lunedì 11 novembre 2013

Il vero obiettivo è privatizzare il pubblico

Riproponiamo da sbilanciamoci.info un pezzo di Agenor pubblicato lo scorso febbraio.
Agenor è un esperto di questioni europee che vive a Bruxelles.

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A che serve la crisi europea? Una risposta è che rende inevitabile la privatizzazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privati.
Come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo.

L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta “starve the beast”. La bestia è lo stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”. L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in quell’agenda”.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni.

21/02/2013
http://www.sbilanciamoci.info

giovedì 31 ottobre 2013

Insiel: Serracchiani, servono nuove competenze e capacità

(ANSA) - TRIESTE, 30 OTT - "Per la guida della società informatica regionale scelte di assoluta competenza, lontane da logiche politiche di basso cabotaggio": è il "messaggio" che la presidente della Regione Debora Serracchiani e l'assessore alla Funzione pubblica Paolo Panontin hanno confermato alle Rsu di Insiel ed ai sindacati di Fim, Uilm e Fiom di Trieste ed Udine. Capacità e competenza debbono infatti caratterizzare la nuova "governance" di Insiel che, ha osservato la presidente Fvg, dovrà "trovare una necessaria ed indispensabile semplificazione gestionale a livello di consiglio d'amministrazione, secondo gli indirizzi che la Giunta sta individuando per tutte le società partecipate". "Occorre un ripensamento complessivo sul ruolo e la funzione di Insiel", è stato quindi ribadito alla delegazione sindacali che aveva chiesto un urgente incontro alla Presidenza della Regione in merito al ventilato decremento economico- salariale in conseguenza della possibile applicazione, anche retroattiva, di alcuni provvedimenti normativi introdotti a livello nazionale lo scorso anno. "La nuova governance dovrà risolvere alcune delle criticità che si sono manifestate in Insiel in questi anni - ha sottolineato la presidente Serracchiani - rimarcando l'esigenza della Regione di poter contare su una società informatica forte e motivata a supporto delle esigenze soprattutto del comparto sanitario e delle Autonomie locali ma anche in vista dell'avvio in Friuli Venezia Giulia della progettualità 'Go on FVG' di formazione digitale". Secondo l'assessore Panontin, in questo scenario, sarà opportuno "recuperare ed utilizzare" le risorse Ue inserite nei diversi fondi strutturali comunitari. 

http://www.regione.fvg.it/rafvg/ansa/ansaRegionaleb.act?ansa=20131030.042&dir=/rafvg/cms/RAFVG/ansa/

mercoledì 23 ottobre 2013

Racconto da Atene

Tutti insieme, nessuno da solo


Sembra essere questo lo slogan scelto dalla resistenza greca, una resistenza dura, per forza e entità eguale a quella sotto la dittatura. Non ci sono torture da evitare c’è da combattere la fame, la povertà, l’espropriazione di uno stato e dei diritti sociali che esso comporta, il fascismo in ascesa e impunito grazie alle coperture militari e governative.
È lo slogan adottato da tutte le associazioni di movimento e politiche di opposizione alle misure della troika che ha portato la Grecia come ci raccontano i compagni e le compagne greche non a un disastro sociale ma addirittura a una crisi umanitaria. Ad Atene si fanno i conti sia con quello che si vede che con quello che si sente. Decine di persone normali che di notte dormono per la strada, un negozio aperto e 10 chiusi, interi stabili in disuso, fabbriche chiuse e università di Atene chiusa con un grande striscione che l’attraversa per tutta la sua altezza.
Intorno ai 4 milioni (su una popolazione di 11!) di persone sono sotto la soglia di povertà. I consumi sono calati del 7,5% nel 2012. 350.000 persone sono state licenziate in un anno, 30.000 al mese.
Su 6 milioni di lavoratori 3 milioni hanno già perso i benefici della sicurezza sociale compresa la sanità e non possono in alcun modo curarsi. La disoccupazione giovanile è quasi del 60%, i salari sono stati tagliati del 22% e del 35% per i giovani. Il governo ha reso legale la vendita di cibi scaduti.
La delegazione Fiom ad Atene, composta da 8 persone tra delegati e funzionari, nei giorni 30 settembre e 1 ottobre ha dovuto misurarsi con questa realtà.

La presenza del sindacato europeo nasce dall’ultimo comitato esecutivo di Industriall Europe che approva la richiesta di partecipazione e solidarietà nei confronti dei lavoratori greci e in particolare dei delegati e sindacalisti (tra cui il presidente del Poem, sindacato metalmeccanico greco) del cantiere navale di Skaramanga che rischiano 6 mesi di galera per presunte violenze avvenute lo scorso inverno durante uno sciopero per rivendicare il loro salario dopo 30 mesi senza stipendio.
La delegazione è composta da 180 persone. La più numerosa è quella belga con la Mwb, sindacato metalmeccanico vallone, da anni gemellato con il Poem greco che ha ben 80 partecipanti.
Sindacato multietnico, multilingue, militante, composto da compagni e compagne figli di generazioni di migranti provenienti dall’Italia, dalla Spagna, dalla Grecia, chi per sfuggire al fascismo, chi alla fame. Cantano i canti della Resistenza italiana, così come quelli della guerra civile spagnola, conosciuti da tutti perché, mi spiega un compagno, li hanno imparati dai loro compagni di lavoro.

Tante le voci che abbiamo ascoltato, dal primo giorno io e Valentina incontriamo Joanna, avvocato che lavora in un pool di avvocati che sostengono legalmente i migranti e soprattutto le migranti. Ci racconta cose impensabili di violenze, razzismi, violazioni dei diritti umani.
Due le iniziative ufficiali che svolge la delegazione della Fiom: la prima è la visita ai cantieri navali di Elefesis la mattina del 30 di settembre, la seconda il pomeriggio al Parlamento greco, ospite del gruppo di opposizione di Syriza.
Il 30 mattina partiamo con un pulmino per Elefesis (oltre il Pireo), cantiere militare, non possiamo portare con noi il filmmaker né possiamo fare foto.
Ci ricevono i delegati sindacali nella loro saletta, il traduttore ha studiato a Perugia, come tanti altri greci che incontreremo e che hanno fatto i loro studi in Italia.
Il cantiere è privato (600 addetti) così come Siros (230 addetti) e Skaramanga (1.200 addetti), gli unici 3 rimasti in piedi dopo la privatizzazione.
Negli ultimi due anni la situazione dei cantieri è precipitata, anche cercando qualche capitale estero non c’è nessun risultato in assenza di qualsiasi sostegno industriale ed economico del governo che anzi incentiva gli armatori greci ad andare a costruire le navi in Corea, dove le banche danno un sacco di soldi a un tasso ridicolo.
 

Sono stati in sciopero per 3 mesi perché non venivano pagati da 18 mesi. Dopo le lotte hanno ripreso a lavorare un po’ (2 navi e fanno anche riparazioni) con la decurtazione del 20% del salario. Per i 18 mesi senza salario hanno recuperato solo 2.000 euro.
Nel 2004 fu venduto il primo cantiere Skaramanga (ai tedeschi della ThyssenKrupp) e dopo tutti gli altri. I risultati della privatizzazione sono sotto gli occhi di tutti. Cantieri chiusi e quelli aperti hanno un sacco di problemi.
Ci dicono che siamo fortunati e che Fincantieri ce l’ha fatta, ce lo dice anche il direttore che incontreremo dopo la discussione con il consiglio di fabbrica che se la prende con l’Europa che ha messo negli anni Novanta la cantieristica europea in competizione con i vari Stati anziché con il resto del mondo permettendo la penetrazione dei coreani.

Alessandro Pagano e i delegati dei cantieri spiegano come abbiamo salvato in Italia i nostri cantieri, con mesi di cassa integrazione, con una lotta dura, con la volontà di difendere ciò che esiste, delle difficoltà di farlo di fronte alla volontà opposta del governo e degli armatori, con il rigore e la determinazione che i lavoratori di Fincantieri insieme alla sola Fiom e al suo coordinatore nazionale, Sandro Bianchi, hanno messo nella battaglia contro la privatizzazione di Fincantieri.
Se avessimo privatizzato oggi saremmo senza lavoro, senza cantieri e senza uno dei pochi settori industriali rimasti, esattamente come i greci.
I compagni del consiglio di fabbrica ci portano a pranzo. Mi sento in imbarazzo e dico che non avrebbero dovuto spendere dei soldi per noi. La risposta è stata per me stupefacente ma anche un pugno nello stomaco: “stai scherzando? Per una volta che qualcuno ci viene a trovare e si interessa di noi, per noi è solo un piacere”. Questa frase mi dà l’idea di quanto le loro condizioni di vita e lavoro e le loro splendide lotte siano lontane da Bruxelles e da Ginevra.

Il pomeriggio andiamo in Parlamento e ci riceve una folta delegazione di deputati di Syriza, con a capo una donna, la deputata Fothiou (geniale!).
Ci illustrano la situazione drammatica e ci dicono che hanno intenzione di proporre una conferenza europea che chieda l’annullamento del debito per tutti i paesi del sud dell’Europa, e una campagna contro il razzismo e il nazismo. Spiegano che Alba Dorata esiste dal dopoguerra ma non aveva mai contato nulla in un paese antifascista. Tutti i parlamentari e i militanti di Syriza sono impegnati nella fitta rete di associazioni sociali e di ong a cui danno anche sostegno economico.
Il primo di ottobre partiamo tutti in pullman per il tribunale. La manifestazione è vivace, peccato un po’ di pioggia. Dopo un’ora escono i nostri compagni, il giudice ha rinviato il giudizio al 5 di maggio perché a parer suo la polizia non ha prodotto le prove (foto) dell’accusa.
I compagni greci non sono affatto soddisfatti, ci ringraziano commossi e ci diamo tutti appuntamento a maggio.

Sia nelle riunioni ufficiali che in quelle con il movimento tutti ci raccontano di una Grecia che resiste. Si sono aperte 41 farmacie e cliniche sociali che curano quelli che non possono permetterselo con il volontariato di 100 medici, distribuiscono pacchi alimentari, in ogni quartiere si fanno mense sociali e si mettono insieme sia quelli che danno il cibo che quelli che lo cucinano e lo mangiano, si sono istituiti corsi di educazione sociale (molte scuole hanno chiuso e in ogni caso la gente non può più permettersi le materie complementari) con corsi di musica o di lingua, pool di avvocati che danno sostegno legale a chi perde la casa o non può più pagare. Per tutto questo lavoro collettivo si decide in assemblea nei quartieri una volta alla settimana e tutti insieme si decidono le priorità. Si sono organizzate decine e decine di cooperative. Ci sono anche esempi di autogestione di fabbriche andate a buon fine.
Questo esperimento di solidarietà e collettività per loro non è solo un esperimento di sopravvivenza, con esso si afferma che nessuno è da solo ma che tutti insieme si danno una speranza di farcela.

La delegazione riparte e l’ultima immagine che ci portiamo dietro è di una signora distintissima che mentre chiacchieriamo dopo aver mangiato un souvlaki ci chiede se può portar via il pane avanzato.
Torniamo con la sensazione di aver fatto qualcosa di buono e di utile. Averci regalato questa sensazione è un merito di tutti e tutte le persone che abbiamo avvicinato.
Non basterà, questo lo sappiano soprattutto una volta tornati nelle nostre routine, chi più chi meno burocratiche e di interminabili, a volte vuote, a volte inutili discussioni.
Io volo a Bruxelles dove c’è il coordinamento sindacale della Fiat in Europa. Con tutto quello che succede nel mondo Fiat in Europa, impieghiamo 5 ore di discussione con i veti di Fim e Uilm per decidere di inviare una lettera all’azienda per convocare un Cae!
Mi viene da pensare che forse i greci, nessuno da solo e tutti insieme, si salveranno, ma noi di sicuro no.


Sabina Petrucci
Ufficio Europa Fiom nazionale


Roma, 10 ottobre 2013

http://www.fiom.cgil.it/europa/comunicati/c_13_10_10-racconto.htm

mercoledì 16 ottobre 2013

Legge Stabilità

sunto da il Fatto Quotidiano di oggi 16 ottobre


Cuneo fiscale. La manovra prevede per il 2014 sgravi fiscali per 3,7 miliardi, di questi 2,5 miliardi sono per il cuneo fiscale. Sarà il Parlamento a decidere come ripartire il beneficio tra i lavoratori.

Incentivi per il posto fisso. 
 Tra gli interventi per le imprese e i lavoratori “c’è anche un incentivo per il passaggio dai contratti a tempo determinato a quelli a tempo indeterminato. Vale 7 milioni.


Salta la tassa sulle rendite, aumenta l’imposta sul bollo. 
Salta la tassa sulle rendite finanziarie prevista dalle bozze. Sarebbe passata dal 20% al 22%. Ma 3,8 miliardi arriveranno in tre anni dagli aumenti dell’imposta di bollo. Arriva un rincaro per le comunicazioni sui prodotti finanziari e per le comunicazioni web della Pubblica Amministrazione (16 euro).

Taglio agli sconti fiscali.
Arriva una prima sforbiciata agli sconti fiscali. Vale 500 milioni entro gennaio prossimo.

Rifinanziate le ristrutturazioni.
Arriva 1 miliardo di ‘scontì per per le ristrutturazioni edilizie e l’ecobonus.

Cig in deroga per 600 milioni e carta acquisti.
Gli ammortizzatori in deroga saranno rifinanziata per il 2014 per un importo di 600 milioni. Il Fondo per la social card è incrementato di 250 milioni di euro per il 2014.

Stretta sulle pensioni “ricche”, tassa su quelle d’oro.
Le pensioni più ricche – prevedono le bozze – quelle sopra i 3.000 euro non saranno adeguate al costo della vita nel 2014. Arriva invece una mazzata per quelle d’oro: sopra i 100.000 euro ci sarà un contributo “con la finalità di concorrere al mantenimento dell’equilibrio del sistema pensionistico”. Sarebbe del 5% per la parte eccedente i 100 mila euro fino 150mila, del 10% oltre i 150mila e del 15% oltre i 200mila.

Giù l’Iva per le coop sociali.
Non c’è la revisione delle aliquote Iva. Ma viene bloccato l’aumento dell’Iva per le cooperative sociali.

Spending review per 16,1 miliardi.
 Dalle attività di revisione della spesa arriveranno 16,1 miliardi in 3 anni.

Arriva la Trise.
Cambiano le tasse locali sulla casa. La nuova Service Tax, che scatta dal 2014, si chiamerà Trise e assorbirà Imu, Tares e Tarsu. Non il tributo provinciale ambientale.

Un miliardo ai Comuni per il calo della Trise.
Si prevede per il 2014 il trasferimento di 1 miliardo ai comuni per ridurre il prelievo della nuova tassa sulla casa Trise. E arriva contestualmente l’allentamento del patto di stabilità per i Comuni, sempre per 1 miliardo.

Non autosufficienti e 5 per mille.
Per gli interventi di pertinenza del Fondo per le non autosufficienze, incluso il sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica, è autorizzata la spesa di 250 milioni per il 2014. Rifinanziato anche il fondo per le politiche sociali e il 5 per mille.

Sale l’incentivo Ace.
Si incentiva la patrimonializzazione delle imprese che diventano più affidabili per le banche. Cioè sale l’incentivo Ace. Rivalutazione per i beni d’impresa. Rifinanziamento di 1,6 miliardi per il fondo di garanzia per le piccole imprese.

Norma pro eccellenze.
Arriva un supporto all’eccellenza italiana (Accademia della Crusca, Accademia dei Lincei, ecc) per evitare criteri che ne avevano menomato l’attività.



articolo completo qui  


aggiornamento 13.00

www.ilfattoquotidiano.it 
Landini sulla Legge di Stabilità: "I lavoratori non sono dei coglioni: se per avere dieci euro lordi in più al mese in busta paga, se la somma è che prendono meno di prima, non è che tu puoi prendere in giro le persone"


venerdì 4 ottobre 2013

Mentre noi pensiamo a Dudù, 1,7 milioni di nuclei familiari in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta

Quando questo governo Letta-Berlusconi è nato, il 30 Aprile 2013, ha ottenuto al Senato 233 sì, 59 no e 18 astensioni. Dopo 5 mesi, con gli stessi senatori e dopo interminabili risse e vergognose sceneggiate, ha ottenuto 235 sì, 70 no e un astenuto. A conti fatti tutte queste pagliacciate e giri di giostra per due miseri voti in più. Ma vi rendete conto che mentre “giocate” a fare e rifare maggioranze, a spostare uno o due senatori, a litigare in TV e sui giornali, a fare ridicole sceneggiate come quelle in Senato, 1.7 milioni di nuclei familiari in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta?

Lo sapete, cari Senatori, che mentre giocate a fare governi e governicchi e a insultarvi reciprocamente, nel solo 2013 ben 50mila imprese hanno chiuso i battenti? Ma lo sapete, cari Deputati e Ministri, che mentre siete intenti a guardarvi l’ombelico e tirare a campare, la disoccupazione giovanile ha raggiunto la cifra record del 40,1%? Dico, lo sapete che a causa della vostra incompentenza e litigiosità l’IVA è aumentata al 22% e questo porterà ad una contrazione dei consumi andando così a peggiorare una situazione già di per sè pessima? Dico, lo sapete che mentre mandate in onda queste penose sceneggiate, i fondi avvoltoi speculano sugli stati e dirottano le nostre (poche) ricchezze nei loro conti segreti nei paradisi fiscali? Lo sapete che siete funzionali al loro gioco?

Dico: lo sapete vero? Dico, cari senatori e deputati, ma voi sapete come vivono i comuni cittadini fuori da quel mondo dorato dove vi siete rinchiusi? Onorevoli e Ministri della Repubblica, lo sapete che i comuni cittadini non riescono più a pagare il mutuo e sono costretti a scegliere se curarsi o mangiare, se mandare il figlio all’Università o pagare l’assicurazione della macchina?

Credete siano tutti interessati al congresso del PD, alle regole per le elezioni del nuovo segretario e del nuovo candidato premier? Davvero, lo dico senza iprocrisia e falsa retorica, ma avete mai provato a guardare fuori dalla finestra? Ad aprire le tende, buttare lo sguardo oltre Montecitorio e Palazzo Madama, oltre il Quirinale e Palazzo Chigi: dico avete mai provato a farlo? Capite che a causa dei vostri giochi, risse, stoccate, risate, abbracci, insulti e poi ancora sorrisi, abbracci, insulti e stoccate, l’Italia sta morendo? L’ho scritto varie volte e commentatori ben più autorevoli di me lo hanno ricordato: la coesione sociale del Paese sta per esplodare con gravi conseguenze di ordine pubblico e sociale. Prima lo capite e meglio è per l’Italia. Prima lo capite e meglio è per voi. Così evitate di stare lontani dalla realtà e, magari, provate a fare quel poco che la Troika vi permette di fare.

Perchè, questo non dovremmo mai dimenticarlo, mentre questi teatrini vanno in onda, mentre noi qui discutiamo di maggioranza e opposizione, di fiducia e leggi ad personam, di lizzi e lazzi, lassù lontano dai riflettori che di volta in volta si prendono i vari Scilipoti o Formigoni, là lontano da sguardi indiscreti si pianifica e parla del nostro futuro. Si mettono in piedi politiche economiche che lo Stato, un tempo sovrano, deve accettare e recepire. Letta, uomo della Trilaterale e del gruppo Bildeberg, lo sa bene. E lo sa ancora meglio Napolitano, anch’egli vicino a questi ambienti, che ce lo ha imposto. Poi, ahimè, va in onda questa farsa, sceneggiate degne delle peggiori osterie, condite di insulti e grida. Ognuno a difendere il proprio orticello. Senatori di ogni ordine e grado che qualora si andasse a nuove elezioni non sarebbero più candidati; Bondi che dice quello che tutti sappiamo, ovvero che erano lì per difendere Berlusconi e dell’aumento dell’IVA non gli importa neanche un po’; Letta che sa che mai più sarà premier qualora crollasse questo governo e, soprattutto, sa che gli tocca guidare il semestre europeo: un’occasione, più unica che rara, che non può di certo lasciarsi sfuggire. E mentre ognuno è intento a difendere il proprio orticello o poltrona, i grandi fondi speculativi guardano dalla finestra, assoporando già le lacrime di sangue che dovremo versare per poterli arricchire. Avvoltoi che si lanciano sulle vittime in difficoltà.

Noi questi avvoltoi non li vediamo, perché siamo intenti a guardare le risse di falchi e colombe in casa berlusconiana o la miriade di correnti in casa piddina. Noi questi avvoltoi non li conosciamo perché i media ci parlano di quanto abbaia Dudù e non degli “Vulture Funds”, i fondi avvoltoi che dissanguano i cittadini, che obbligano lo Stato a tagliare i fondi pubblici per la scuola, la sanità, la ricerca, la sicurezza per pagare il debito da usuraio contratto con questi avvoltoi. Così, giusto per fare un esempio, lo scorso anno la Grecia, per salvarsi dalla bancarotta, ha dovuto versare alla Dart Management con base nel paradiso fiscale delle isole Cayman, ben 400 milioni di euro (800 miliardi di vecchie lire). Soldi sottratti ai lavoratori che si sono visti tagliare lo stipendio del 30%, soldi rubati ai pensionati, soldi sottratti all’Università (quella di Atene ha chiuso i battenti qualche settimana fa). Soldi finiti nei paradisi fiscali. Esentasse, manco a dirlo.

Mentre noi pensiamo alla squallida sceneggiata tra Cicchitto e Sallusti, questi fondi avvoltoi dissanguano le finanze degli Stati un tempo sovrani. Elliot, Hemishere, Dart (solo per citarne alcuni) stanno dissanguando le finanze degli Stati, dirottando i nostri soldi (quello che paghiamo con le tasse per intenderci) in paradisi fiscali. Stanno facendo all’Europa quanto hanno già fatto con le finanze del Ghana, dello Zambia, del Congo, dell’Argentina (che ad un certo punto si è rifiutata di regalare i soldi pubblici a questi avvoltoi senza scrupoli) e del Perù.

Ecco, continuiamo a pensare a Dudù noialtri, mentre loro lucrano sulle nostre debolezze. 
 
 
Massimo Ragnedda - 04/10/2013
http://notizie.tiscali.it
 

venerdì 27 settembre 2013

Oltre Telecom - la crisi epocale da cui l'Italia non sa uscire

Il caso Telecom Italia è in queste ore balzato all’onore delle cronache, ricordando all’opinione pubblica come il nostro paese stia drammaticamente perdendo i suoi cespiti più importanti. L’informazione moderna è frenetica e la memoria del pubblico corta: probabilmente la notizia, e il dibattito attorno ad essa, saranno già dimenticati nel giro d’un paio di giorni. Lo dimostra il fatto che il clamore suscitato oggi dal passaggio della compagnia telefonica nazionale in mani spagnole sia in realtà ingiustificato, trattandosi solo dell’ultimo episodio d’un processo di privatizzazione, parcellizzazione e vendita all’estero dei cespiti italiani che prosegue da oltre un ventennio. Processo che va di pari passo con la collocazione del debito pubblico all’estero, l’incremento della pressione fiscale per pagare i sempre più onerosi interessi, la cessione della politica monetaria a un’entità esterna, la rinuncia ad un ruolo statale nell’economia, ed altro ancora. Tutti fenomeni interrelati tra loro, che rispondono ad una carenza strategica dell’Italia e hanno il loro esito nella retrocessione del paese a un ruolo completamento subalterno. Ma andiamo per ordine.

Nel 1963 la nazionalizzazione del comparto elettrico, varata da Amintore Fanfani, conferì il monopolio nel settore all’ENEL. La SIP, una società elettrica rilevata negli anni ’30 dall’IRI e che fin dagli anni ’20 aveva investito nel settore telefonico, sfruttò le entrate derivanti dalla vendita dei cespiti all’ENEL per dedicarsi interamente a quest’ultimo settore, in cui già era da alcuni anni monopolista di fatto controllando tutti gli operatori. La storia della SIP è di successo, d’un operatore all’avanguardia mondiale. Ad esempio, è italiana l’introduzione della prima scheda telefonica al mondo (1976), una tecnologia protagonista per alcuni decenni della telefonia nonché antesignana della scheda ricaricabile. Anche questa seconda tecnologia, decisiva per lo sviluppo della telefonia mobile, fu un’invenzione italiana: la prima scheda ricaricabile al mondo fu emessa dalla TIM, nel 1996. 

Nel 1973 la SIP creò invece RTMI, la prima rete italiana radiomobile integrata nel sistema telefonico nazionale: è lo stesso anno in cui negli USA la Motorola lanciava il primo telefono mobile. Nel 1979 l’azienda statale italiana pose i primi 16 km di fibra ottica a Roma: si tenga presente che tale tecnologia era stata applicata per la prima volta negli USA solo due anni prima. All’inizio degli anni ’90 la SIP era l’azienda europea col maggior numero d’abbonati al servizio radiomobile. La STET, la società tramite cui l’IRI controllava la SIP, aveva più di 135.000 dipendenti e un fatturato di quasi 14.500 miliardi di lire. Tra le controllate di STET erano anche imprese strategiche come Selenia (produzione di radar, avionica, elettronica di bordo, sistemi missilistici) e Sistel (sistemi missilistici).

Nel 1985 cominciò il processo di privatizzazione, con la quota STET in SIP che decrebbe dall’82% al 54%. Nel 1994 dalla fusione di SIP con altre società controllate dalla STET nacque Telecom Italia, che nel 1997 si fuse con la STET stessa mantenendo il proprio nome. 
Nel 1995 fu invece scorporata TIM (che Telecom Italia avrebbe riacquistato nel 2005, aggravando il proprio indebitamento); SEAT fu invece scorporata e privatizzata a vantaggio d’una cordata guidata da De Agostini. 
Nel 1997, sotto il governo Prodi e con Guido Rossi a capo della società, il Tesoro cedette quasi tutte le sue azioni (il 35,26% del capitale) ricavando 26.000 miliardi di lire. Quasi 13 miliardi e mezzo di euro, allora decisivi per l’ingresso dell’Italia nell’Euro, ma ben poca cosa di fronte a un debito pubblico che oggi ha superato i 2000 miliardi di euro. 
All’epoca fallì il progetto di conferire il controllo di Telecom Italia a un “nocciolo duro” costruito attorno agli Agnelli e cominciarono le scalate: prima quella della cordata guidata da Roberto Colaninno e riunita nella società Hopa (1999), poi quella della Olimpia di Marco Tronchetti Provera (2001), infine quella della Telco composta da banche italiane e dalla società spagnolo Telefonica (2007).

L’OPA lanciata dalla cordata guidata dal Colaninno nel 1999 ebbe dimensioni imponenti: un affare da 100.000 miliardi di lire, il più grande (ancora oggi) nel suo genere in Italia e tra i maggiori al mondo. Eppure, tanto Colaninno quanto i suoi soci misero direttamente sul piatto poco denaro, facendosi invece forti del credito ottenuto da varie banche, con in testa la statunitense Chase Manhattan che garantì da sola metà dell’importo. Anche quello della Olimpia fu un acquisto a debito, e questa particolare modalità di scalata si è ripercossa sullo stato di salute della Telecom Italia. Sebbene i protagonisti abbiano sempre respinto l’accusa di aver scaricato sulla società i debiti maturati per acquistarla, è un fatto che dalla privatizzazione a oggi la Telecom abbia sostanzialmente bloccato gl’investimenti sulla rete, dimezzato i dipendenti (da 120.000 a 55.000), ceduto il proprio patrimonio immobiliare (con ingenti ricavi ma acquisendo l’onere d’affitti che ogni anno costano alla società varie centinaia di milioni di euro), passato di mano investimenti e controllate (Italtel, Digitel, Tim Hellas, Alice France e altre ancora). 

Malgrado questo ingente piano di dismissioni e ridimensionamento, il debito della società è esploso, dagli 8,1 miliardi di euro del 1998 ai 36 miliardi di euro di oggi. Ma, mentre la Telecom Italia accumulava questi ulteriori 28 miliardi di debiti, la società ha continuato a distribuire generosi dividendi ai suoi azionisti: ben più di 20 miliardi di euro.

Oggi politica e opinione pubblica fanno mostra d’indignazione per l’acquisizione della Telecom Italia da parte di Telefonica. La società spagnola con un investimento di poco più di 800 milioni di euro acquisisce il controllo di una che sul mercato vale 11 miliardi; i giornali hanno poi ben descritto come Telefonica, già indebitata di suo (54 miliardi di euro di debito netto), difficilmente investirà sulla rete italiana, ma anzi il suo principale interesse è sbarazzarsi della concorrenza che le sussidiarie Telecom Italia in Sudamerica fanno alla compagnia spagnola. Eppure, il disastro della Telecom Italia – da multinazionale dello Stato italiano all’avanguardia nel mondo a indebitato carrozzone svenduto a una compagnia straniera – si è consumato, lentamente e inesorabilmente, nel giro di un quarto di secolo, ed epitoma una sorte simile toccata a tante altre eccellenze italiane coinvolte nel processo di privatizzazione – un mantra che, sempre per un quarto di secolo e più, è stato ripetuto e presentato come taumaturgico dalla politica e dell’intellighenzia italiana. Alitalia e Cirio sono esempi di compagnie che, dopo l’uscita dall’IRI, non hanno certo brillato. Finmeccanica, rimasta in mano pubblica, ha mantenuto e consolidato il suo ruolo nel mercato globale, ma oggi è nel mirino della prossima tornata di privatizzazioni.

Il passaggio in mano straniera di determinate compagnie non è una questione di prestigio nazionale. Pecunia non olet. Il problema è altresì strategico e di tenuta del sistema Italia. La rete telefonica (ivi inclusa Internet) del nostro paese è passata in mano spagnola. Il sistema agroalimentare italiano è stato in larga parte acquisito dai francesi. Nell’informatica sono lontani i tempi in cui la Olivetti gareggiava con i marchi statunitensi nell’introduzione dei primi PC. L’industria degli armamenti, economicamente ancora sana, a causa della pressione della politica e di quella dell’opinione pubblica dopo il disvelamento d’alcuni scandali di corruzione, ha avviato la cessione di cespiti all’estero. L’Italia sta perdendo non solo il controllo di elementi strategici della sua economia e capacità produttiva, ma il processo di privatizzazione – a prescindere che sia avvenuto a vantaggio di compagnie stranieri o di “capitani coraggiosi” di casa nostra – si è accompagnato generalmente al radicale calo degl’investimenti nell’ammodernamento delle strutture e nella ricerca scientifica, nonché alla delocalizzazione d’impianti e produzioni all’estero. Vi è inoltre il problema fiscale: l’acquisizione da parte di grosse multinazionali favorisce quei processi di elusione in virtù del quale corporation dai fatturati miliardari versano in tasse cifre irrisorie (vedi il caso Apple, capace di pagare nel 2011 dieci milioni di tasse pur avendo entrate da 22 miliardi).

La perdita di controllo su strutture strategiche, il calo dell’occupazione, l’uscita da settori ad alta tecnologia (la progressiva sparizione della grande industria in Italia è all’origine di quell’incapacità del sistema d’assorbire i laureati italiani, con conseguente “fuga dei cervelli” istruiti a caro prezzo), sono problemi che l’Italia patisce non da oggi, ma da decenni, e che sono indipendenti dalla nazionalità dell’acquirente del cespite privatizzato. Gioielli dell’industria italiana, oggi finiti in mano straniera o in procinto di farlo, vi sono giunti dopo che il capitalismo nazionale li ha demoliti con una gestione poco lungimirante, e certo incosciente, mirante solo a massimizzare i profitti a breve termine. Uno Stato debole e guidato da funzionari poco coscienziosi, che si sono fatti scudo strumentalmente del tema del debito pubblico (le privatizzazioni hanno inciso e incideranno minimamente a vantaggio delle casse statali), ha svenduto beni così faticosamente creati e accumulati dall’Italia in sforzi pluridecennali. Inutile oggi stracciarsi le vesti perché Telecom Italia diventa spagnola, e il giorno dopo svendere ENI o Finmeccanica. Inutile anche recuperare la rete per decreto – e un nuovo sacrificio finanziario, dal momento che non si può espropriarla senza indennizzo – salvo poi perseverare nel non investirvi per ammodernarla, cosa più che probabile visto che nessuno più in Italia, né lo Stato né le banche né gl’industriali, hanno i soldi necessari e la volontà di spenderli.

Il problema è a monte. 
È in un’adesione ideologica e dottrinaria al neoliberalismo, coi suoi mantra del laissez-faire, della non ingerenza dello Stato nell’economia, del privatizzare, del lasciar fare al mercato. È nell’assenza di una pianificazione strategica da parte dello Stato e di una riflessione strategica da parte della società civile. È nell’incapacità della società italiana di mantenere una coesione morale e un minimo di patriottismo necessari a salvarla dagli ovvi assalti di competitori stranieri giustamente decisi a massimizzare i propri profitti. Sono questi gl’ingredienti della crisi del nostro paese, ch’è non solo la crisi del debito che l’attanaglia ormai da alcuni anni, ma è una più generale retrocessione dell’Italia dal suo rango di paese tra i più avanzati al mondo. Senza affrontare questi macro-problemi il declino proseguirà inarrestabile. E Telecom Italia che passa a Telefonica, nel libro di questo declino, è paragonabile a non più di un breve paragrafo.


D. Scalea - 25/09/2013
http://www.geopolitica-rivista.org

mercoledì 25 settembre 2013

Un Paese in (s)vendita

Finmeccanica si vende i gioielli

Ansaldo Sts, Breda ed Energia verso terre straniere. Il gruppo si concentra sul militare. Sindacati allarmati: «È una delle ultime aziende che investe in ricerca». Sembra tramontare anche l'ingresso di Cassa depositi e prestiti. E intanto Telecom diventa spagnola. A rischio migliaia di posti di lavoro


Borse che festeggiano, valorizzando il titolo del 4% in una seduta per il resto negativa. Sindacati preoccupatissimi e pronti alla mobilitazione. Governo tentennante, di fatto incapace di una politica industriale degna di questo nome. Nel caso Finmeccanica e nelle sue previste dismissioni c'è la fotografia di un paese che si riduce perfino a smantellare uno dei suoi ultimi grandi presidi industriali e tecnologici. Salvaguardando il solo comparto militare, a scapito di due eccellenze del settore civile come Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, e dell'unico polo ferroviario nazionale rappresentato da Ansaldo Breda.
A Fiom, Fim e Uilm che erano stati convocati proprio per parlare delle tre Ansaldo, l'ad di Finmeccanica, il «finanziario» Alessandro Pansa, ha ribadito che la sua politica non cambia: «Pansa ha confermato la strategia per il gruppo decisa nello scorso giugno 2011 - riepilogano i sindacati - tesa a concentrare le opportune risorse allo sviluppo dei settori considerati core business: aeronautica, elicotteristica, elettronica della difesa e spazio». Finché c'è guerra c'è speranza. Tanto che dell'ipotesi di vendere la controllata americana Drs, per fare un po' di cassa, proprio non si è parlato.
Al contrario Finmeccanica, che pure conta 40 mila addetti e in un paese tecnologicamente desertificato ha investito in ricerca e sviluppo 10 miliardi di euro negli ultimi cinque anni, sostiene che «anche a fronte dell'eccessivo indebitamento e della scarsa generazione di cassa, non ha le risorse necessarie per sviluppare le attività di tutte le società». Quindi si (s)vende: «Le trattative per la cessione di Ansaldo Energia ai coreani (di Doosan, ndr) sono a uno stadio molto avanzato - riassumono Fiom & c. - Inoltre l'ad Pansa ci ha informato dell'esistenza di un'altra trattativa aperta per il settore del trasporto ferroviario con importanti gruppi manifatturieri esteri». Che sono General Electric per l'altro gioiello di famiglia, Ansaldo Sts, e i giapponesi di Hitachi per Ansaldo Breda.
Allo shopping delle multinazionali potrebbe opporsi, almeno in teoria, il governo. Solo due giorni fa Stefano Fassina aveva fatto accarezzare una ipotesi «riformista»: nonostante che il ministero dell'Economia sia il primo azionista di Finmeccanica (con circa il 33%), il suo numero due spiegava: «Noi vogliamo una soluzione che, attraverso la Cassa depositi e prestiti, consenta alle tre Ansaldo unite di poter rimanere in modo molto trasparente e fermo sotto il controllo italiano, con la ricerca di partner industriali disponibili». Posizione analoga a quella del ministro dello Sviluppo economico Flavio Zanonato. Ma a giudicare dalle parole dell'ad Pansa ai sindacati, anche la (s)vendita soft incontra resistenze.
Di più: chiamata in causa («Tocca ora a Cassa depositi e prestiti farsi avanti con una proposta»), ieri la Cdp per bocca del suo presidente Franco Bassanini ha detto papale papale: «Non siamo la vecchia Iri, dobbiamo porre un'attenzione rigorosa alla sostenibilità economico-finanziaria degli investimenti e dei finanziamenti che facciamo. Anche i vincoli della Ue ci impongono di comportarci secondo i criteri degli investitori di mercato». Come se Ansaldo Sts e Ansaldo Energia fossero aziende decotte, e non dei gioielli del made in Italy.
Il sindaco genovese Marco Doria, che ha Ansaldo Energia in casa, la vede così: «Il governo Letta è stato troppo silenzioso su Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, una vicenda che ha un'importanza assoluta per l'industria nazionale. Lasciare la decisione sul futuro delle nostre aziende soltanto a un gruppo che legittimamente guarda ai suoi equilibri di bilancio mi è sembrato molto riduttivo». Del resto, quando Letta ha parlato in difesa di Ansaldo Breda - e dall'agenzia di consulenza tecnica indipendente Mott MacDonald emerge che non c'è nulla che non vada nel treno ad alta velocità Fyra contestato da belgi e olandesi - poi non è successo niente.

R.Chiari - il Manifesto - 24/09/2013

lunedì 23 settembre 2013

Comunicato Rete 28 aprile - Verona




IL RICATTO E’ LA NUOVA POLITICA
INDUSTRIALE DEI PADRONI.

La nuova politica industriale non è fatta di investimenti, ricerca e innovazione ma di ricatti.
Da Marchionne ai Riva questa è la nuova strategia dei padroni contro le lotte dei lavoratori e i loro diritti ormai quasi completamente cancellati.
La crisi è ben lontana dalla soluzione, anche se governo di ladre intese e padroni hanno inventato una ripresa che serve solo a distribuire denaro pubblico alle imprese, ma che dai dati ufficiali non ha alcun riscontro, giacché la disoccupazione e la precarietà sono aumentate anche quest’anno ed il Pil “è deludente”, come afferma la commissione dell’Unione Europea; che usa un eufemismo per dire che il nostro PIL è semplicemente disastroso.
In parole più semplici la ripresa è una ripresa per i fondelli.
Di fronte a questi ricatti la risposta del governo è di fare decreti ad hoc per permettere ai padroni di turno di continuare a sfruttare sempre più i lavoratori e a continuare ad inquinare il territorio provocando disastri e dissesti ambientali e morte.
Le cosiddette “parti sociali”(una volta si chiamavano sindacati e la Confindustria era il sindacato dei padroni che era la controparte sociale) balbettano e aspettano commissariamenti salvifici che salvano solo i profitti delle imprese che ricattano e inquinano.
E di tutto ciò si finisce per scaricare la colpa sulla magistratura che applica le leggi di questo Stato e ne pretende il rispetto. Applausi alla magistratura quando colpisce gli immigrati ma guai a toccare i padroni e i condannati per frode fiscale che reclamano “agibilità politica”.

La Costituzione Italiana, che un parlamento nominato vuole stravolgere perché indigesta a chi vuole le “mani libere”, sancisce che:
    Art. 41: L'iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
    E l’art. 43: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. 
Nel caso di Riva Acciaio, ancor di più, in quanto attività d’interesse generale giacché ha il monopolio dell’acciaio nazionale, vi sono gli estremi per la nazionalizzazione e senza indennizzo, giacché dovrebbe essere riva ad indennizzare lo Stato e i lavoratori per i danni provocati agli esseri umani e al territorio. Non ci si può limitare a chiedere lavoro perché il lavoro senza diritti fondato sui ricatti non è lavoro ma schiavitù.


La Rete 28 Aprile – opposizione CGIL esprime la propria solidarietà ai lavoratori con la propria presenza nelle piazze  e sui luoghi di lavoro,  contro ogni ricatto e attacco ai diritti del lavoro e costituzionali.
La Rete 28 Aprile si impegna a continuare nella CGIL il dibattito e, quando necessario, il conflitto democratico, per un’opposizione più incisiva contro la linea di governo e padroni per riportare nella lotta e nella contrattazione nazionale i diritti cancellati e per una più forte risposta complessiva fuori fa ogni compatibilità e responsabilità che non riguardano i lavoratori che troppo hanno già dato senza ricevere in cambio che disoccupazione, precarietà e miseria.

Rete 28 Aprile – opposizione CGIL Verona,
Via G. dai Libri, 4 37.131 Verona – tel. 338-8717731

venerdì 13 settembre 2013

CC Fiom - ODG su manifestazione 12 ottobre

Dichiarazione di voto di astensione di Sergio Bellavita. Segue il documento approvato dalla maggioranza (...)
 
Odg “Manifestazione 12 ottobre 2013”
Dichiarazione di voto di Sergio Bellavita
Ci asteniamo per due ragioni, in primo luogo non è stata accolta la nostra proposta di valorizzare e accogliere tutte le iniziative di mobilitazione che sono già preannunciate per ottobre, in secondo luogo consideriamo che la manifestazione a difesa della Costituzione non possa prescindere da una denuncia netta e radicale delle responsabilità del presidente Napolitano e del Pd sulla manomissione della Costituzione repubblicana.

Ordine del giorno
Manifestazione 12 ottobre 2013

Il Comitato centrale impegna tutta l’organizzazione alla piena riuscita della manifestazione nazionale indetta per il 12 ottobre sui contenuti del manifesto: “La via maestra: la Costituzione” e su cui si è svolta l’Assemblea aperta dello scorso 8 settembre.
Ciò in coerenza con la piattaforma con cui la Fiom ha svolto la manifestazione dello scorso 18 maggio e con le lotte per la difesa dei diritti nel lavoro, della democrazia, della legalità, rappresentate emblematicamente, dalle lotte per l’occupazione e contro la precarietà, per la 
riconquista del Ccnl, dalle vicende Fiat e dalla sentenza della Corte costituzionale.
Approvato con 77 voti favorevoli, 1 contrario, 14 astenuti


www.rete28aprile.it - 13/09/2013

giovedì 12 settembre 2013

Colpiscine 9 per educarne 7000 (piccoli (?) fascismi avanzano...)


Accusati 9 lavoratori per le proteste contro la Fornero

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In settembre a Modena, presso gli uffici del Prefetto cominceranno a Modena le audizioni per i 9 lavoratori sanzionati per l'occupazione dell'Autostrada A1, avvenuta il 31 marzo 2011 nell'ambito  della campagna nazionale di lotta contro la Riforma Fornero e per la difesa dell'art.18.

Il 31 marzo del 2012, più di 7000 operai metalmeccanici, giunti davanti al casello di Modena Nord, rompendo spontaneamente  cordoni e trattative improvvisate con la Digos, decisero di entrare in A1 e di bloccarne la circolazione. L'inziativa si concluse senza danni o tensioni, con ulteriori blocchi di “ritorno” lungo la via Emilia. L'entusiasmo dei lavoratori quel giorno era alle stelle, per aver finalmente partecipato ad un'inziativa non rituale ed essere riusciti persino a “forzarne” l'esito verso l'azione diretta.

Alcuni mesi dopo, arriva la rappresaglia: a 9 lavoratori (su 7.000!) viene contestata l'azione del 31 marzo, con la richiesta di pagare 2500 euro ognuno per l'infrazione commessa.
Ora: in un Italia in cui dalla Val Susa alla Sicilia fioccano arresti e criminalizzazioni di ogni tipo, questi provvedimenti possono risultare blandi o secondari. Ma qualche considerazione va fatta:

1) è la prima iniziativa della CGIL che a Modena subisce una sanzione giudiziaria/amministrativa da decenni a questa parte.  Un brutto calcio in culo, per un sindacato che in questa città è sempre stato nella stanza dei bottoni. Un chiaro segno dei tempi.

2) La sanzione pecuniaria, lungi dall'essere una misura debole o affievolita, rappresenta un pericolo crescente per le lotte sociali: Procure, Questure e Prefetture, spesso evitano la via scivolosa della denuncia penale (i processi sono lunghi e possono sfuggire di mano) e mirano nell'immediato a fare quanti più danni possibili sul piano economico a singoli soggetti, mirati o pescati a caso nella massa. Questo sistema è usato spesso con gli studenti: la novità è l'utilizzo contro delegati e iscritti del sindacato più rappresentativo.

3) La CGIL modenese ha sempre taciuto sulla vicenda, mentre la Fiom l'ha subita come un'infortunio da non ripetere: ma la massa di operaie e di operai che quel giorno si sono riversati sulla carreggiata della Milano Napoli, nell'azione di lotta più importante della storia sindacale modense negli ultimi vent'anni,  rappresentano una lezione da non dimenticare per i profeti del “... tanto i lavoratori non ci seguono...”.

Quando si fa sul serio, gli obiettivi sono forti, il terreno di lotta è chiaro, non solo i lavoratori  “...ci seguono”, ma spesso e volentieri  corrono avanti più veloci delle mediazioni di piazza o di palazzo.
Per le burocrazie e le Questure questo può essere un bel problema da risolvere con denunce e maxi multe. Ma per chi agita il conflitto sindacale e sociale, è una lezione preziosa.

Adesso c'è da capire la volontà di andare fino in fondo da parte della Prefettura (l'organo di appello alle sanzioni). Nel caso si confermasse tale volontà punitiva, le lavoratrici e i lavoratori che quel giorno erano in autostrada con la FIOM dovranno tutti essere nuovamente mobilitati nella solidarietà ai loro compagni colpiti, così come la CGIL dovrà schierarsi apertamente, mettendoci la faccia, a tutela dei propri iscritti.


G. Iozzoli

http://www.rete28aprile.it - 12/09/2013


mercoledì 11 settembre 2013

Rinazionalizzare le pensioni conviene

Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia si riprende la parte pubblica dei fondi privati. Nella gestione privata c'è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la cresta.



Non c'è due senza tre. Dopo Argentina e Ungheria anche la Polonia governata da un liberista ha rinazionalizzato il sistema pensionistico. 
Il governo di Varsavia ha obbligato i fondi pensione a trasferire forzatamente gli investimenti in titoli di stato del valore di 37 miliardi di dollari nelle mani del Tesoro, diminuendo di botto il debito pubblico di un valore pari all'8% del Pil. Con la debacle del sistema cileno di qualche anno fa - che però è una storia un po' diversa - la disfatta dell'offensiva contro la previdenza pubblica guidata una ventina d'anni fa dalla World Bank è completa. E pour cause. Quello che i primi tre paesi fecero fu semplicemente trasferire la gestione del sistema pensionistico pubblico ai privati sicché, mentre il sistema restava fondamentalmente il medesimo, i costi di gestione si accrescevano per la minore efficienza della gestione privata e dei profitti che questa intende lucrare. Per capire facciamo un passo indietro. Semplicissimo.
 


Nel sistema pensionistico pubblico gli enti mutualistici (come l'Inps) prelevano i contributi dei lavoratori (supponiamo 100 euro) e ne restituiscono altrettanti ai pensionati correnti (diciamo 98, con 2 euro che sono i costi di gestione del sistema pubblico che è molto più efficiente del sistema privato). I lavoratori sono consenzienti perché contribuendo oggi acquisiscono il diritto alla pensione da anziani.
Con le privatizzazioni, invece, gli stessi 100 euro dell'esempio venivano devoluti a fondi pensione i quali li investivano nel mercato finanziario. La promessa era che le pensioni future non sarebbero state più erogate dallo stato, bensì dal riscatto dei fondi investiti incluso il rendimento realizzato. 
Ma è proprio così? 

Intanto gli enti mutualistici come fanno a pagare le pensioni correnti una volta che vengano meno i contributi (se questi vanno ai fondi pensione)? Ciò che accade è che il Tesoro emette titoli di stato (per 100 euro) per pagare le pensioni correnti. E chi li compra? Gli stessi fondi pensione coi contributi dei lavoratori. 
Insomma, prima della riforma i lavoratori davano 100 allo stato e questo ci pagava le pensioni. 
Ora danno 100 ai fondi pensione che ci acquistano 100 titoli di stato con cui quest'ultimo ci paga le pensioni. 
È cambiato qualcosa? 
Nella sostanza no: i 100 di contributi servono sempre a pagare le pensioni correnti - com'è nella logica di qualunque sistema pensionistico in cui chi lavora sostiene gli anziani - solo che fanno un giro più tortuoso. E in questo giro c'è chi ci perde e chi ci guadagna. 

Lo stato deve pagare degli interessi sui titoli che emette. Per esempio, a un tasso del 5% per erogare 100 euro di pensioni deve pagare 5 euro di interessi all'anno su 100 di titoli emessi. E chi si intasca gli interessi? Supponiamo che i gestori dei fondi attribuiscano il rendimento dei titoli ai lavoratori, è questo un guadagno netto per loro? No, perché nella veste di lavoratori o di pensionati (e nella vita capitano entrambi i ruoli) lo stato chiederà loro 5 euro di imposte di più all'anno. Inoltre è molto probabile che dei 100 euro di contributi investiti in titoli di stato, i fondi pensione ne restituiscano ai lavoratori quando andranno in pensione solo, diciamo, 80 o 90, per le spese di gestione, marketing e profitti. 
C'è solo un vincitore, i fondi pensione che fanno la cresta.

Questi fatti erano chiarissimi già a fine anni '90 a economisti come Stiglitz e altri. Meno chiari erano a presunti tecnici nostrani, Elsa Fornero in testa, una studiosa vicina a potenti interessi finanziari (ma incompresi anche da esperti di pensioni vicini alla sinistra radicale). 

Gli economisti della World Bank, la principale paladina delle riforme, non erano così sciocchi da non vedere che si trattava di un gioco delle tre carte. Ma avevano un argomento di riserva. Con la riforma il debito pubblico cresce perché, come s'è visto, lo stato si indebita per pagare le pensioni correnti. Ma nella logica del tanto peggio tanto meglio della World Bank, ciò avrebbe aperto la strada a ridurre altre voci della spesa sociale. 

«Il fatto eclatante - nota uno sconcertato Vittorio Da Rold su Il Sole del 6/9 - è che i fondi pensione non saranno minimamente risarciti». Ma il giornalista si dà da sé la ragione: il governo polacco ritiene, infatti, «che i bond siano stati acquistati con i contributi dei dipendenti che altrimenti sarebbero andati al governo». 
Lo stato cioè si riprende titoli che appartengono ai lavoratori, e li cancella dal proprio debito, garantendo a questi ultimi le pensioni future, probabilmente più certe ed elevate, visto che chi ci rimette sono solo i fondi pensione che dovranno smettere di fare la cresta alle spalle di stato, lavoratori e pensionati.




S. Cesaratto - 10/09/2013

il Manifesto