Mentre abbondano le critiche sulle carenze delle regole di Shengen per l’immigrazione, con il Governo italiano che minaccia la secessione dall’Unione europea, ci sono questioni europee che, se possibile, dovrebbero preoccupare ancora di più.
Il processo che dovrebbe destare particolare allarme è quello della sostituzione del Patto di stabilità (e crescita) siglato a Maastricht nel 1991 – per intenderci quello del deficit al 3 per cento del Pil – con uno strumento molto più stringente: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) da approvare a Giugno da parte del Consiglio europeo. Questo dovrebbe prevedere, tra l’altro, interventi automatici di un Fondo europeo dotato di risorse pari a 500 miliardi di euro in cambio di cure da cavallo e della definitiva affermazione del predominio dell’economia tedesca e delle politiche economiche di Bonn sulle altre del Continente. Il primo passo in questa direzione è già stato compiuto nel Consiglio europeo del 24/25 marzo con l’accordo sul Patto Euro Plus.
Il Patto di stabilità era già stato definito “folle”, in un momento di particolare sincerità, dallo stesso Romano Prodi. Esso infatti non ha contribuito alla crescita o all’innovazione, ma almeno garantiva la sovranità nominale delle nazioni europee sulla gestione della propria politica economica. Le novità in gestazione a Bruxelles significheranno che le economie più in difficoltà del Continente saranno messe sotto amministrazione controllata da parte della Banca centrale europea secondo i principi di un nuovo “Frankfurt consensus”. Questo vorrà dire che i paesi dell’euro sotto attacco della speculazione internazionale, come Grecia, Irlanda e Portogallo, potranno essere costretti a accettare prestiti europei in cambio dei quali saranno obbligati a drastici tagli ai bilanci, ulteriori privatizzazioni, mutamenti delle relazioni industriali per rendere più “flessibili” i lavoratori.
Se si vuole comprendere perché così forte sia l’interesse a stabilizzare i sistemi finanziari di alcuni paesi europei basta considerare che, stando agli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali (giugno 2010), il sistema bancario tedesco è esposto sulla Grecia per 65,4 miliardi, sull'Irlanda per 186,4, sul Portogallo per 44,3 e sulla Spagna per 216,6, e che solo prestiti internazionali possono salvare le banche tedesche per le quali un crack finanziario dei propri debitori avrebbe effetti devastanti.
Si sta in pratica edificando, come da tempo chiedevano anche i più illuminati fra gli economisti, un governo dell’economia europeo che si affiancherà alla moneta unica. Ma questo governo è in realtà una rigida dittatura burocratica imposta da Francoforte e da Berlino. Tutte le economie europee dovranno diventare competitive come quella tedesca e per farlo dovranno tagliare costi del lavoro e assicurazioni sociali, rendere le loro imprese contendibili e possibili prede dei partner europei. In cambio nessuna risorsa aggiuntiva sarà erogata da un bilancio europeo asfittico che in tutto arriva al massimo all’1,27 per cento del Prodotto interno lordo europeo. Nessun sacrificio, nessuna solidarietà, verrà richiesta alle economie che meglio si sono sapute adattare al mercato unico europeo e che da questo mercato stanno traendo i migliori benefici stando ai saldi commerciali con gli altri paesi dell’Unione europea.
Il “Washington consensus” imposto dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale a partire dagli anni Ottanta è entrato in crisi definitiva all’inizio di questo secolo quando paesi come l’Argentina, la cui capitale era invasa da cittadini che sbattevano sulle padelle, sfondavano i bancomat e giravano di notte con i carrelli della spesa per raccogliere cibo nella spazzatura, si sono rifiutati di impegnare ogni stilla del proprio sangue per ripagare i debiti contratti. Anche il Frankfurt consensus, con Francoforte e Berlino che impongono tagli ai servizi sociali e riduzione di già miseri salari, non reggerà che qualche mese e cadrà sotto il peso delle sommosse sociali che si avvertono in tutto il Mediterraneo e che sembrano arrivare fino in Gran Bretagna (pochi giorni fa c’è stata a Londra la più grande manifestazione sindacale dai tempi dei minatori contro la Thatcher). L’idea di curare l’Europa con le stesse ricette monetariste che hanno condotto alla crisi economica e finanziaria del 2007 condurrà a sicure sciagure.
Rafforzare i meccanismi per la cooperazione economica, intervenire per armonizzare la fiscalità e gli standard lavorativi, sarebbe certo una cosa buona. Il problema è che, se non si cambia presto rotta, e se non si investirà in un vero governo europeo dell’economia che abbia delle risorse aggiuntive per le infrastrutture e per l’innovazione, che offra uno spazio adeguato (e non di semplice consultazione) all’intervento democratico dei Parlamenti e che dia l’idea di in minimo di solidarietà fra le regioni più ricche e quelle più povere del Continente, a rimetterci potrebbe essere l’intero sistema politico dell’integrazione europea, dove già ovunque abbondano rigurgiti nazionalisti ed identitari.
Giuliano Garavini
Il processo che dovrebbe destare particolare allarme è quello della sostituzione del Patto di stabilità (e crescita) siglato a Maastricht nel 1991 – per intenderci quello del deficit al 3 per cento del Pil – con uno strumento molto più stringente: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) da approvare a Giugno da parte del Consiglio europeo. Questo dovrebbe prevedere, tra l’altro, interventi automatici di un Fondo europeo dotato di risorse pari a 500 miliardi di euro in cambio di cure da cavallo e della definitiva affermazione del predominio dell’economia tedesca e delle politiche economiche di Bonn sulle altre del Continente. Il primo passo in questa direzione è già stato compiuto nel Consiglio europeo del 24/25 marzo con l’accordo sul Patto Euro Plus.
Il Patto di stabilità era già stato definito “folle”, in un momento di particolare sincerità, dallo stesso Romano Prodi. Esso infatti non ha contribuito alla crescita o all’innovazione, ma almeno garantiva la sovranità nominale delle nazioni europee sulla gestione della propria politica economica. Le novità in gestazione a Bruxelles significheranno che le economie più in difficoltà del Continente saranno messe sotto amministrazione controllata da parte della Banca centrale europea secondo i principi di un nuovo “Frankfurt consensus”. Questo vorrà dire che i paesi dell’euro sotto attacco della speculazione internazionale, come Grecia, Irlanda e Portogallo, potranno essere costretti a accettare prestiti europei in cambio dei quali saranno obbligati a drastici tagli ai bilanci, ulteriori privatizzazioni, mutamenti delle relazioni industriali per rendere più “flessibili” i lavoratori.
Se si vuole comprendere perché così forte sia l’interesse a stabilizzare i sistemi finanziari di alcuni paesi europei basta considerare che, stando agli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali (giugno 2010), il sistema bancario tedesco è esposto sulla Grecia per 65,4 miliardi, sull'Irlanda per 186,4, sul Portogallo per 44,3 e sulla Spagna per 216,6, e che solo prestiti internazionali possono salvare le banche tedesche per le quali un crack finanziario dei propri debitori avrebbe effetti devastanti.
Si sta in pratica edificando, come da tempo chiedevano anche i più illuminati fra gli economisti, un governo dell’economia europeo che si affiancherà alla moneta unica. Ma questo governo è in realtà una rigida dittatura burocratica imposta da Francoforte e da Berlino. Tutte le economie europee dovranno diventare competitive come quella tedesca e per farlo dovranno tagliare costi del lavoro e assicurazioni sociali, rendere le loro imprese contendibili e possibili prede dei partner europei. In cambio nessuna risorsa aggiuntiva sarà erogata da un bilancio europeo asfittico che in tutto arriva al massimo all’1,27 per cento del Prodotto interno lordo europeo. Nessun sacrificio, nessuna solidarietà, verrà richiesta alle economie che meglio si sono sapute adattare al mercato unico europeo e che da questo mercato stanno traendo i migliori benefici stando ai saldi commerciali con gli altri paesi dell’Unione europea.
Il “Washington consensus” imposto dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale a partire dagli anni Ottanta è entrato in crisi definitiva all’inizio di questo secolo quando paesi come l’Argentina, la cui capitale era invasa da cittadini che sbattevano sulle padelle, sfondavano i bancomat e giravano di notte con i carrelli della spesa per raccogliere cibo nella spazzatura, si sono rifiutati di impegnare ogni stilla del proprio sangue per ripagare i debiti contratti. Anche il Frankfurt consensus, con Francoforte e Berlino che impongono tagli ai servizi sociali e riduzione di già miseri salari, non reggerà che qualche mese e cadrà sotto il peso delle sommosse sociali che si avvertono in tutto il Mediterraneo e che sembrano arrivare fino in Gran Bretagna (pochi giorni fa c’è stata a Londra la più grande manifestazione sindacale dai tempi dei minatori contro la Thatcher). L’idea di curare l’Europa con le stesse ricette monetariste che hanno condotto alla crisi economica e finanziaria del 2007 condurrà a sicure sciagure.
Rafforzare i meccanismi per la cooperazione economica, intervenire per armonizzare la fiscalità e gli standard lavorativi, sarebbe certo una cosa buona. Il problema è che, se non si cambia presto rotta, e se non si investirà in un vero governo europeo dell’economia che abbia delle risorse aggiuntive per le infrastrutture e per l’innovazione, che offra uno spazio adeguato (e non di semplice consultazione) all’intervento democratico dei Parlamenti e che dia l’idea di in minimo di solidarietà fra le regioni più ricche e quelle più povere del Continente, a rimetterci potrebbe essere l’intero sistema politico dell’integrazione europea, dove già ovunque abbondano rigurgiti nazionalisti ed identitari.
Giuliano Garavini
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