronte di una contrazione dell’input di lavoro il valore aggiunto è cresciuto del 3,2%; nel 2011, nonostante un aumento delle ore lavorate, il valore aggiunto è cresciuto solo dello 0,7%.
La produttività, intesa come l’Istat, è direttamente legata agli investimenti, specie in ricerca e sviluppo. E com’è messa l’Italia su questo fronte? Molto male. I dati Istat descrivono una produttività del capitale (intesa come rapporto tra il valore aggiunto e l’input di capitale) in costante diminuzione tra il 1992 ed il 2011: in media l’Italia perde in questo senso uno 0,6% annuo. Nello stesso periodo, “l’intensità del capitale, misurata come rapporto tra input di capitale e ore lavorate, è aumentata in media d’anno dell’1,6%”. Nonostante sia riconosciuta la positiva correlazione tra investimenti in ricerca e sviluppo e produttività, l’Italia rimane al palo. Un recente rapporto della Banca d’Italia (“Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi”) segnala che la spesa in Ricerca e Sviluppo in rapporto al PIL è di circa l’1% in Italia, “un valore inferiore alla media della UE (1,8 per cento) e ben distante dalla Germania (2,6 per cento) e dai paesi Scandinavi (Svezia e Finlandia si collocano sul 3,7-3,8 per cento)”. Chiaramente, stante questi dati, il valore aggiunto delle produzioni italiane non possono essere competitive.
E allora la domanda è: perché insistere sull’aumento delle ore di lavoro o sulla velocità dei ritmi di lavoro? La risposta è in quegli stessi dati: il padronato italiano ha rinunciato da molto tempo ad essere competitivo sulla tipologia e sulla qualità del prodotto, e punta tutto sul basso costo del lavoro. In questi termini, la competizione le industrie italiane la fanno con i Paesi meno sviluppati dal punto di vista industriale o emergenti e con maggiore sfruttamento del lavoro. Per stare al passo di quei Paesi, bisogna adeguarsi ai loro standard lavorativi.
Non è un caso che il modello produttivo che Fiat ha imposto ai lavoratori serbi – che ad esempio prevede turni di 10 ore di lavoro, straordinari e riduzione delle pause – fosse già stato previsto per Mirafiori. E non è un caso che il Patto per la produttività sia il naturale prolungamento dello sciagurato accordo del 28 giugno 2011 e dell’articolo 8 della “manovra di Ferragosto”, che deregolamentano i rapporti di lavoro dando all’impresa la possibilità di agire in deroga ai contratti nazionali ed alle leggi.
Il Patto per la produttività segna un altro passo verso la generalizzazione del ricatto di Marchionne. Chi lo firma sostiene quel ricatto, perché ne sostiene l’impianto ideologico e perciò gli interessi di classe padronali.
 
C.Tomeo - 21/11/2012
reset-italia.net
 
 

lunedì 19 novembre 2012

L’agenda Monti per il dopo Cristo

Dopo Marchionne, Monti. 
Tenete presente la parabola di Marchionne: due anni e mezzo fa, quando aveva sferrato il suo attacco contro gli operai di Pomigliano («o così, o chiudo»), togliendosi la maschera di imprenditore aperto e disponibile che si era e gli era stata appiccicata addosso, la totalità dell’establishment italiano si era schierata incondizionatamente dalla sua parte: Governo, partiti, sindacati, media, intellettuali di regime, sindaci, aspiranti sindaci, ministri e aspiranti ministri, più la falange di Comunione e Liberazione, da cui Marchionne si era recato a riscuotere gli applausi che i suoi dipendenti gli avevano negato. Uniche eccezioni, gli operai presi di mira, la Fiom, i sindacati di base e poche altre voci senza molta audience.
Perché a quell’attacco antioperaio Marchionne aveva abbinato un faraonico piano industriale da 20 miliardi di euro («Fabbrica Italia», l’ottavo piano, da quando Marchionne era in carica, nessuno dei quali mai realizzato), che avrebbe portato finalmente la Fiat, anche grazie alla stretta imposta agli operai, a competere nel pianeta globalizzato con mezzi adeguati alla nostra epoca, che Marchionne, con venti secoli di ritardo, aveva battezzato «Dopo Cristo».

Al manifesto , che su quel piano aveva sollevato fondati dubbi, erano stati riservati i lazzi di ben sette collaboratori del Foglio – tra cui due stimati ex sindacalisti – e del direttore del Sole24ore . Qualcun altro aveva, sì, notato che quei 20 miliardi non comparivano, ne avrebbero potuto comparire, nel bilancio della Fiat; o che triplicare la produzione di auto ed esportarle in un mercato con il fiato corto era forse una mossa avventata; o che l’Europa si stava avviando verso un lungo periodo di vacche magre – in realtà magrissime – che rendeva problematici piani così faraonici; o, soprattutto, che voler trasformare le fabbriche (dopo Pomigliano, era stata la volta di Mirafiori, e poi di tutto il resto) in falangi – dove per sopravvivere gli operai devono combattere, sotto il comando di un manager che guadagna 400 volte più di loro, una lotta mortale contro i lavoratori della concorrenza, perché la vita degli uni è la morte degli altri – più che una forma di «modernizzazione» – allora era molto in voga questa espressione – era un ritorno al dispotismo asiatico. Ma i peana avevano avuto il sopravvento.

Oggi, a due anni e mezzo da quel trionfo, il bluff di Marchionne si è completamente sgonfiato: è rimasto solo il peggioramento delle condizioni di lavoro per gli operai (ormai in cassa integrazione quasi permanente), l’abolizione della contrattazione e la violazione continua e ostentata della legge e delle sentenze dei tribunali. Il sindaco che voleva srotolare un tappeto rosso sotto i piedi di Marchionne lo ha riarrotolato in silenzio e deposto nel suo nuovo ufficio di banchiere in attesa di tempi migliori. Quello che approvava Marchionne «senza se e senza ma» sostiene invece di essere stato ingannato (ma forse voleva esserlo).

E a quello che «se fosse stato un operaio» avrebbe votato sì al referendum truffa di Mirafiori non è mai venuto in mente di chiedere che cosa avrebbe fatto se fosse stato sindaco a un operaio: una evidente asimmetria informativa. Molti altri semplicemente tacciono senza spiegare perché non avevano capito niente o avevano fatto finta di non capire (allora gli conveniva lodare, come oggi gli conviene tacere). Fatto sta che dopo il tonfo oggi Marchionne è per tutti un po’ come la peste. Nessuno cerca più di incontrarlo; tutti ne parlano male e soprattutto cercano di evitare l’argomento. «Marchionne? Chi era costui?» Quanto a lui, continua per la sua strada: cioè non fa niente, che è quanto, secondo lui, gli richiede oggi il mercato. E allora? Allora, la parabola di Marchionne non fa che anticipare quella di Monti: tra cinque mesi nessuno ne vorrà più sapere e per tutti quelli che lo hanno appoggiato sarà una corsa a dissociarsi e a sostenere di non aver mai avuto gran che a che fare con lui: «Monti chi?».

Perché se il piano Fabbrica Italia è stato un flop, la cosiddetta agenda Monti è ancora peggio; e i nodi stanno venendo al pettine. «Si è arenata la spinta innovatrice» cominciano a dire, mettendo le mani avanti, quelli che per un anno lo hanno esaltato per aver portato il paese «fuori dal guado» (tra i quali il primo della lista è proprio lui, Monti, che non ha mai perso un’occasione per lodarsi). Era partito anche lui alla grande, come Marchionne: dopo i due primi decreti aveva sentenziato che il Pil sarebbe cresciuto dell’11 per cento; i salari del 12; i consumi dell’8; l’occupazione dell’8 e gli investimenti del 18. Il bello è che tutti l’avevano preso sul serio e nessuno era andato a suggerirgli di farsi ricoverare. Ma proprio come con Marchionne, il paese, beneficiato da due decreti Crescitalia, da uno Salvaitalia e da numerose altre misure, non è cresciuto di un centimetro; anzi, come era prevedibile, è andato indietro.

In compenso, come con Marchionne, sono crollati occupazione e redditi; e poi spesa sanitaria, scolastica e per la ricerca, investimenti pubblici e privati; ed è ancora aumentato il debito pubblico, che presto sarà sottoposto alla stretta del fiscal compact ; mentre il compito di rilanciare lo sviluppo è stato affidato al petrolio del sottosuolo italiano, al trasporto di gas in conto terzi attraverso le aree più sismiche d’Europa e alle solite autostrade (e, ovviamente, Tav), per le quali e solo per loro, i miliardi – ben 100 si trovano sempre, mentre intere regioni del paese sono sott’acqua quasi perennemente per incuria e opere devastanti.

Grazie al ministro Passera; il quale prima le finanzia – a babbo morto – come banchiere e poi interviene come ministro per tappare lo scoperto bancario con fondi pubblici, saccheggiando la Cassa Depositi e Prestiti. Insomma la storia di Marchionne si ripete; ma ancora più «alla grande». Era ovvio che un andazzo del genere non sarebbe durato a lungo. Tutti avevamo, e abbiamo, davanti agli occhi le vicende della Grecia e della Spagna, lo strangolamento delle cui economie precede di poco quello della nostra ed è frutto della stessa ricetta: quella che Monti, ancora prima di diventare Presidente del Consiglio, aveva esaltato sostenendo che quei paesi avevano finalmente imboccato la strada del «risanamento».

Un buon viatico per affidargli l’incarico di guidare fuori dalle secche l’economia italiana e, di concerto con il sodale Draghi, quella europea. Poi si è impegnato in una stupida competizione con Grecia e Spagna, invece di creare un fronte unico per fare fronte a un pericolo comune che riguarda tutti. Ma soprattutto, era proprio necessario affidare a un tecnico, anzi a una confraternita di tecnici che non si sono mai occupati di problemi sociali e ambientali, il compito di affrontare la sollevazione di popolo – che, per ovvia conseguenza, è alle porte – e il disastro ambientale che sta devastando il paese (e il resto del mondo)?

Così diventa chiaro che l’unica tecnica con cui i ministri del governo Monti, e dopo di lui la sua agenda, chiunque la gestisca, sono in grado di affrontare i problemi messi all’ordine del giorno delle loro politiche è il solito manganello: contro gli studenti, contro gli operai, contro i minatori, contro gli insegnanti, contro i comitati che si ribellano allo scempio dell’ambiente, della salute e della convivenza civile. L’agenda Monti, ci spiegano infatti i suoi residui sostenitori, è già tutta definita: non c’è alternativa; e non c’è niente da fare. Ma fino a quando una soluzione del genere potrà bastare? E poi? 


G.Viale - 18/11/2012
il Manifesto
 

sabato 10 novembre 2012

...per conto di chi governa Mario Monti?

Nel nome della spending review il governo Monti si accinge a tagliare altri 7400 posti letto. Quello che rimane del sistema sanitario nazionale viene smantellato, giorno dopo giorno, dal governo reazionaio e ultraliberista di Mario Monti, grazie alla complicità dei tre partiti di maggioranza: PD-UDC-PDL (poi uno si chiede il perché del successo del Movimente Cinque Stelle: chissà perché?).

Mi chiedo, se proprio si vogliono reperire fondi, perché il premier nominato Mario Monti non faccia un accordo, come ha fatto il governo di centro destra tedesco, con la Svizzera per un prelievo forzoso dei capitali anonimi italiani (non quelli legalmente depositati, ma quelli anonimi fuggiti al fisco italiano) presenti nelle banche Svizzere. Basterebbe una tassa del 30% (sempre meno di quanto pagano gli italiani che onestamente pagano le tasse in Italia) per avere un gettito di 35/40 miliardi di euro. Caro Professore, perché non tassa quei capitali? Sono soldi che ci spettano e che stanno fuggendo al fisco italiano. Avete tagliato 300 milioni di euro per l’assistenza sanitaria ai malati gravi perché bisogna reperire fondi e là in Svizzera, oltre le Alpi, ci sono, pronti ad essere prelevati, ben 35/40 miliardi di euro (mica spiccioli): perché non prelevarli e restituirli agli italiani e magari, grazie a questo, abbassare le tasse che i cittadini e i piccoli  imprenditori e commercianti da sempre pagano? Perché no?

Si è fatto un giro nel paese? Ha parlato con i piccoli imprenditori e commercianti (l’ossatura economica di questo paese) per capire che stanno muorendo per colpa di una politica reazionaria e ottusa? Riesce a parlare, oltre con i CdA della banche, i membri del gruppo Bilderberg, i membri della Commissione Trilatera e i CdA della Goldman Sachs, anche con i piccoli commercianti e gli imprenditori? Lo so che Lei è al governo per tutelare gli interessi delle banche e dall’alta finanza internazionale e che non è stato votato dai piccoli imprenditori, dai piccoli commercianti, dai dipendenti e dagli operai. Lo so bene, caro Monti, ma dovrebbe anche provare a tutelare anche gli interessi del 99% degli italiani, visto che governa in nome e per conto degli italiani. Non crede?

E poi, mi permetto di chiederle, cosa sta aspettando a tassare, come ci chiede l’Unione Europea, gli immobili adibiti ad uso commerciale della Chiesa? si guadagnerebbe qualche altro miliardo di euro e si eviterebbe di pagare una multa all’EU. Come ben sa, infatti, l’Europa ci chiede di emanare, entro il 31 dicembre 2012, i decreti attuativi che impongono il pagamento dell’Imu per i locali a uso commerciale della Chiesa. Perché oltre a non incassare i soldi dobbiamo anche pagare la multa? Perché questa duplice ingiustizia?

E poi, cosa sta aspettando a tagliare l’acquisto di qualche aereo da guerra f35 (in tutto ci costano 20 miliardi di euro) e destinare quei soldi alla scuola, all’Università, alla ricerca e alla creazione di nuova occupazione e nuove imprese? Cosa sta aspettando a tagliare le pensioni d’oro (persone come Amato, solo un esempio, prendono più di 1000 euro al giorno) cosa che frutterebbe all’Italia circa 7 miliardi di euro? Cosa aspetta? Quei soldi sono degli onesti cittadini di questo stato, che si sentono traditi e abbandonati e che in Lei avevano rimesso fiducia. Commercianti costretti a chiudere bottega perché le tasse superano abbondantemente il 50% e lei non muove un dito contro le pensioni d’oro? Perché, di chi ha paura? Quei soldi sono i nostri e se governa in nome e per conto degli italiani, come ha giurato di fare, quei soldi ce li deve restituire. Deve (è un dovere), non può (una possibilità). Ribadisco: deve! Perlomeno se governa per conto degli italiani.

Le chiedo cosa stia aspettando a tagliare i super stipendi di manager pubblici (mettendo una soglia massima di 300 mila euro annui, che non è pochissimo, ma ben 25mila euro al mese, più o meno quanto prende il presidente degli Stati Uniti che mi pare abbia qualche responsabilità in più di un manager di un’azienda pubblica italiana) facendoci risparmiare qualche altro miliardo di euro. Che aspetta? Cosa aspetta a tassare i grandi patrimoni piuttosto di spremere i poveri pensionati, gli operai e i piccoli artigiani? Cosa aspetta?

Parliamoci chiaro, da quando è stato nominato (senza elezioni) al governo del paese, cosa ha fatto nell’interesse dell’Italia? Cosa? Cosa ha fatto oltre ad aver regalato 2miliardi di euro al Monte Paschi di Siena e qualche miliardo di euro alla Morgan Stanley (soldi che dovevamo, ma quanti soldi lo stato deve ai piccoli imprenditori e sinora non ha versato? Perché non pagare prima i debiti con gli onesti cittadini italiani, prima di saldare un debito con una banca d’affari, dove accidentalmente lavora suo figlio, che specula sugli stati e agisce come strozzino?) Cosa sta facendo da quando è stato nominato, oltre ad aver modificato l’art.18, tagliato le pensioni minime, aumentato le accise sulla benzina, aver introdotto l’IMU e l’aver tagliato i finanziamenti alla scuola pubblica destinandoli a quella privata che per il 90% sono in mano alla Chiesa?

Parliamoci chiaro e senza retorica: cosa sta facendo, da quando è al governo, oltre ad aver tolto i fondi per i malati gravi, aver insistito con l’inutilità della TAV e aver addirittura riesumato il ponte sullo stretto di Messina? I meno attenti diranno, sì ma ha messo a posto i conti dello stato. Di quali conti stiamo parlando? Il debito pubblico, dati alla mano, è aumentato da quando Monti è al governo, lo spread (qualsiasi cosa voglia dire) è sempre lì, gli italiani sono più poveri di prima, molte piccole e medie aziende sono fallite e l’Italia è in recessione. La legge anticorruzione che, forse, dopo un anno forse sarà approvata è semplicemente ridicola e corruttori, corrotti e chi ha truffato la pubblica amministrazione potrà continuare a sedere nei banchi del parlamento e fare le leggi in nome e per conto degli italiani. La corruzione, le ricordo, ci costa, secondo i dati della corte dei conti, ben 60 miliardi di euro l’anno.

A fine anno arriverà un’altra mazzata per le famiglie italiane. Chi esalta Monti dice: sì ma ora all’estero ci rispettano? Di chi stiamo parlando quando parliamo di “estero”? Delle banche estere? Sì è vero, ora rispettano Monti, non gli italiani, perché ha un interlocutore privilegiato. È vero, ci rispetta la Troika, quella che ora affama la Grecia e che impone misure liberticide. Ci rispettano i consigli di amministrazione delle grosse multinazionali pronte a comprarsi i beni dello Stato che Monti mette all’asta. Se è di questo rispetto che state parlando, va bene. Ma io guardo alle famiglie che sono sempre più povere; guardo ai giovani, il cui tasso di disoccupazione è ai massimi storici; guardo ai pensionati che non arrivano a fine mese; guardo alle imprese che chiudono, ai piccoli commercianti con un fisco assassino; guardo a tutte le vertenze sindacali aperte e guardo al divario tra ricchi e poveri che in questo paese cresce pericolosamente.

Guardo a tutto questo e mi chiedo: per conto di chi governa Mario Monti?


M.Ragnedda - 9/11/2012
Notizie Tiscali


domenica 4 novembre 2012

La mano visibile del mercato. Intervista a Luciano Gallino

Disoccupazione, contrazione dei salari, precarietà.
 Viaggio nell’economia reale, dal mercato dell’auto all’ascensore sociale mondiale: le classi esistono ancora, ed è falso sostenere che maggiore flessibilità aumenta i posti di lavoro


“Si sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”. Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni. Lo abbiamo intervistato in due tempi: quasi scusandosi, si è preso una pausa per andare a ritirare, a metà settembre, il prestigioso premio internazionale Viareggio-Repaci 2012.

Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?
“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati ‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4 milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.
Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’ sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove ‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di vario genere, non sono più tanto giovani. Si stima che almeno un 30% dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale: stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte adeguate per questa situazione. Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1 milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. La Cig vuol dire per un lavoratore ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro Paese europeo”.

Quali conseguenze ha la disoccupazione?
“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di autostima. Soprattuto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato, ho esperienza... Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in famiglia si logorano, si inaspriscono.
La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non producono, 4 milioni che producono poco e male. Poi ci sono le professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.

Perché colpisce il sistema produttivo italiano?
“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda.
Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.
Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil.  Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato”.

Quanto hanno influito le riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite nel tempo?
“Le cosiddette riforme del lavoro progettate dalla fine degli anni 90 in poi hanno aumentato il lavoro precario. In particolare, se si guarda la curva del lavoro precario, dal 2003 -anno della stesura del decreto attuativo della legge 30- c’è una fortissima impennata. La precarietà peraltro contribuisce alla crescita del coefficiente di disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente qualche mese.
È una delle conseguenze delle dottrine neoliberali, che per quanto sconfitte, smentite e sconfessate, sono sempre lì, si insegnano nelle università, costituiscono la forma mentale dominante nei media.
Chiunque abbia studiato a fondo la questione si rende conto che non c’è nessuno studio empirico di peso che metta in correlazione flessibilità nel lavoro e aumento dell’occupazione. Semmai molti studi dimostrano il contrario. Negli anni 90 l’Ocse insisteva molto sulla flessibilità, ma già dal 2004 ha cominciato a ricredersi.
L’evidenza ci dice che dal 2000 in poi l’indice Ocse della rigidità del lavoro in Italia è diminuito moltissimo, passando dal 3,50 del 2003 a meno di 1,8 oggi, in una scala da 0 a 5, dove il massimo significa quasi impossibilità di licenziare (tra gli indicatori c’è ad esempio il costo per il licenziamento). Ma questo nella testa degli economisti non entra. Eppure si danno l’aria di scienziati, e dovrebbero sapere che si fa se un esperimento fallisce”.

Molti spingono sulla retorica del costo del lavoro e della scarsa produttività, come nel caso Fiat.
“Assistiamo a dell’umorismo nero: 5 anni fa Sergio Marchionne disse ‘Che cos’è questa storia del costo del lavoro, che incide 5/6% sul totale! Bisogna occuparsi di cose serie’. Anni dopo pare abbia scoperto che il lavoro costa troppo... Chissà, forse non aveva previsto la crisi...
Continuano a sperare di produrre 6 milioni di auto. Nel 2007 -l’ultimo anno buono per l’industria automobilistica- in Europa si sono vendute di 17 milioni di auto. Quest’anno saremo sotto i 13 milioni, 4 milioni di pezzi in meno. Tutte le società automobilistiche sono in crisi, tranne forse la VolksWagen. I manager non hanno tenuto conto che l’auto è alla fine dei suoi giorni. E ciò vale soprattuto per l’Italia, visto che detiene il maggior numero di auto per abitante (in Francia è inferiore di un terzo)”.

Non c’è però solo l’auto: tutto il nostro sistema industriale pare in crisi.
“Come nel caso dell’acciaio: siamo il maggior produttore d’Europa, ma non è un segno di buona salute. Le acciaierie dovrebbero essere più piccole, per fare acciai più adatti. Noi abbiamo l’impianto più grande d’Europa, espressione di un vecchio modello produttivo, difficilmente riformabile. Negli Stati Uniti hanno chiuso gli impianti per realizzarli 5 volte più piccoli. Il sistema va ripensato, anche per ragioni ecologiche. Occorrerebbe pensare a produrre valore in settori differenti. Il territorio italiano è un disastro, da riqualificare. Il 50% delle scuole non è a norma, tra soffitti che crollano e pavimenti che cedono. C’è poi il risparmio energetico: 9 case su 10 riscaldano anche l’esterno...
Poi c’è da sviluppare nuovi sistemi di mobilità. Basti solo pensare alla metropolitana: l’Italia avrà meno di 250 chilometri di linee. Da sola, Parigi ne ha il doppio, Londra anche di più, così come Berlino. Tradotto stiamo parlando di grandi investimenti, per decine di migliaia di posti di lavoro”.

Come si può creare lavoro?
“La cementificazione è un fatto orrendo: in 20 anni la popolazione è aumentata di 2 milioni, ma sono stati costruiti 20 milioni di vani. Pura follia, così come costruire senza fine fiumi di automobili e lavastoviglie. Molte altre scelte creerebbero lavoro specializzato ad alta intensità: riqualificazione del territorio, di quel 70% di edifici non antisismici, degli acquedotti che perdono, delle scuole non a norma. C’è un’ampia platea di settori che richiederebbero lavori che sono altamente tecnici, che richiedono l’impiego di tecnologie avanzate e al tempo stesso hanno utilità collettiva ampia e diffusa”.

Il suo ultimo libro parla esplicitamente di lotta di classe.
“Le classi ci sono più che mai: quando una persona guadagna 1.200 euro al mese, è totalmente soggetto a ordini dall’alto, addirittura fino al modo in cui si muove. Prendiamo come esempio l’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano. In realtà è un diktat: 19 pagine sono dedicate alla metrica del lavoro, ovvero come e in quanti secondi si devono muovere la mani, le braccia, il collo, le gambe.
Ma questo vale non solo per l’industria meccanica, anche per la ristorazione, per l’agricoltura. Lavoratori con uno stipendio scarso, e una pensione che si annuncia da fame. Questa è una prima classe, distinta da altre, che hanno un minimo di indipendenza in più e di controllo fisico in meno: insegnanti, funzionari, fascia alta degli impiegati, commercianti.
Infine c’è la classe dominante, quella espressione di un potere politico ed economico enorme, che dice al 90% della popolazione che cosa fare, e controlla i mezzi per farglielo fare. Diffonde quella che viene chiamata ‘la mentalità del governare’. Sul piano internazionale è una classe dominante formata da tante classi locali.
In molti Paesi queste classi si assomigliano sempre di più, sono sempre più legate tra loro, dormono in alberghi identici, hanno gli stessi parametri di riferimento. Parecchi anni fa fu coniata l’espressione ‘classe capitalistica transnazionale’.
Tra classi, infine, la mobilità è dovunque inferiore a quanto si pensi. Un Paese in cui è particolarmente bassa sono gli Stati Uniti. La rigidità intergenerazionale negli Usa è drammatica. Anche in Italia la rigidità dell’ascensore sociale è molto rilevante, anche perché la cuspide della piramide del lavoro è sempre più stretta e c’è sempre meno posto”.

I salari fanno parte di questa dinamica.
“Con patrimoni finanziari ingenti si può fare tutto. Ma invece di spendere in investimenti o in impianti fissi, una quota rilevantissima degli utili delle aziende è stata utilizzata per compensare i top manager, sia Usa sia in Europa. Oppure l’impresa compra azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si misura l’operato del manager.  Il risultato è crescita di disuguaglianze. I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli Usa fermi addirittura dal 1975. Si stima anzi siano leggermente regrediti. Il fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente arricchito il famoso 1%. Tanto è vero che in alcuni Paesi europei troviamo indici di disuguaglianza astronomici. La Germania ha un indice di Gini (misura la distribuzione del reddito in una scala da 0 -massima distribuzione- a 1 -massima concentrazione-, ndr) tra i più alti del mondo: 0,8. Un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della metà del salario mediano”.

Come giudica la recente riforma del lavoro del Governo?
“A leggerne i provvedimenti, è chiaro che si ispira quasi alla lettera alle indicazioni contenuti in alcuni documenti della Commissione europea e dell’Ocse di una ventina di anni fa. Nel 1996 l’Ocse aveva pubblicato un rapporto in cui si insisteva molto sul fatto che la rigidità dei contratti manteneva bassi i tassi di occupazione. Dopo vari rapporti intermedi la stessa Ocse ha pubblicato altri studi in cui diceva che tutto sommato non c’è evidenza empirica del rapporto tra rigidità e tasso di occupazione. Vi sono stati dunque casi di Paesi con rigidità elevata accompagnata a occupazione elevata, e viceversa. In sostanza, l’Ocse ha smentito se stessa. Eppure, la riforma del mercato del lavoro riprende pari pari queste indicazioni. Devo dire a questo punto che pensare sia utile in un momento di grave crisi (finanziaria, ma con forti radici nell’economia reale) facilitare i licenziamenti per accrescere il tasso di occupazione, significa applicare una ricetta del tutto sbagliata. Diciamo che da una parte c’è l’orientamento preconcetto di persone che hanno la mente intrisa delle dottrine neo liberali. Ma ci sono anche ragioni più dirette: qualcosa bisognava dire o dare al Fondo monetario internazionale, all’Ocse, alla Bce, un testo che li accontentasse. A ogni riunione che si fa si dice che l’Italia ha fatto passi in avanti sulla strada delle riforme”.

Perché la finanza ha preso tutto questo potere?
“Perché non ha avuto opposizione. Non certo dai partiti, che a partire dagli anni 80 si sono adoperati per la finanziarizzazione, la liberalizzazione di movimenti di capitale, la produzione a valanga dei titoli come i derivati strutturati. Tra questi i partiti di sinistra e di centro-sinistra, che hanno ispirato molti documenti degli anni 80 in quella direzione, spinti da illustri personaggi della sinistra. Lo dico con una certa ambasce: i francesi Mitterand, Delors e Camdessus, il tedesco Schröder.
Le dottrine neo liberali, diffuse e propagandate a suon di dollari investiti in decine di ‘pensatoi’ e centri studi, hanno avuto un successo straordinario anche tra uomini politici, intellettuali e accademici. Poi c’è stata la caduta del Muro, e molte sinistre hanno fatto il possibile per mostrare di essersi allontanati dalle ideologie che vedevano nello Stato un soggetto di peso.
A dire il vero, soprattutto in Francia, furono dei problemi coi movimenti di capitale a sollecitarne la liberalizzazione. Si cominciò a dire che i capitali fuggivano, anche se il dato era falsato. Il risultato fu di liberalizzarne i movimenti.Questi fattori hanno fatto sì che la finanza non abbia avuto la minima opposizione. Il risultato sono state direttive, norme, leggi: l’Unione europea è diventata più liberale degli Usa.
Il fatto straordinario è che le banche oggi hanno convinto i governi che andavano salvate per la seconda volta. In meno di tre anni il debito pubblico europeo è aumentato del 20%. A partire dal 2008 si sono dissanguati i bilanci pubblici per salvare le banche. I tedeschi si sono trovati con miliardi di debiti. L’istituto Hypo Re è costata ai tedeschi 142 miliardi di euro: troppo grande per fallire, avrebbe trascinato con sé milioni di piccoli risparmiatori.
Dal 2010 la crisi delle banche è stata travestita da crisi del debito pubblico. E quando i bilanci pubblici sono esangui non ce la fanno più, e scattano i tagli. Ci sono dei progetti in sede di Parlamento Ue per regolare i derivati (che sono stati definiti da Warren Buffet un’ ‘arma finanziaria di distruzione di massa’) e per suddividere la banche commerciali da quelle di investimento, ma sinora non si è fatto nulla. La crisi ora è vagamente sotterrata ma potrebbe riservarci amare sorprese.
In America nel 2010 è stata introdotta la Wall Street Reform, ma è talmente complicata che richiede 500 decreti attuativi, che a oggi sono solo una trentina. La legge è farraginosa, e le lobby fanno la loro parte per svuotarla”.

Perché il lavoro è così colpito dalla finanza?
“Sin dagli anni 80 e 90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati di consumo hanno cominciato a essere saturi, poiché l’industria aveva capacità produttiva in eccesso. Eccesso di capacità produttiva vuol dire che il capitale investito rende poco. Vuol dire che il rendimento è basso. La proprietà -non solo brutti personaggi panciuti col sigaro, ma anche gli investitori istituzionali, compresi i fondi pensione- chiedono rendimenti molto più alti. Sono i proprietari di metà delle azioni dei capitali delle imprese di tutto il mondo. Coi bassi profitti che non si possono far salire perché si produce troppo e si vende poco, i dirigenti, per dare retta agli investitori, hanno puntato a comprimere il costo del lavoro. Quindi flessibilità, precarietà, e compressione dei diritti. Si chiama la ‘strada bassa’, la strada impervia delle relazioni industriali.
Nessuno però ne parla. E non parlarne fa parte dello straordinario successo ideologico delle dottrine”.


P. Raitano - 1/10/2012 
www.altreconomia.it
  

sabato 3 novembre 2012

vergognoso Machionne - III

Fiat Pomigliano, il ricatto di Marchionne :
“Firma contro la Fiom o finisci in mobilità”

Qualche giorno fa gli hanno sottoposto la petizione che esprimeva la preoccupazione degli operai per il fatto che le 145 assunzioni ordinate dal Tribunale per sanare la discriminazione contro la Fiom potessero minacciare l’occupazione attuale. Oggi due operai di Fabbrica Italia Pomigliano decidono di raccontare come è andata quella raccolta firme, che definiscono “uno schifo”. “E’ stata organizzata dall’azienda – dice una tuta blu, che vuole restare del tutto anonima – poi è stata passata ai capi, i quali a loro volta l’hanno data ai team leader e, quindi, agli operai. Da me sono venuti e mi hanno detto: “Ti consiglio di firmarla, perché se non la firmi ti mettono in mobilità forzata”. Ma io quella penna non l’ho neanche presa in mano. Ora ho paura di finire tra i 19 che dovranno essere licenziati, ma io faccio bene il mio lavoro e voglio essere giudicato per quello”. All’altro operaio, che invece aveva firmato senza neppure leggere, avrebbero intimato di non tornare sui suoi passi, pena l’inserimento nella lista dei ‘segnalati’. Ma le denunce dei lavoratori non si fermano qui. “Stiamo subendo un ‘terrorismo’, una pressione mentale che non ha eguali”. E che si aggiunge alle difficili condizioni di lavoro: “Ho un minuto per lavorare su ogni macchina, e appena finisco ce n’è subito un’altra. Non abbiamo neanche il tempo di bere o di soffiarci il naso e in più siamo sempre in piedi. Il nostro direttore ci disse: “Abbiamo tolto i tavolini e le sedie perché tanto con questo nuovo sistema di lavoro non c’è nemmeno più bisogno di sedervi”. Di fatto, stiamo sempre in piedi” 

vedi il video su:

http://tv.ilfattoquotidiano.it/2012/11/03/firma-o-ti-mettono-in-mobilita-ricatto-di-marchionne-agli-operai-di-pomigliano/209715/

 A.Postiglione - 3/11/2012
il Fatto Quotidiano 

 

venerdì 2 novembre 2012

vergognoso Marchionne - II

La legge del padrone

Ci sarà pure la magistratura, farà le sue ordinanze, ma da che mondo è mondo il padrone resta il padrone e sul destino dei suoi dipendenti vuole decidere lui. Se poi il padrone, o armatore che dir si voglia, non vuole sporcarsi le mani, a decidere sarà il «manager», o comandante della nave che dir si voglia. Se poi il comandante si chiama Sergio Marchionne e quella che guida è una nave da guerra, non ci si può meravigliare per i suoi ordini.
L'ordine di ieri è terrorizzante: visto che mi si costringe ad assumere 19 soggetti sgraditi targati Fiom, mi trovo costretto a buttarne fuori altrettanti perché l'organico attuale nella fabbrica di Pomigliano è più che sufficiente. E adesso, che ci pensino i 2146 dipendenti della newco nata su un ricatto sulle ceneri della «vecchia» Pomigliano (che di dipendenti ne aveva 4.500 e tutti avrebbero dovuto essere riportati al lavoro) a sputare addosso ai 19 sgraditi, a Maurizio Landini, all'intera Fiom e, visto che ci sono, ai giudici che continuano a condannare la Fiat per le sue discriminazioni. Meglio che i rematori si scannino tra di loro. La caccia alla Fiom, del resto, era già iniziata anticipatamente e a combatterla erano stati alcuni militanti dei sindacati benedetti o peggio fondati da Marchionne, sulla base della parola d'ordine: mors tua vita mea, e lunga vita al padrone.
Per quanto attesa, almeno da chi ha imparato a conoscere Marchionne, la decisione di mettere in mobilità 19 dipendenti buttando la colpa su chi chiede giustizia e su chi glie la dà, resta pur sempre una decisione vergognosa. Scatenare la guerra tra poveri, mettere operai contro operai è l'ultima arma sfoderata dall'amministratore delegato Fiat. È uno sberleffo, per non dire un insulto, alla legalità, una rivendicazione di onnipotenza di chi ritiene di poter liberamente licenziare per rappresaglia (come a Melfi, o come sempre la  

Fiat, anche ai tempi di Valletta) o non assumere sempre per rappresaglia, come a Pomigliano. 
E se un'autorità superiore, a cui deve attenersi perché ha il compito di far rispettare le leggi, getta sul tavolo un'ordinanza per il ripristino della legalità, allora Marchionne rovescia il tavolo addosso agli operai, non potendo sparare al giudice. Non sarà semplice mettere in pratica la ritorsione annunciata ieri dall'uomo nero del Lingotto, perché renderebbe necessario far convivere la cassa integrazione ordinaria legata alla crisi con la mobilità per rappresaglia. In ogni caso, oltre ad attizzare lo scontro tra lavoratori l'urlo rabbioso di Marchionne serve a distrarre l'opinione pubblica dai problemi reali della Fiat: l'esplosione dell'indebitamento, la distruzione di liquidità avvenuta negli ultimi tre mesi, la decisione di cancellare il marchio Lancia e di ridurre quello Fiat alle vetturette, l'ennesimo rinvio degli investimenti a un fumoso futuro, mercato permettendo, il trasferimento negli Stati Uniti di ricerca, investimenti, comando. E domani magari anche Piazzaffari sarà abbandonata per far approdare il titolo a Wall Street.
Chissà se Monti continuerà a dire che un imprenditore ha il diritto di fare quel che vuole e dove vuole per raggiungere i suoi scopi. Cioè il profitto. La politica, come le stelle, sta a guardare.


L.Campetti - 01/11/2012
il Manifesto 

giovedì 1 novembre 2012

vergognoso Marchionne

Fiat Pomigliano, in mobilità 19 operai per riassumere i licenziati Fiom

Marchionne risponde indirettamente all'ordinanza della Corte d’Appello di Roma che obbliga l'azienda ad assumere i dipendenti di Fiat Group Automobiles iscritti alle tute blu della Cgil che avevano presentato ricorso per presunta discriminazione

La Fiat metterà in mobilità 19 dipendenti della fabbrica di Pomigliano. Questa la risposta del Lingotto all’ordinanza della Corte d’Appello di Roma che obbliga l’azienda ad assumere i 19 dipendenti di Fiat Group Automobiles iscritti alla Fiom che hanno presentato ricorso per presunta discriminazione.  ”E’ proprio una vergogna, Marchionne non perde occasione per cercare di dividere i lavoratori. Adesso dichiara anche guerra alla magistratura per far pesare sui giudici la situazione che si sta creando”, ha commentato a caldo Mario Di Costanzo, iscritto Fiom che dovrebbe essere assunto entro il 28 novembre.
La casa di Torino “ha da tempo sottolineato che la sua attuale struttura è sovradimensionata rispetto alla domanda del mercato italiano ed europeo da mesi in forte flessione e che, di conseguenza, ha già dovuto fare ricorso alla cassa integrazione per un totale di venti giorni. Altri dieci sono programmati per fine novembre”, ha detto la società di Sergio Marchionne in una nota precisando di essere “consapevole della situazione di forte disagio che si è determinata all’interno dello stabilimento, sfociata in una raccolta di firme con la quale moltissimi lavoratori hanno manifestato la propria comprensibile preoccupazione”.
Il riferimento è alla petizione firmata nei giorni scorsi dall’81% dei i 2.143 lavoratori dello stabilimento, anche se secondo gli stessi organizzatori della raccolta, il documento ”non è finalizzato a tenere fuori i colleghi della Fiom”, ma a “non far uscire nessuno degli assunti”. Non l’ha letta così la Fiat che nella nota con cui ha annunciato il provvedimento sottolinea che “l’impegno dell’azienda è quello di individuare la soluzione che consenta di eseguire l’ordinanza creando il minor disagio possibile a tutti quei dipendenti che hanno condiviso il progetto e, con grande entusiasmo e spirito di collaborazione, sono stati protagonisti del lancio della Nuova Panda”.
Lancio che però non ha avuto il successo sperato, tanto che nello stabilimento che avrebbe dovuto essere il modello per Fabbrica Italia, le ore di cassa integrazione si susseguono l’un l’altra da tempo. Ma per il gruppo di Marchionne il punto è un altro. “FIP non può esimersi dall’eseguire quanto disposto dall’ordinanza e, non essendoci spazi per l’inserimento di ulteriori lavoratori, è costretta a predisporre nel rispetto dei tempi tecnici gli strumenti necessari per provvedere alla riduzione di altrettanti lavoratori operanti in azienda. A tale fine oggi è stata avviata una procedura di mobilità per riduzione di personale di 19 unità ai sensi della Legge 223/91″.
Potrebbero però non esserci i requisiti per avere la mobilità per i 19 lavoratori. La legge prevede infatti che per ottenere l’indennità si sia in possesso di almeno 12 mesi di anzianità aziendale di cui almeno sei di effettivo lavoro. E nella newco di Pomigliano, come ha ricordato il segretario nazionale Uilm, Giovanni Sgambati, le prime assunzioni sono state effettuate a novembre 2011.
Requisiti o meno, “si tratta di una procedura chiaramente ritorsiva, chiaramente antisindacale e chiaramente illegittima, perché i motivi addotti nella nota resa pubblica dalla Fiat non giustificano nessun licenziamento, anche in considerazione del fatto che l’Azienda ha firmato un accordo nel quale assumeva l’impegno a riassumere tutti i lavoratori del Gian Battista Vico in Fabbrica Italia Pomigliano”, ha detto Giorgio Airaudo, segretario nazionale della Fiom responsabile del settore auto. “La Fiom”, conclude Airaudo, “respinge con forza ogni licenziamento poiché tutti i lavoratori devono rientrare al lavoro e invita tutti i sindacati a respingere questo ulteriore tentativo di dividere i lavoratori”.
”Siamo di fronte ad un ennesimo inaccettabile ricatto”, hanno fatto eco i segretari generali Cgil di Campania e Napoli, Franco Tavella e Federico Libertino. “Solo ieri la Fiat aveva dichiarato che non avrebbe chiuso nessuno stabilimento. Oggi mette in campo un palese ricatto a danno di tutti i lavoratori, pur di non accettare e delegittimare una sentenza del Tribunale del nostro Paese. Auspichiamo che tale miserevole comportamento venga rispedito al mittente anche dalle altre organizzazioni sindacali”, hanno ricordato. “Questa posizione evidenzia che il gruppo Fiat non ha alcuna intenzione di dare risposta alle centinaia di lavoratori ancora fuori dal ciclo produttivo”.
A fare da sponda all’azienda è stata invece la Cisl. “Da due o tre anni dura un gioco al massacro prodotto dalla Fiom, in combutta con i poteri della finanza, che non perdonano alla Fiat di approvvigionarsi finanziariamente fuori dall’Italia”, ha detto il segretario generale, Raffaele Bonanni. “In Europa il mercato dell’auto si è dimezzato e questo ha avuto ripercussioni fortissime sulla produzione”, ha aggiunto precisando che di fronte a ciò “noi abbiamo fatto il nostro dovere: Pomigliano era chiusa da anni, ora la metà dei dipendenti è tornata lavorare per un prodotto che non si costruiva più in Italia ma in Polonia”. Il sindacalista rivendica anche l’accordo fatto a Grugliasco “per un’azienda che da 6 anni non aveva un’ora di lavoro, e ora siamo lì a costruire la nuova Maserati”. Nonostante questo, afferma, “siamo stati contrastati in tutti i modi”. Per Bonanni, “l’accusa che si è fatta alla Fiat è di non aver mantenuto la parola di raddoppiare la produzione” ma, continua, “il progetto si è dovuto fermare per un restringimento della base di mercato. Chiunque abbia buon senso non poteva che ritenere possibile un riposizionamento”.
Intanto più che su Pomigliano, Fiat sarebbe concentrata sul Kazakhstan. Lo ha reso noto, secondo quanto riporta l’agenzia Interfax, il ministero degli Affari esteri kazako, al termine di un incontro tra l’ambasciatore di Astana in Italia, Andrian Elemesov, e alcuni manager del gruppo secondo i quali dei rappresentanti della casa automobilistica “hanno espresso il loro interesse a costruire un impianto di assemblaggio e a lanciare servizi di post-produzione delle auto Fiat e dei veicoli industriali Iveco” in Kazakhstan.

Il Fatto Quotidiano - 31/10/2012