«Vorrei cominciare, se possibile, dalle foto di Rinaldini che  ho visto pubblicate sulle prime pagine dei giornali italiani...». Con Giorgio  Cremaschi, segretario nazionale della Fiom - il leader più a sinistra di tutta  la Fiom, molto ambito nei salotti televisivi, a lungo considerato il possibile  erede di Fausto Bertinotti alla guida di Rifondazione, e poi un look trasandato  chic e sessant'anni portati senza stanchezza, sebbene trentacinque se ne siano  ormai andati facendo sindacato in fabbrica, o sui palchi, e sui palchi non è mai  stato semplice, ma certo neppure a lui era mai capitato di assistere a scene  come quella di sabato, a Torino, con Gianni Rinaldini spinto giù, nel vuoto -  con lui, con il Cremaschi, appunto, cominciamo dalle foto perché, a suo parere,  «sono un bel po' fuorvianti».
In che senso, scusi? «Vede, tutti quelli che stanno attorno a  Rinaldini, e lo tengono per le braccia, nonostante i ghigni, stanno solo  cercando di aiutarlo. Mediaticamente, però, sono foto che aiutano a far passare  altri messaggi». Quali? «Per la maggior parte della stampa di centro e di  sinistra, la scena simboleggia un caso simile, se non peggiore, a quello di  Luciano Lama cacciato dalla Sapienza di Roma nel 1977. Per la stampa di destra,  invece, le foto dimostrano la caduta, il crollo, la fine del sindacato  stesso. Entrambe le interpretazioni, com'è evidente, sono assolutamente forzate.  Ma utili a divulgare l'idea di un sindacato debole. Perfetto per realizzare la  figura dell'operaio che certi hanno in mente». E che sarebbe? «L'operaio  aziendalista che non sciopera, che se la prende con gli extracomunitari accusati  di portargli via il lavoro e che magari, come capita in Fiat, mentre centinaia  di suoi compagni sono in cassa integrazione, lui non solo lavora, ma fa pure gli  straordinari». Naturalmente, Cremaschi non ridimensiona certo la gravità di ciò  che è accaduto su quel palco, a Torino. «Diciamo che tendo a valutarlo  diversamente». Intanto - ed è l'unico passaggio, in questo colloquio, in cui il  tono della voce gli si allenta in un filo di ironia - «perché ci siamo fatti  fregare come dei polli e ora io non dico che dobbiamo tornare a organizzare i  nostri celebri servizi d'ordine di trent'anni fa, però, ecco, nemmeno farci  ridicolizzare da un gruppetto che vuol farsi pubblicità...».
E così siamo al cuore del fatto. «Sì, perché quelli dello  Slai-Cobas, la più piccola sigla sindacale presente in Fiat, hanno agito come  ultras d'una squadra di calcio. Sono partiti da Nola con un progetto preciso:  fare casino per farsi pubblicità. Punto, fine». Fine, mica tanto. Hanno  dimostrato che esiste uno spazio sindacale ancora più a sinistra della Fiom. Uno  spazio, per giunta, scarsamente coperto politicamente. «Con toni delicati mi sta  chiedendo se temo derive incontrollate?». Esatto. «No. Alla fine degli anni  Settanta, c'era un Pci potentissimo, eppure sappiamo come finì. Storicamente,  quel tipo di deriva non può essere replicata...». La parole di Cremaschi paiono  essere rassicuranti; non fosse che celano un ragionamento più profondo, e assai  preoccupante. «Purtroppo, se non vedo rischi di natura terroristica, intravedo  però la possibilità che si creino scenari di tensione del tutto simile a ciò che  accade nelle banlieu francesi». È un'affermazione grave: può essere più preciso?  «Se chiudono la Fiat di Pomigliano d'Arco, per fare un esempio, il rischio di  reazioni disperate è alto. E la disperazione porta rabbia, e la rabbia può  provocare violenza». Il ruolo della Fiom. «Poiché il rischio di insorgenza  sociale è forte, noi cerchiamo di guidarla e, in qualche modo, tenerla». Non  sarà facile. «È e sarà dura. Ma mentre Berlusconi e Tremonti dispensano  ottimismo, noi almeno diciamo la verità. Sa cosa rappresenta oggi la Fiom per  questo Paese?». Lo dica lei. «Il punto di equilibrio».
 
 
 
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