domenica 28 luglio 2013

IBM

L'accordo siglato giovedì 19 luglio tra IBM Italia S.p.A. e FIOM FIM UILM con la mediazione di Assolombarda è un'autentica vergogna. (...) Segna la definitiva capitolazione della FIOM ai voleri famelici di IBM ed al più bieco appiattimento sindacale di FIM e UILM. Ma andiamo con ordine.
 

Il 16 maggio in Assolombarda a Milano IBM Italia presenta alle OO.SS. ed al Coordinamento Nazionale delle RSU IBM un piano di esuberi nazionale per 355 unità. l piano è articolato sostanzialmente in 2 punti:
a) 206 persone dovranno lasciare l'azienda "volontariamente" con un' offerta d'incentivi  economici  o possibilità di ricollocazione esterna. La dicitura "volontariamente" è un eufemismo perchè in realtà le persone contattate sono ricattate e pressate. Comunque da quello che si sà IBM riesce a raggiungere il suo obiettivo;
2) 149 persone, tutte del settore amministrativo e staff, vengono poste in lista di mobilità ovvero licenziamento coatto. A molte di queste persone l'inquadramento professionale era stato cambiato, al fine di giustificare il licenziamento, solo pochi giorni prima.

IBM Italia S.p.A. ha chiuso il bilancio 2012 con un'utile d'esercizio superiore ai 100 milioni di euro. L'azienda motiva questi provvedimenti per via del calo del margine operativo di profitto e con la necessità di far crescere il valore dell'azione.
La reazione dei sindacati è nulla. Per un mese e mezzo le OO.SS:e la maggioranza del coordinamento nazionale insistono su una linea di trattativa: della serie che se l'azienda ritirasse i licenziamenti si può accettare tutto o quasi compresi i contratti di solidarietà. Ma l'azienda finge di trattare ed il 25  giugno rompe le trattative.

Solo allora FIM FIOM UILM ed il Coordinamento Nazionale delle RSU IBM proclamano per venerdì 28 giugno uno sciopero nazionale aziendale di 8 ore. Lo sciopero è debole e viene scarsamente motivato. L'effetto è nullo! L'inizio dell'invio delle lettere di mobilità si avvicina: la data prevista è mercoledì 31 luglio. I primi 5 giorni di luglio trascorrono senza che vi sia la minima azione sindacale.

Attorno al 15 luglio il Ministero del Lavoro invia un fax alle parti con convocazione, semplicemente per un tentativo formale e burocratico, per mercoledì 24 luglio a Roma. Ma come per incanto incominciano a circolare tra i delegati strane voci e , guarda caso pochi giorni dopo, in via straordinaria per venerdì 19 luglio è convocato un coordinamento nazionale delle RSU IBM Italia. Si ventila 'ipotesi di un accordo..... un pessimo accordo.

La mattina della riunione i delegati sindacali trovano sul tavolo dell'incontro un'ipotesi di accordo siglata la notte precedente in Assolombarda tra FIOM FIM UILM e IBM Italia S.p.A. 'ordine è perentorio: approvare quel testo.! L'azienda potrà effettuare 142 licenziamenti con procedura di mobilità scegliendo tra le lavoratrici ed i lavoratori , sempre del settore amministrativo o staff, a cui mancano 3 o 4 anni per accedere alla pensione senza che questi abbiano delle garanzie in caso di modifica della legge per il raggiungimento dell'età
pensionabile.

Qualora l'azienda non riuscisse a raggiungere in questo modo la cifra dei 142 esuberi per il residuo potrà aprire dal 1 Ottobre una CIGS a 0 ore per 1 anno. Il testo è approvato dal coordinamento deelle RSU IBM con 17 voti a favore( tutti i delegati FIM e la gran parte dei delegati FIOM) e 3 contrari ( 2 delegati FIOM ossia io ed il delegato della RSU i Palermo ed il delegato dello SLAI COBAS)

Vi risparrmio le altre amenità. Tutto ciò è stato firmato anche dalla FIOM .Io no faccio parte del Comitato Centrale della FIOM ma ho intenzione in un modo o nell'altro di portare a conoscenza dell'accordo IBM tutto il Comitato Centrale della FIOM.

Questo tradimento delle lavoratrici e dei lavoratori non deve passare!
 

Renato Pomari
RSU IBM Vimercate
Direttivo FIOM Brianza


http://www.rete28aprile.it/ - 24/07/2013

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Sergio Bellavita: "Ibm: la Fiom firma i licenziamenti"

 L'accordo IBM siglato qualche giorno addietro segna il ritorno della Fiom ad una pratica che negli anni passati avevamo deciso di rigettare, (...)
quella della sottoscrizione dei licenziamenti. IBM potra' usufruire grazie all'accordo sindacale, in barba alla legge 223 del 1991 che e' ben pi' complessa sulla definizione dei criteri e su quale sia la platea di riferimento per gli esuberi, di un mix chiavi in mano per poter licenziare chi vuole lei o in alternativa piazzarlo per un anno in cassa integrazione a zero ore. Un accordo inaccettabile, la fiom deve ritirare la firma.
Il referendum che e' stato promosso e' illegittimo, non solo perche' si chiede a mille lavoratori di licenziare 142 colleghi, ma anche perch pone in votazione interpretazioni restrittive e strumentali della legge 223 del 91 allo scopo di consentire all'azienda di licenziare chi vuole.
Le aziende sanno bene che senza accordo sindacale non possono licenziare quelli che vorrebbero loro perchè incapperebbero in un contenzioso legale molto complicato.
Per queste ragioni sono sempre disponibili a ragionare della volontarietà incentivata. La crisi, l'aggravarsi della stessa,la controriforma Fornero delle pensioni rendono tuttavia sempre pi' difficile sottoscrivere accordi sulla volontarietà.
Quest'intesa realizza un gravissimo precedente perche' regala all'azienda proprio quella liberta' di licenziamento che rivendicano.
E' cosi che fronteggiamo la crisi?
Se questi sono gli accordi sulle crisi, a che servono le mobilitazioni di settore?


Sergio Bellavita, portavoce Rete 28 Aprile Fiom 
 
 http://www.rete28aprile.it/ - 24/07/2013

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qui  il testo dell'accordo IBM

sabato 27 luglio 2013

L'Expo della precarietà a Milano

C’era bisogno di un’amplificazione mediatica nazionale e, perché no, internazionale, su cui dare forma al fumo di un inesistente piano occupazionale giovanile, ci voleva, come aveva chiesto la Confindustria, l'accordo delle "parti sociali”.
Eccolo allora servito su un piatto d’argento: l’accordo della precarietà e della ipocrisia tra CGIL-CISL UIL e le società coinvolte Expo 2015, un accordo che prevede 800 posti di lavoro all’insegna della massima flessibilità e sfruttamento.
Nel concreto: circa 300 persone saranno assunte con contratti a tempo determinato che prevederanno l’allargamento delle soglie quantitative di uso (massima flessibilità), 340 impiegati avranno un contratto d’apprendistato , che si può fare solo derogando alla legge, come prevede quell'art. 8 legge Sacconi, che una volta la CGIL rifiutava di applicare e voleva cancellare. Apprendisti di che, visto che è un lavoro che finisce con la fine del grande evento! Questo serve solo a non far pagare i contributi INPS e a questo si aggiunge la vergogna di 195 contratti da stagisti, con un salario lordo complessivo di 516 euro.
Ci si domanderà, gli altri 19mila come saranno assunti ? Lavoreranno gratis come volontari !!!
Il tutto “legalmente” garantito dalla promozione di un Osservatorio che ha lo scopo di garantire e monitorare il rispetto dell’accordo stesso.
Siamo, senza ombra di dubbio, oltre il limite della decenza. Si legalizzano il supersfruttamento e il lavoro gratuito.
I padroni, mafiosi o meno (molte aziende sono in odore di n’ndrangheta e sotto inchiesta alla Procura di Milano) hanno definitivamente e concretamente mano libera : i vari Riva e Marchionne al confronto sono dei novellini.
D’altra parte l’enfasi con cui sono state riportate le prime dichiarazioni dei nostri vari governanti, Letta in primis, non lasciano dubbi. “Abbiamo un modello. D’ora in poi applichiamolo!!!“.
A questo profondo medio-evo culturale abbiamo il dovere di cercare di dare una risposta.
Questa è la Milano che sta inanellando, uno dietro l’altro, gli sgomberi dei vari Centri sociali giovanili con tanto di manganellate (l’ultimo e avvenuto martedì 23 al Remake, ex cinema Maestoso, occupato un mese fa dai giovani del quartiere Corvetto), oppure quelli relativi a famiglie abitanti in case popolari quotidianamente ignorati dai mass-media.
Questa è la città metropolitana che sta subendo lo smantellamento progressivo del Servizio Sanitario Nazionale (a vantaggio della sanità privata che copre ormai il 50% dei servizi) con chiusura di reparti negli ospedali, dei servizi sociali come i Consultori e i Sert, con il ridimensionamento degli organici etc., quindi con un attacco senza precedenti sul tema del diritto alla salute.
E’ la stessa città metropolitana (intendendo il suo vasto hinterland) che ha visto in un’area ampia come quella vimercatese-brianzola, nel giro di tre/quattro anni centinaia di chiusura di fabbriche con conseguenti licenziamenti e cassa integrazione. Ultimi i licenziamenti IBM, anche qui grazie ad un vergognoso accordo, in questo caso di FIM FIOM UILM
E’ la città, che vede Pisapia, il Sindaco “delle promesse”, restare sostanzialmente silente ed impassibile a tali eventi che ricadono drammaticamente su quelli che sono stati, in buona parte, i suoi elettori.
Questa è la città ove la CGIL interpreta nel modo più creativo possibile il piano per il lavoro rivendicato poco tempo fa e la nuova unità con Cisl e UIL: si firma tutto!
La nuova ondata di esuberi dichiarati dalle multinazionali vedrà una prima risposta importante dei lavoratori,ed è per questo che l’autunno si presenta fin da ora caldo e movimentato.
Lavoreremo perché a Milano ci si ribelli e si lotti contro tutto questo.


RETE 28 APRILE MILANO
27 Luglio 2013  
 
fonte : http://www.contropiano.org
 
 

mercoledì 24 luglio 2013

Signor Gino e signora Matilde, da noi dove sono finiti i soldi?

Andreas Utermann è capo mondiale degli investimenti ad Allianz Global Investors, e Allianz è uno dei colossi finanziari del pianeta. Ha appena pubblicato una serie di dati che lasciano stupiti, e soprattutto che lasciano una bella domanda in sospeso in Italia: da noi dove sono finiti i soldi?
Allora, con ordine. Utermann sembra aver dimostrato che a distanza di 5 anni dall’inizio dei cosiddetti salvataggi di banche e Stati, cioè dei salvataggi d’emergenza operati da altri Stati e da alcune Banche Centrali a causa della crisi finanziaria, quelli che hanno gettato i salvagenti (pieni di soldi) per non far affondare quelle banche e quegli Stati, oggi ci stanno guadagnando pacchi di soldi, o, al peggio un bel po’ di soldi. Subito al sodo e agli esempi.
Il Ministero del Tesoro americano è intervenuto con iniezioni di spesa per salvare il sedere al colosso assicurativo AIG e alle banche Citigroup e Bank of America. Dal primo ha ricavato la bella somma di 5 miliardi di dollari netti, e dalle seconde 4,5 miliardi netti. In Gran Bretagna il governo ha dato soldi a Royal Bank of Scotland, e anche se le cose sono ancora da definirsi, già il Ministero del Tesoro di sua maestà si è incassato al netto 5 miliardi di sterline in una singola operazione collegata.
Veniamo alle Banche Centrali. Pochi si ricordano oggi della tragica crisi asiatica del 1998. A quel tempo la Banca Centrale di Hong Kong si precipitò a sborsare 118 miliardi di dollari di Hong Kong per salvare deretani a destra e a manca. Alla fine della crisi ci aveva guadagnato al netto 90 miliardi. Ops! La FED americana, sempre secondo Utermann, sborsò 30 miliardi di dollari per salvare Bear Stern, e su quelli ci ha scremato 6,6 miliardi di profitti. Quando poi la FED si mise ad aiutare la solita AIG, si portò a casa un margine di 17,7 miliardi che, attenzione attenzione!, finirono dritti nelle casse del Ministero del Tesoro USA. La stessa cosa è accaduta in Inghilterra, dove la Bank of England ha incassato ben 33,3 miliardi di sterline pulite, dopo aver sborsato fondi per salvare una sfilza di banche inglesi, denaro finito anche qui in gran parte nelle tasche del Ministro del Tesoro britannico. Eh sì….
…. Perché va fatto sapere che la quasi totalità dei profitti delle Banche Centrali finisce nelle casse del Tesoro di appartenenza, a dispetto di certe fantasiose teorie. E qui sta il punto.
Ma un attimo, perché la nostra bella Banca Centrale Europea, nonostante tutti i suoi strilli d’allarme, farà pure lei il suo bel pacchetto di profitti sui salvataggi di banche europee e di Stati come Grecia e Portogallo. Lo studio di Utermann stima un malloppo al netto di 80-90 miliardi di euro in arrivo.
Vengo al punto. Il punto è che secondo le mie stime, basate su dati di Fondo Monetario e del Tesoro di Roma, la Banca d’Italia e il Tesoro stesso hanno sborsato anche loro una cifra che oscilla fra i 52 (certi) e i 118 (forse) miliardi di euro per salvare banche italiane in sta maledetta crisi finanziaria. E se tanto ci dà tanto, e se noi italiani non siamo proprio i più deficienti di tutti, qualche profitto ci dovrebbe essere stato anche per noi. Profitti, torno a sottolineare, che dovrebbero essere entrati nelle casse del Ministero di Roma. Ma dove sono i soldi? No, perché visto che l’esimio vice ministro delle finanze Fassina, pungolato da me, ci dice che al suo Ministero non ci si vedono 50 euro di profitto da qualche millennio, viene da farsi qualche domanda, no? Vuoi vedere che solo noi al mondo abbiamo fatto i salvataggi e ci abbiamo però smenato tutto come dei gonzi? Mi sorprenderebbe, che diamine! Noi? Gli italiani?
Non sono cose da nulla, signor Gino e signora Matilde. Noi dovremmo avere risposte a queste domande, visto che ci dicono che a Roma mancano gli spiccioli per mandare avanti le operazioni chirurgiche d’emergenza, per riparare le strade, o per dare lavoro ai nostri figli. Dico bene?

 
P. Barnard - 22/07/2013
http://www.paolobarnard.info 
 

martedì 23 luglio 2013

L’Italia può solo continuare così. O esplodere in volo.

Alfano assolto: non sapeva d’essere ministro dell’Interno.
Scoprirlo è stato uno shock. ”Perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?”
s’è chiesto basito come il conterraneo del trio Aldo, Giovanni e Giacomo.
Comunque resterà lì, al posto in cui è stato piazzato come un bullone, e il governo non cadrà, Napolitano l’ha ripetuto chiaro per l’ennesima volta agli irrequieti leaderini di partito che cercano di farlo traballare: voi non contate più un cazzo. Le vostre beghe, le vostre manovre, le vostre meschine ambizioni non spostano più un cazzo, non siete più voi a decidere. Non l’avete ancora capito? Avete tutti il cranio sfitto come Calderoli? Toc toc, c’è nessuno là dentro?
Il vostro parere ormai conta più o meno quanto quello di quei poveri coglioni dei vostri rispettivi elettori. Cioè un cazzo.
Il governo Letta è intoccabile.
La democrazia in Italia ha chiuso per debiti.
Al suo posto c’è un curatore fallimentare, ed è intoccabile.
Invece di criticare Alfano, voi e i vostri elettori dovreste prenderlo a esempio:
lui c’è, ma è come se non ci fosse. Guarda, ma non vede.
Come i gigli dei campi non fila, non tesse, non rompe i coglioni.
È solo un tramite. Riceve le richieste dei client e le inoltra ai server.
È un proxy.
Siatelo anche voi per vostri rispettivi proprietari, i vostri finanziatori palesi e occulti, i vostri referenti economici, è questo il vostro unico compito.
Il governo Letta è stato deciso da loro, e confezionato dai loro consulenti d’immagine. Ci hanno messo dentro anche una persona decente come la Kyenge per fare da parafulmine alle stronzate legaiole, così utili per sputtanare non solo l’opposizione, ma anche il concetto stesso di opposizione.
Siate proxy, non potete più aspirare a essere nient’altro: questa non è una tesi complottista, è il vostro presidente a ripetervelo chiaro e tondo a ogni occasione, Napolitano, He who must not be named.
Siete i pezzi d’una macchina che non potete fermare, né guidare, né capire, siete i bulloni d’un drone, un cacciabombardiere col pilota automatico.
Nessun cambio di rotta è possibile. L’Italia può solo continuare così.

O esplodere in volo.

 
A.Daniele - 22/07/2013
http://www.carmillaonline.com/

venerdì 19 luglio 2013

Comuni e Regioni nel mirino della finanza. 10 punti per una nuova finanza pubblica e sociale.

1. Uno dei nodi cruciali della guerra alla società, dichiarata dalle lobby finanziarie con la trappola della crisi del debito pubblico, vedrà nei prossimi mesi al centro gli enti locali, i loro beni e servizi, il loro ruolo. Infatti, poiché l'enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire, è intorno ai beni degli enti locali che le mire sono ogni giorno più che manifeste.

2.
Già nel rapporto "Guadagni, concorrenza e crescita", presentato da Deutsche Bank nel dicembre 2011 alla Commissione Europea, si scriveva a proposito del nostro Paese: " (...) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. In una relazione presentata alla fine di settembre 2011 dal Ministero dell' Economia e delle Finanze si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL). Inoltre, il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi di entrate. E questa operazione potrebbe rafforzare la concorrenza. (...) Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici. La Cassa Depositi e Prestiti dice che il loro valore totale corrente arriva a 421 miliardi e che una parte corrispondente a 42 miliardi non è attualmente in uso. Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo. (...) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere in valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL. Naturalmente, il potenziale può anche essere ampliato."


3.
La spoliazione degli enti locali è naturalmente avviata da almeno un quindicennio e vi hanno concorso diversi fattori. Il primo è stato il Patto di Stabilità e Crescita interno, ovvero le diverse misure, annualmente stabilite, per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria stabiliti dallo Stato in accordo con l'Unione Europea. Quel patto ha visto in una prima fase una durissima contrazione delle possibilità di assunzione del personale da parte degli enti locali, riducendone drasticamente la qualità del servizio e contribuendo in questo modo a costruire una campagna ideologica sull'inefficienza del "pubblico"; in un secondo momento è finita sotto attacco la possibilità e la capacità di investimento da parte degli enti locali che, con l'alibi di non doversi indebitare, sono stati costretti e ridurre al lumicino le opere da realizzare; infine, nell'attualità, perfino la capacità di spesa corrente trova draconiane limitazioni, mettendo definitivamente a rischio il funzionamento stesso degli enti locali. Classificati da ora in avanti in "virtuosi" e "non virtuosi", gli enti locali saranno costretti, per entrare nella prima categoria, ad aumentare le tasse locali e le tariffe, a ridurre ulteriormente l'occupazione, a dismettere il patrimonio pubblico e a privatizzare i servizi pubblici locali.


4.
Il secondo fattore è dovuto alla spending review, ovvero i drastici tagli lineari che, anziché riorganizzare la spesa eliminando gli sprechi e le corruttele, comportano un'automatica riduzione di tutti i servizi erogabili senza alcuna scala di priorità e senza la benché minima programmazione. Il terzo fattore è stata l'approvazione del Fiscal Compact, ovvero l'obiettivo sottoscritto in sede europea di portare entro venti anni al 60% il rapporto debito/pil che oggi è pari al 127%. Ciò significa annualmente una riduzione secca di tale rapporto del 3,3%, con un costo di oltre 50 miliardi/anno. Se a questo si aggiunge l'introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione - di fatto, la costituzionalizzazione della dottrina liberista - il quadro è decisamente chiaro.


5.
L'insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie. Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi. Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società.


6.
Il territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, in due diverse modalità di scala. La prima attraverso la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma criminale che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni: in pratica, anche solo per garantire l'ordinario funzionamento dell'ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare, arrivando al paradosso che, mentre fino a qualche anno fa erano i costruttori a fare la questua negli uffici comunali per ottenere cambi di destinazione d'uso di terreni, oggi sono i sindaci a inseguire i costruttori per poter firmare convenzioni che consentano di mettere in cassa i relativi oneri. La seconda è quella dei grandi eventi e delle grandi opere: che siano basi militari (Muos di Catania, Dal Molin di Vicenza), che siano mega-progetti infrastrutturali (Tav, Ponte sullo stretto, 35 nuovi progetti autostradali) o "eventi" (Giubileo di Roma, Expo di Milano), l'unico obiettivo è la consegna del territorio alla valorizzazione finanziaria e alla speculazione immobiliare.


7.
Il patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi). La sua svendita, cominciata da tempo, trova ora una sua più sistematica applicazione con il ruolo assunto nella stessa dalla Cassa Depositi e Prestiti, ovvero l'ente (ora SpA, con all'interno le fondazioni bancarie) che raccoglie il risparmio postale (230 miliardi) di quasi 24 milioni di persone. Ruolo attraverso il quale Cdp si propone agli enti locali come partner per la valorizzazione degli immobili da vendere, fissandone un prezzo e impegnandosi ad acquisirli qualora l'ente locale non riesca a venderli ad un prezzo maggiore di quello stabilito; operazione che l'attuale governo, sempre con il concorso di Cdp, intende estendere anche a tutti i terreni agricoli demaniali (338.000 ettari).


8.
I servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione. Su questo terreno, come anche Deutsche Bank nel suo rapporto citato all'inizio ha dovuto riconoscere, la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l'acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani, senza tuttavia far desistere le grandi lobby finanziarie: non solo attraverso i ripetuti attacchi all'esito referendario, bensì mettendo in campo - di nuovo con l'aiuto di Cassa Depositi e Prestiti - processi di privatizzazione strisciante, attraverso l'ingresso nelle società gestrici di F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp) e/o di FSI (Fondo Strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa.


9.
Come si evince da questa analisi, sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio. Si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell'accentramento istituzionale da una parte e in una furbesca campagna contro la "casta" e relativa riduzione della rappresentanza dall'altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone. L'obiettivo è chiaro: se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale.


10.
Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio senza zone d'ombra: devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi. Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata contro la trappola del debito, per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia reale.


M. Bersani, Attac Italia - 18/07/2013
http://altracitta.org/


Attac Italia
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Attac Italia
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venerdì 12 luglio 2013

Letta, l'esultanza, la realtà


Letta esulta.
Dal potere europeo ha ottenuto dall'Unione Europea 1,5 miliardi la settimana scorsa, spendibili in 2 anni dal prossimo gennaio; e ieri [ndr, 3 luglio 2013] altri 7 miliardi in cofinanziamento, cioè 3,5 messi dall'Italia e 3,5 messi dall'UE, però con soldi dei contributi italiani, grazie a una deroga al plafond del 3% di disavanzo pubblico.
Sostanzialmente si tratta, quindi in tutto, cioè, per il 2014, dell'autorizzazione a spendere soldi quasi tutti nostri per un importo di circa 7,75 miliardi, pari a meno dell'1% della spesa pubblica complessiva, a meno dello 0,5% del pil, a meno del 50% da meno del 20% di quanto l'Italia ha versato nel MES, a meno del 3% dei capitali italiani fuggiti all'estero sotto l'azione del governo Monti, a circa lo 0,7% della svalutazione del patrimonio immobiliare nazionale durante governo Monti, a circa il 25% del calo del PIL previsto per quest'anno.
Questi 7,75 miliardi per il settore produttivo sono ancor più risibili in confronto ai 2.000 miliardi che la BCE ha creato per le banche recentemente (zero miliardi per l'economia reale), agli 85 (miliardi di dollari) che la Fed immette ogni mese nel settore finanziario, ai 16.000 che creò tra il 2007 e il 2011 per puntellare le banche di tutto il mondo. Perché si danno migliaia di miliardi senza problemi, senza timore di scatenare l'inflazione, alle banche per la speculazione finanziaria, mentre al settore produttivo si lesina il diritto di investire i suoi stessi soldi?

Ma Letta esulta e nei sondaggi cresce: l'impatto psicologico è soggettivo e non risponde ai numeri oggettivi. E opera sull'immediato, non tenendo conto delle scadenze di autunno: ammortizzatori sociali, F35, Iva, Imu, ondata di licenziamenti, legge di bilancio, etc. Né del fatto che, in Italia, ogni 20 minuti fallisce un'impresa e che nel 2012 gli investimenti stranieri sono crollati del 70% - evidentemente, all'estero è chiaro che la barca sta affondando.
Altro dato socio-psicologico: governo e mass media codificano simili successi in questi termini: siamo stati obbedienti al modello economico-finanziario dominante e alla conseguenti prescrizioni dell'Autorità, quindi il potere effettivo ci premia permettendoci di spendere di più (dei nostri soldi) e dandoci da spendere un po' di soldi suoi (una piccola parte quelli che le avevamo versato noi). Una visione, quindi, paternalistica, infantile, nella quale vi è appunto un'Autorità per sua natura detentrice della ragione e del potere, della legittimazione, che ci insegna come funziona l'economia, che ci dice come dobbiamo fare, che ci punisce se non obbediamo, che ci premia se obbediamo (compiti a casa) - peraltro il premio consiste nel lasciarsi usare i soldi nostri o nel renderci un po' di quelli che le abbiamo dati. In questa visione, di tipo autoritario, paternalistico, antiscientifico e dogmatico, non è previsto che si verifichi se il modello economico-finanziario adottato sia stato confermato oppure confutato dai fatti e se e le ricette prescritte abbiano avuto gli effetti promessi oppure siano state smentite. Quello che conta è il rapporto di approvazione-disapprovazione con l'Autorità, non di successo-insuccesso con la realtà.

La visione scientifica e laica è opposta:
non esiste alcuna Autorità a priori (al di sopra dei fatti); invece si mettono a confronto i diversi modelli economico-finanziari delle diverse scuole, e si controlla, nel breve, medio e lungo periodo, le conferme e le smentite che i dati di fatto hanno dato a ciascun modello.
Al medesimo modo, si prende il sistema finanziario adottato nell'Eurozona con le sue regole e policies, e si controlla che effetti ha avuto nella realtà sui vari paesi e sui vari comparti, in termini di andamento e tendenza del pil, del debito, di occupazione, di domanda, di investimenti, di bilance commerciali, di convergenza tra i sistemi-paese, di prevenzione delle crisi, di stabilizzazione dello sviluppo, etc.; e si accerta se e quanto funziona, chi avvantaggi, chi svantaggia, se è sostenibile, etc. Se non ha funzionato, se ha causato danni, tendenze nocive, maggiori divergenze, allora obbedirgli è stupido, va cambiato o abbandonato perché è sbagliato.
L'adozione dell'Eurosistema, ossia di un sistema di cambi fissi tra i paesi aderenti, mantenendo separati i loro debiti pubblici e stabilendo che questi dovessero essere finanziati sui mercati speculativi globali, territorio di caccia di pochi grandi gruppi privati sovranazionali, che li manipolano, poneva un problema ovvio e gigantesco: come compensare gli sbilanci delle partite correnti tra i paesi membri, dato che i meno efficienti avrebbero importato di più ed esportato di meno, finendo per indebitarsi verso quelli più efficienti, cioè finendo per dover pagare loro flussi di interessi notevoli, il che avrebbe peggiorato ulteriormente la loro efficienza e competitività, in un avvitamento letale - che è ciò che stiamo vivendo in Italia. Oltre al fatto che i paesi debitori non hanno potere negoziale, il quale invece si concentra in mano ai paesi creditori, dando così a questi l'egemonia sulle strutture comuni e il modo di usarle sempre più nel proprio interesse a spese dei paesi debitori.

Nella federazione nordamericana, cioè negli USA, questo problema è stato risolto grazie a un unico bilancio federale
, a un debito pubblico unico e comune di tutti gli Stati federati, e a un'autorità centrale che trasferisce gli attivi, gli avanzi, del commercio intestate dagli Stati in attivo a quelli in passivo, attraverso la spesa pubblica, e impedisce il default dei singoli Stati.
In Europa ciò è mancato, non è stato fatto, ed è il più importante dei difetti, la causa primaria del malandare. E ovviamente non se ne parla all'opinione pubblica. E non si fa nulla per correggerlo nelle sedi europee. Letta esulta, ma non dice che, sul piano macro, non vi è stata, per compensare gli squilibri delle partite correnti entro l'eurozona, l'ammissione dell'interdipendenza organica tra gli euro-paesi con l'istituzione di un euro ministero federale delle finanze che compensasse gli squilibri imponendo ai paesi con notevole e strutturale avanzo di reinvestirlo, in parte, nei paesi con disavanzo, e di neutralizzarlo, in parte, mediante l'aumento della domanda interna. Vi è stata, invece, la diabolica scelta - diabolica perché divisiva, contrapponente - da parte della Commissione europea, di stabilire che sono accettabili (e non si deve intervenire) disavanzi delle partite correnti fino al 4%, ma surplus fino al 6%! Così la Germania è stata in reagola mentre, anno dopo anno, comprimendo i salari e la spesa pubblica, accumulava avanzi su avanzi, crediti su crediti, negli scambi intra-euro, con pari accumularsi di disavanzi e debiti e maggiori interessi passivi a crico dei paesi periferici, fino agli attuali scompensi critici.

In Europa vi è stata, conseguentemente al rifiuto di riconoscere l'interdipendenza economico-finanziaria, l'imposizione del principio "ciascuno per sé faccia i compiti a casa", ossia che chi è in disavanzo di partite correnti debba e possa pareggiare (procurarsi denaro) solo offrendo alti tassi e tagliando i salari per competere nelle esportazioni, mentre i paesi già competitivi aumentano la loro competitività grazie all'afflusso dei capitali in fuga dal fisco e dall'instabilità e dalla recessione dei paesi deboli, e al conseguente minor costo del denaro. E ciò ha diminuito e sta diminuendo sempre più la competitività del sistema-paese Italia, perché genera una spirale negativa, implosiva, di tassi-tasse-tagli-decrescita-deflusso dei capitali-demonetazione-credit crunch-insolvenze. Mentre aumenta l'indebitamento dell'Italia e degli altri paesi periferici verso i paesi euroforti. Nonché l'emigrazione nella medesima direzione oltre che verso altri paesi extra-euro che si difendono grazie al mantenimento di una certa autosufficienza monetaria, come Regno Unito, USA, Giappone, Cina.

E di questo perverso meccanismo macro BCE, Commissione, FMI, il governo e i partiti non vogliono proprio parlare né che si parli. Il fatto che il governone Letta non apra questa discussione, che è quella che conta, in sede europea, ma si accontenti di più flessibilità e di qualche premio di buona condotta da parte dell'Autorità europea, lo palesa quale inutile arca di Noè della partitocrazia parassitaria la quale, pur essendo causa essenziale del male nazionale, continua a millantarsi, all'interno, come soluzione di quel male per non mollare colli e poltrone. E a offrirsi, all'esterno, come garante degli interessi del capitalismo straniero sul nostro paese.


M. Della Luna - 04/07/2013
http://marcodellaluna.info


giovedì 11 luglio 2013

La fragile società del non lavoro

«Proprietà privata, proprietà sociale e proprietà di sé» può essere considerato il testamento dello studioso recentemente scomparso. Ha inoltre il pregio di presentare una lucida analisi della crisi sociale provocata dal neoliberismo e di proporre il reddito di cittadinanza come proposta per salvaguardare lo spirito del welfare state

La parabola intellettuale di Robert Castel non è comprensibile senza il suo coinvolgimento nel Maggio parigino. È a partire dalle barricate del quartiere latino che la sua produzione subisce una svolta inaspettata. Sociologo di formazione in debito con la tradizione delle scienze sociali francesi, condivideva le riflessioni sulla modernità di Emile Durkheim, laddove sottolineava la fragilità del legame sociale rispetto il carattere tellurico, «rivoluzionario» dello sviluppo capitalistico. Ma a differenza di Durkheim, era interessato anche alle istituzioni sorte dalle ceneri dell'ancien régime che mostravano una grande capacità di tenuta e performatività dell'ordine sociale rispetto a quelle tendenza del capitalismo di rendere voltatile ciò che prima era solido, per parafrasare una famosa frase di Karl Marx. Così il primo, importante saggio Robert Castel lo ha dedicato all'istituzione psichiatrica, che aveva e ha la funzione di garantire la riproduzione sociale, in una prospettiva «pastorale» tesa a prevenire, rendendola inefficace, la devianza dalla norma.
In quel saggio Castel non nasconde la sua sua fonte di ispirazione - La storia della follia di Michel Foucault -, ma prova ad alimentarla con una inchiesta sul campo. È con quel libro che avviene la svolta teorica, che lo ha fatto diventare, anno dopo anno, un intellettuale eterodosso. Vicino al partito socialista, si è confrontato con le posizioni teoriche più radicali de marxismo post-Sessantotto, accogliendone la pretesa di una politicizzazione integrale dei rapporti sociali. Così, dopo la critica dell'ospedale psichiatrico, e in sordina anche della psicoanalisi, intesa come una forma di un diffuso controllo sociale, ha concentrato la sua attenzione sull'altra grande «istituzione» del capitalismo, la fabbrica.

La maledizione del salariato
Castel parte dal presupposto che il lavoro è la fonte della cittadinanza, ma ne vede anche la crisi. Comincia infatti a scrivere sulla Metamorfosi della questione sociale quando le pratiche del divorzio tra lavoro e cittadinanza sono state già avviate. Quel saggio, infatti, rappresenta il tentativo di storicizzare il rapporto tra lavoro e «democrazia sociale», offrendo una provvisoria bussola per orientare l'esplorazione della società postsalariale. Intraprende così un percorso teorico che lo porta ad analizzare la precarietà e la crisi del welfare state, condensato in due brevi, ma intensi saggi: L'insicurezza sociale (Einaudi) e La discriminazione negativa (Quodlibet).
È quindi illuminante l'intervista raccolta da Claudine Haroche sulle contraddizioni del capitalismo, ma anche delle possibili via d'uscita dalla violenza - Robert Castel ha scritto pagine molto appassionate sulle rivolte delle banlieue, interpretate come disperate manifestazioni contro le invisibili, ma tuttavia operanti barriere alla piena cittadinanza di una parte della popolazione - che segnano la metamorfosi della società salariale.
Il libro intervista è stato pubblicato in Francia nel 2001 e ha come titolo Proprietà privata, proprietà sociale, proprietà di sé (Quodlibet, pp. 148, euro 16). Ricordare la data della pubblicazione è importante, perché il 2001 è l'anno della prima, globale crisi del neoliberismo, cioè di un modello sociale, economico e politico che ha posto nuovamente al centro della scena l'individuo proprietario. Nelle scienze sociali, la figura dell'individuo proprietario non incontra un forte dissenso, ma neppure una convinta adesione. Robert Castel non è interessato a liquidarla come una costruzione ideologica, bensì a stabilire quale sia stata la sua genesi, rintracciandola nella filosofia liberale ottocentesca e individuando la sua capacità mimetica di sopravvivenza quando si afferma la «proprietà sociale», cioè la definizione costituzionale di un insieme di diritti sociali tesi a definire una piena cittadinanza per chi proprietario non lo era.

La trappola dei liberali
È la lunga stagione del welfare state, la cornice giuridica che legittima una costituzione materiale incentrata su una figura sociale, l'operaio, che rivendica appunto la piena cittadinanza. Questo non significa che l'individuo proprietario scompaia: si mimetizza, subendo quindi una metamorfosi. Castel, tuttavia, è consapevole che con l'affermazione del modello neoliberista l'individuo proprietario è un concetto che viene radicalizzato. Per capire come è potuta avvenire tale radicalizzazione compie un doppio movimento. La prima mossa è risalire al nesso tra proprietà e cittadinanza stabilito da John Locke - è cittadino solo chi è proprietario -; evidenziandone le contraddizioni, in particolare quando l'economia politica deve considerare anche il lavoratore un proprietario seppur particolare - possiede la sua forza-lavoro, che vende e rinnova grazie al lavoro. È così che il lavoro va a costituire una triade assieme alla proprietà la triade che ha plasmato le politiche sociali nel Novecento. Per i liberali è il primo smacco: se anche il lavoratore può essere considerato un individuo proprietario, la pretesa di limitare la cittadinanza viene meno. Il secondo movimento compiuto da Castel riguarda il welfare state, cioè il più coerente tentativo di includere dentro l'ordine politico capitalistico il movimento operaio attraverso il concetto di proprietà sociale costruita proprio per i «non-proprietari». I diritti sociali sono la traduzione operativa di questa «proprietà sociale».
Da questo punto di vista il welfare state è la classica quadratura del cerchio: viene salvata la proprietà privata, facendo però diventare il salariato la figura centrale del processo produttivo. Il neoliberismo punta a distruggere tutto ciò, riportando al centro della scena pubblica l'individuo proprietario. Ma così facendo, destruttura tutte le forme di mediazione sociale e politica che hanno garantito la stabilità, certo precaria, ma pur sempre stabilità dello sviluppo capitalistico.

Dal vagabondo al precario
La cancellazione o il ridimensionamento del welfare state rivelano una violenza strisciante laddove rende incommensurabile la condizione del proprietario e quella del salariato. Il proprietario, dicono i neoliberisti, è il solo che ha il diritto alla piena cittadinanza, mentre i salariati hanno diritto solo a una compassionevole protezione stabilita discrezionalmente tesa solo alla sua sopravvivenza, condizione necessaria per la messa al lavoro dei «non proprietari». Le lancette della storia sembrano così messe indietro nel tempo, agli inizi cioè della accumulazione primitiva
Castel evoca il vagabondo, la figura simbolica della rivoluzione industriale che equipara al precario contemporaneo, figura che non è depositaria di nessun diritto e potenziale pericolo per l'ordine sociale da sottoporre a un ferreo controllo - le politiche di attivazione coatta al lavoro, ad esempio - perché la sua presenza è fondamentale nello sviluppo del capitale. Il precario diviene inoltre la figura centrale delle insorgenze e delle rivolte sociali. Ma ciò che è interessante nella posizione di Castel è il suo rifiuto delle tesi espresse da molti «scienziati sociali» sulla tendenza immanente del neoliberismo all'esclusione di ampie quote della popolazione.
Il capitalismo neoliberista deve infatti operare inclusioni differenziate, all'interno di una rigida gerarchia sociale scandita dalla posizione lavorativa dal colore della pelle, dal genere. Inoltre, e questo è uno dei passaggi dell'intervista che più di altri sono controcorrente rispetto alle teorie sociali contemporanee, il welfare state non è stata una parentesi, ma ha costituito la forma più avanzata della modernità: la sua cancellazione, ripete Castel, mette a rischio la sopravvivenza stessa della stessa modernità. Per questo, c'è da aggiungere, le ricorrenti, seppur a geografia variabile, rivolte contro il neoliberismo fanno riferimento a quei diritti sociali di cittadinanza che hanno costituito, nel Novecento, la cornice politica di critica al capitalismo. Inoltre, il contemporaneo precario ha una caratteristica fondamentale che lo differenzia dal vagabondo. Da una parte soffre di un deficit di appartenenza sociale, ma dall'altra presenta un surplus di soggettività grazie ai processi di soggettivazione messi in campo da oltre un secolo di conflitti di classe e di di oltre quantan'anni di welfare state.

L'incubo del nuovo ordine
Senza tornare alla spesso stucchevole discussione sull'esistenza o meno della postmodernità, quello che emerge dal libro intervista di Castel è però la fotografia di una impasse del capitalismo. Da una parte i neoliberisti vogliono costruire l'«uomo nuovo» - l'individuo proprietario - che decide la sua vita in base alla logica economica dei costi e dei ricavi; dall'altra la diffusa resistenza al nesso tra cittadinanza e proprietà privata. Il conflitto torna dunque a manifestarsi in forme estreme e talvolta violente.
Il libro, è stato ricordato, esce nel 2001, l'anno dopo il crollo del Nasdq e la fine del sogno di vedere nella Rete il nuovo eden capitalistico. Dodici anni dopo, la crisi del neoliberismo è ancora più radicale. Le pagine dedicate alle possibili vie d'uscita dall'impasse vanno dunque lette con attenzione. Specialmente quando intervistatrice e intervistato discutono sul reddito di cittadinanza. Entrambi concordano nel considerarlo la forma per un nuovo matrimonio tra lavoro e cittadinanza. Ma è qui che lo schema di Castel presenta un'intima fragilità. Lo sviluppo capitalistico non può garantire più la piena occupazione nelle forme novecentesche. Paradossalmente può garantirla solo attraverso una pervasiva e diffusa precarietà, dove l'intermittenza tra lavoro e non lavoro è tanto convulsa quanto «normale» esperienza di vita. Da questo punto di vista il divorzio tra lavoro e cittadinanza si è già consumato.
Il reddito di cittadinanza è dunque una forma di mediazione sociale che meglio si confà a una realtà fondata sulla figura del precario e su una disoccupazione strutturale. È cioè una misura «riformista» che punta a salvaguardare quella proprietà sociale affermatasi con il welfare state. Non ha dunque niente di rivoluzionario, ma consente di modificare i rapporti di forza nella società e relegare sullo sfondo, questa volta sì per sempre, la figura dell'individuo proprietario. E apre lo spazio per quel comune prodotto dalla cooperazione sociale. Consente cioè di poter cominciare nuovamente a pensare la politica della trasformazione. 



B. Vecchi - 04/07/2013
il Manifesto

martedì 9 luglio 2013

Quando vi parlano del Debito...

"Ciclo di Frenkel" o di Frankenstein? 
Ma non sarà che la crisi dell'eurozona è stata "causata" dal debito privato, anziché da quello pubblico? Il dubbio avanza, anche tra gli imprenditori e i loro media.

Il problema dell'euro esce di nuovo fuori con prepotenza. Ed esce sui media mainstream, non sui siterelli complottistici o – più seriamente – nelle pubblicazioni (online o cartacee) che da molto tempo criticano radicalmente l'impianto stesso della moneta unica. Noi tra questi, notoriamente.

La natura del problema è nello squilibrio di partenza tra “aree monetarie nazionali” che rappresentavano un determinato equilibrio equilibrio proprio di ogni paese, pur in una diversità notevole sul piano continentale. La decisione di passare ad un'”area monetaria” unica – per giunta in completa assenza di un potere politico equivalente e legittimato dal voto popolare, e con una Banca centrale con caratteristiche uniche al mondo come l'indipendenza da un potere politico peraltro inesistente – non poteva che stravolgere i diversi equilibri “locali”.

L'idea di partenza – rivelatasi completamente falsa – era che il nuovo equilibrio avrebbe permesso una crescita accelerata, a partire proprio da quei paesi che presentavano livelli di sviluppo inferiori. L'idea era falsa già sul piano storico, perché mai era avvenuto che un'unificazione sotto la stessa divisa (in ambiente capitalistico, naturalmente; in ambiente "socialista" può avvenire tranquillamente l'opposto) si rivelasse positiva per le aree più arretrate. Basterebbe guardare l'evoluzione della nostra più che centenaria “questione meridionale” per essere illuminati in proposito.

Quest'idea è peraltro alla base dell'altrettanto fasulla teoria economica chiamata “austerità espansiva” (elaborata da Rogoff e Reinhart, divulgata e resa senso comune da Giavazzi, Alesina e compagnia sui principali media), dimostrata falsa da studi accademici recentissimi ma non per questo abbandonata dai centri decisionali a-democratici che governano i 28 paesi dell'Unione europea (Bce, Fmi e la stessa Ue; la Troika, insomma).

Ora però siamo arrivati a un punto di svolta. È chiaro agli operatori economici “reali” (imprese “nazionali”, principalmente) che questa strada è fallimentare, sta distruggendo la stessa possibilità di “fare impresa” nei paesi più deboli.

E quindi viene pubblicamente posta la domanda: ma la crisi dell'eurozona dipende dall'eccessivo debito pubblico o, al contrario, dalle dimensioni abnormi di quello privato? La gestione della crisi fin qui ha favorito i capitali finanziari privati, responsabili unici della creazione di un insostenibile “effetto leva” (prestiti di gran lunga superiori alle proprie disponibilità), poi esploso nel 2007-2008 e fin qui tamponato solo dal dissanguamento dei bilanci pubblici nazionali e dalle successive “iniezioni di liquidità” delle principali banche centrali del pianeta. Si “scopre” perciò all'improvviso l'utilità anche empirica del “ciclo di Frenkel” (risultato degli studi dell'economista argentino Roberto Frenkel sugli effetti catastrofici della “dollarizzazione” del suo paese sotto Menem) e la sua straordinaria coincidenza con la crisi dei paesi Piigs europei all'interno dell'euro.

IlSole24Ore di oggi propone un'eccellente illustrazione del problema-euro da questo punto di vista, e vi proponiamo qui di seguito l'articolo e le schede curate da Vito Lops.

Da parte nostra, però, vogliamo fare un passo avanti. In questi mesi sta arrivando a conclusione un negoziato tra Ue ed Usa per la creazione di un “mercato unico transatlantico”, con caratteristiche molto simili a quelle del mercato unico europeo prima della creazione dell'euro. Lasciamo da parte per il momento le rivelazioni “spionistiche” che vedono gli Stati Uniti nel ruolo di “vampiro delle informazioni rilevanti”, non solo a fini militari ma anche commerciali (lo spionaggio industriale e sull'evoluzione delle strategie commerciali o monetarie rientrano in questo range), che comunque dimostrano che la "competizione" non diminuisce neanche tra alleati "squlibrati".

Invitiamo invece a riflettere sul fatto che si stanno ponendo le basi per ripetere un gioco folle e catastrofico su scala planetaria. È scontato, più che ovvio, che il “mercato unico transatlantico” metta insieme due “aree monetarie” profondamente differenti e con squilibri di potenza enormi. Citiamo per elencazione, senza entrare troppo nei dettagli:


  • gli Stati Uniti hanno una moneta che è contemporaneamente: unità di misura del valore delle merci sia all'interno che su scala globale, mezzo di pagamento globale, principale moneta di riserva degli altri paesi. Al contrario dell'euro, che ha funzione di unità di misura quasi esclusivamente sul mercato “interno”, una dimensione minore come mezzo di pagamento internazionale e una presenza solo discreta nelle riserve monetarie delle principali nazioni del mondo.
  • Gli Stati Uniti dal 1971 “stampano dollari” in quantità inconcepibili, obbedendo a criteri puramente “nazionalistici” (la Federal Reserve deve tener d'occhio il tassi di inflazione e quello di disoccupazione interni); mentre la Bce – che ha per statuto il solo compito di tener bassa l'inflazione – mantiene un controllo molto rigido sull'espansione della massa monetaria. Attraverso la "stampa libera" di dollari hanno scaricato per 40 anni i propri problemi economici sul resto del mondo (sono l'unico paese al mondo che possa dare "carta" di dubbio valore in cambio di merci fisiche e "immateriali")
  • Gli Stati Uniti sono la potenza militare dominante e usano questa potenza non solo per conquistare parti del mondo “strategiche” (i paesi con le maggiori riserve di idrocarburi o da cui poter esercitare pressione militare sui potenziali nemici), ma soprattutto per tenere alto il livello di “credibilità” della propria moneta. Come recita il vecchio detto inglese, “la moneta serve a costruire le navi e le navi servono a sostenere la fiducia nella moneta”. Tradotto in volgare: tutti accettano e usano i dollari di carta perché dietro la carta ci sono corazzate, droni e missili intercontinentali.
Il mismatch è evidente già così. È facile prevedere – se l'evoluzione della crisi globale non creerà molto prima inciampi decisivi – che l'effetto di medio-lungo periodo non potrà che essere la dollarizzazione dell'Europa. Con tutte le conseguenze che il “ciclo di Frenkel” e la parabola argentina illustrano con agghiacciante chiarezza.

Quando, anche da parte nostra, si pone la necessità e urgenza di un'uscita dall'euro dell'Italia e degli altri Piigs, si pone la condizione minima - ancorché difficilissima da realizzare - per far sì che questi paesi sopravvivano come centri produttivi e luoghi di civilizzazione. Preferibilmente insieme, con una moneta diversa dall'euro. E a maggior ragione dal dollaro.

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La crisi dell'Eurozona è un problema di debito pubblico o privato?
Per chi segue il ciclo di Frenkel non ci sono più dubbi

di Vito Lops
 

Nel 2013 il Pil dell'Italia (e non solo) è visto ancora in decrescita. Allo stesso tempo a giugno il tasso di disoccupazione è balzato al 12,2%, il livello più elevato dal 1977. Fa da contraltare il buon dato recente sulla produzione manifatturiera, sintetizzata dall'indice Pmi che è cresciuto a quota 49,1. Il dato, pur in aumento, resta sotto quota 50, che è considerata la soglia minima di espansione di un Paese. Insomma, non si può dire, dopo oltre cinque anni, di essersi messi alle spalle la crisi. Se poi si guarda al tasso di disoccupazione di Spagna (+28%) e Grecia (+27%) con quelli giovanili che superano il 50% il quadro né nel breve né nel medio-lungo sembra incoraggiante.

In questo contesto poco confortante c'è chi comincia a mettere in dubbio le politiche sinora adottate dalle autorità per uscire dalla crisi, volte all'applicazione di misure di austertià, chiedendosi: la crisi dell'Eurozona è un problema di debito pubblico o di debito privato? Stando alle misure fiscali che vengono chieste ai Paesi, e non importa se questi siano o meno in recessione, pare che i vertici europei credano più alla prima che alla seconda ipotesi.

Ma le contraddizioni restano, e sono profonde dato che i numeri dimostrano che i 17 Paesi che utilizzano l'euro negli ultimi sei anni di crisi sembrano entrati in una sorta di loop. Tra gli stessi vertici c'è chi come Vítor Constâncio, vice-presidente della Banca centrale europea, ha recentemente dichiarato nel corso di un convegno ad Atene: «Penso che, per avere una storia più accurata riguardo le cause della crisi, dobbiamo guardare non solo alle politiche fiscali: gli squilibri si sono originati per lo più nella crescente spesa del settore privato, finanziata dal settore bancario dei Paesi debitori e creditori. al contrario dei livelli del debito pubblico, il livello del debito privato è aumentato nei primi sette anni dell'euro del 27%. L'aumento è stato particolarmente pronunciato in Grecia (217%), Irlanda (101%), Spagna (75,2%), e Portogallo (49%), tutti paesi che sono stati sottoposti a grandissimo stress durante la recente crisi. La crescita repentina del debito pubblico, d'altra parte, è iniziata solo dopo la crisi finanziaria. Nel corso di quattro anni, i livelli del debito pubblico sono aumentati di cinque volte in Irlanda e di tre in Spagna».

Si tratta di una dichiarazione molto forte. In cui il vice-presidente della Bce ribalta le cause della crisi che hanno finora guidato gran parte delle scelte istituzionali volte a risolverla. Il debito pubblico dei Paesi della periferia - preso sotto attacco fino allo scorso luglio dai mercati finanziari e in ogni caso che oggi paga rendimenti decisamenti più alti rispetto a quelli dell'Europa del Nord - non sarebbe stato la causa della crisi dell'Eurozona. «Infatti, in certi Paesi il debito pubblico è decresciuto, e in qualcuno è diminuito sostanzialmente. Per esempio, tra il 1999 e il 2007, il debito pubblico spagnolo è passato dal 62,4% del Pil al 36,3% del Pil. In Irlanda, nello stesso periodo, è diminuito dal 47% al 25% del Pil. Per quanto a livelli relativamente alti, il debito pubblico è diminuito anche in Italia (dal 113% al 103,3% del Pil) ed è aumentato solo di poco in Grecia. Comunque, negli ultimi due casi, il livello era già in effetti molto superiore al 60% fissato dal Patto di stabilità e crescita.

Viceversa l'aumento del debito pubblico sarebbe una conseguenza dell'esplosione di una bolla del debito privato, gonfiata dai crediti che le banche del Nord Europa hanno fatto alle banche del Sud e, di conseguenza, a famiglie e imprese della "periferia", forti di un grande surplus favorito anche dagli squilibri commerciali tra i Paesi dell'area euro, a sua volta accentuati da differenti dinamiche di inflazione.

Continua Constâncio: «Da dove venivano i finanziamenti che hanno fatto esplodere il debito privato? Un aspetto particolare del processo di integrazione finanziaria europea dopo l'introduzione dell'euro è stato un deciso incremento nelle attività bancarie tra paesi. L'esposizione delle banche dei Paesi del centro verso i paesi della periferia è più che quintuplicata tra l'introduzione dell'euro e l'inizio della crisi finanziaria».

A conti fatti, quindi, Constâncio sembra dar indirettamente ragione all'economista argentino Roberto Frenkel che, analizzando quanto accaduto in Argentina fino al 2001, quando in preda a una forte crisi fu costretta a sganciarsi dall'unione valutaria con il dollaro. Questo economista spiega in sette passi quello che accade ai Paesi più deboli quando àncorano la loro valuta a una valuta più forte, in concomitanza di uno scenario di liberalizzazione del mercato dei capitali e di mancanza di compensazione degli squilibri. Pertanto, la grande domanda del momento, che divide europeisti ed euroscettici è: nell'area euro sta accadendo la stessa cosa?

Vediamo quali sono le sette fasi del ciclo di Frenkel.
 

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Il ciclo di Frenkel può spiegare la crisi dell'Eurozona?


Prima fase: liberalizzazione di capitali


All'interno di un'area valutaria vengono introdotte norme che liberalizzano la circolazione dei capitali. In questo modo non ci sono più vincoli protezionistici al trasferimento finanziario tra i singoli Paesi. Quale è il quadro in Europa? Una direttiva europea del 1988 ha enunciato il principio della libera circolazione dei capitali fatte alcune eccezioni (fatte salve alcune prerogative degli Stati membri in materia tributaria, fiscale). Dal 1999 con l'introduzione dell'euro queste restrizioni (clausole di salvaguardia) sono state abolite.

Seconda fase: inizia l'afflusso di capitali esteri verso i Paesi periferici

Una volta che i capitali sono liberalizzati inizia un afflusso di capitali dai Paesi del "centro" verso quelli della "periferia". I Paesi del "centro" (quelli più forti che hanno svalutato il cambio entrando nell'unione valutaria) trovano vantaggioso questo processo perché i tassi nella "periferia" (quelli dalle economie più fragili che hanno "rivalutato" il cambio entrando nell'area valutaria comune) sono un po' più alti e, in ogni caso, si tratta di prestiti privi di rischio cambio (perché il cambio dell'area valutaria è rigido).

Terza fase: aumenta il Pil e diminuisce il debito nei Paesi della "periferia"
 

L'afflusso di prestiti alimenta la domanda di famiglie e imprese della "periferia" generando una crescita dei consumi e degli investimenti e, di conseguenza, del Prodotto interno lordo. Allo stesso tempo migliorano i conti pubblici in quanto aumenta anche il gettito fiscale collegato all'espansione economica.

Quarta fase: cresce l'inflazione nella "periferia"

L'aumento di consumi e investimenti favorisce sì una crescita del Pil ma anche dell'inflazione. L'economia della periferia è in espansione e quindi sale anche il livello dei prezzi. Ma l'espansione resta legata all'afflusso di capitali stranieri, facilmente riscontrabile dall'aumento del debito privato che cresce molto più velocemente rispetto al debito pubblico che, come visto nella terza fase, tende a decrescere.

Quinta fase:
uno shock (interno o esterno) fa scoppiare la bolla del debito privato


A questo punto accade un evento traumatico che spinge i creditori del "centro" a chiudere i rubinetti verso la "periferia". Gli euroscettici che sposano la teoria del ciclo di Frenkel attribuiscono, per quanto riguarda l'area euro, questo evento alla crisi dei derivati subprime culminato con il fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008.

Sesta fase:
si innesta un circolo vizioso recessivo che fa peggiorare il debito pubblico


A questo punto, venendo a mancare la liquidità straniera, si innesta un circolo vizioso per cui i Paesi della "periferia" entrano in recessione. Il debito pubblico aumenta è allo stesso tempo calano consumi e investimenti che fanno calare il Pil. Di conseguenza il rapporto debito/Pil peggiora e continua a peggiorare perché i Paesi della "periferia" sono costretti ad attuare misure di restrizione fiscale (tagli alla spesa pubblica o aumento delle tasse) che peggiorano ulteriormente il circolo vizioso

Settima fase:
la situazione diventa insostenibile e la "periferia" si sgancia dall'area valutaria


L'austerity e il circolo vizioso sui conti pubblici rendono la situazione insostenibile per la "periferia" che non ha alternative allo sganciarsi dall'unione valutaria. Secondo Frenkel è quello che è successo in Argentina. Lo stesso copione si sarebbe già visto anche in altri Paesi dell'America Latina e dell'Asia. Secondo alcuni economisti di stampo keynesiano l'Italia non sarebbe nuova a questo schema avendolo già sperimentato in parte quando nel 1992, un mese dopo l'Inghilterra, abbandonò lo Sme (Sistema monetario europeo).



C.Conti - 02/07/2013
http://www.contropiano.org


giovedì 4 luglio 2013

Bentornata Costituzione

La notizia è di quelle che, come si dice, cambiano completamente lo scenario: la Corte Costituzionale ha accolto l'eccezione di incostituzionalità parziale dell'articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori proposta dalla Fiom e giudicata non infondata da alcuni tribunali. E ha modificato il testo di quell'articolo in un modo poco evidente ma importantissimo: la Fiom può rientrare a pieno titolo in tutte le fabbriche Fiat, e con la Fiom in quelle fabbriche rientrano la Costituzione e la dialettica democratica. 
Un vero successo per la Fiom, e il fallimento dei piani di Marchionne.
Al principio della storia c'è un equivoco: quando entrò in vigore lo Statuto dei lavoratori, l'articolo 19 prevedeva che le rappresentanze sindacali aziendali (Rsa) con tutti i fondamentali diritti che ad esse si collegano (assemblee retribuite, permessi sindacali, etc.) potessero essere costituite nell'ambito dei sindacati aderenti a confederazioni maggiormente rappresentative (lettera a) o anche sussidiariamente dei sindacati comunque firmatari del contratto nazionale (lettera b). Perché intervenne un referendum popolare nel 1995 che cancellò la lettera a?
Per evitare che, certi sindacati in realtà non rappresentativi in una categoria, ad esempio i Tessili, potessero pretendere di costituire Rsa nelle unità produttive, solo perchè aderivano a una confederazione che magari era rappresentativa nella sanità o nella scuola. Però, in tal modo, la cancellazione della lettera a dal punto di vista formale e letterale rendeva il requisito della lettera b, cioè l'aver firmato il contratto nazionale, l'unico requisito alla cui stregua un sindacato poteva costituire una Rsa.
Di qui il paradosso: un sindacato poteva costituire una Rsa non perché a lui aderissero molti lavoratori o anche la maggioranza assoluta, ma solo perché il datore di lavoro aveva accettato di firmare con lui un contratto collettivo.
Un paradosso che per molti anni è risultato innocuo, perché c'era l'unità sindacale, ma dopo la sua rottura lo scenario è cambiato, e in modo drammatico: si sono moltiplicati i casi di contrattazione separata, che hanno visto profonde spaccature tra i confederali.
Quella piccola anomalia, si rilevava allora un'arma pericolosissima puntata contro la democrazia sindacale, perché nel momento del passaggio da un contratto a un altro, se il nuovo accordo veniva firmato solo, poniamo, da un sindacato, soltanto questo poteva poi mantenere le Rsa, mentre gli altri le perdevano: e in sostanza venivano cacciati, come entità organizzata, dalla fabbrica.
Sembra incredibile, ma c'è chi ha fatto di tutto questo una precisa strategia, e si è trattato della Fiat di Marchionne: chi non ricorda lo sbalorditivo spettacolo dei delegati Fiom di una storica fabbrica bolognese del Gruppo Fiat (Weber) ripresi dalla tv mentre con i classici scatoloni in mano lasciavano i locali della Rsa che avevano occupato per tanti anni?
Una profetica sentenza del tribunale di Bologna consentì loro di rientrare e formare di nuovo le Rsa. Il problema si è moltiplicato e diffuso a macchia d'olio nelle oltre 60 fabbriche riconducibili al gruppo Fiat, minacciando di andare ben al di là, perchè lo stesso contratto nazionale metalmeccanici 2012 è un contratto separato non firmato dalla Fiom per le pessime condizioni economico-normative che in esso si contemplano.
La questione è finita in Corte Costituzione, che due giorni fa l'ha discussa in pubblica e affollata udienza, e ha emesso una sentenza importantissima: per formare una Rsa non è necessario aver firmato il contratto, ma è sufficiente aver preso parte alla negoziazione, rifiutando poi la firma per motivi di merito.
Non può sfuggire il vero significato giuridico e politico dell'affermazione: viene respinta l'idea portata avanti dai difensori della Fiat, anche in sede di udienza, che l'articolo 19 premiasse i sindacati «comprensivi» delle ragioni datoriali, e quindi disposti a firmare tutto o quasi tutto. Si è invece ricostituita una visuale dialettica per la quale il sindacato che sia rappresentativo, partecipa al tavolo negoziale, ma può rifiutare senza timore soluzioni nel merito inaccettabili. Ed è quello che ha fatto la Fiom in questi anni nei rapporti con Fiat e Federmeccanica, e quindi ha diritto di ricostituire dappertutto le Rsa, senza dover aderire ai contratti «bidone» firmati dagli altri.
Vi è poi un corollario, non meno importante: che siccome il diritto di costituire o mantenere le Rsa dipende dal fatto di aver partecipato alla negoziazione, l'eventuale non invito, premeditato, del sindacato non gradito al tavolo, diverrebbe un comportamento antisindacale, in quanto impeditivo di per sé del diritto e della possibilità di costituire Rsa.
Un passo avanti in sintonia con l'accordo del 28 Giugno 2011, il quale prevede il diritto del sindacato rappresentativo (che rappresenta più del 5%) di essere invitato al tavolo. Diritto a cui è collegata, ora, pure la costituzione delle Rsa.


P. Alleva - 04/07/2013
http://www.ilmanifesto.it

martedì 2 luglio 2013

Appello contro l’accordo del 31 maggio

No al divieto di sciopero e alla privatizzazione della rappresentanza. Subito una legge sulla democrazia sindacale

APPELLO
Contro l’accordo del 31 maggio tra Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
No al divieto di sciopero e alla privatizzazione della rappresentanza.
Subito una legge sulla democrazia sindacale

Definito “accordo storico”, intorno all’Intesa sulla rappresentanza sindacale tra Confindustria e CGIL CISL e UIL (e poi UGL) è calata una coltre di silenzio perché tale è la sua gravità che i firmatari intendono attuarla non volendo suscitare lo sdegno e l’opposizione di tutti coloro a cui stanno a cuore i principi della democrazia nei luoghi di lavoro.

Con questo accordo si mira a estendere il modello Fiat, ovverosia a scambiare il monopolio della rappresentanza dato ai sindacati firmatari con la rinuncia al diritto di sciopero e al conflitto sindacale. Confindustria − che oggi canta vittoria − vuole contratti sempre peggiori e lavoratori obbligati ad accettarli. Con l’accordo del 31 maggio si ribadisce il principio che attribuisce la titolarità negoziale ai soggetti sindacali con più voti ma si precisa che “ai fini della misurazione del voto …. varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”, ovverosia varranno solo i voti di CGIL CISL e UIL. Inoltre si afferma che si potrà procedere al “passaggio alle elezioni delle RSU … solo se definito unitariamente dalle federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie il presente accordo”.  Infine si prevede che “il cambiamento di appartenenza sindacale da parte di un componente la RSU ne determina la decadenza dalla carica e la sostituzione con il primo dei non eletti della lista di originaria appartenenza del sostituito”, venendo così  represso ogni dissenso anche nel sindacato.

Con l’accordo del 31 maggio si afferma il principio che il voto è proprio del sindacato e non dei lavoratori che lo hanno espresso, non prevedendosi neppure un diritto certo di referendum sugli accordi facendosi solo un vago riferimento a una “consultazione certificata”. In cambio dell’attribuzione esclusiva della rappresentanza, CGIL CISL e UIL hanno sottoscritto l’impegno “a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi così definiti”, formula amplissima che include ogni forma possibile di opposizione collettiva, che non prevede alcun limite massimo di durata e che non fissa neppure argini alle conseguenti sanzioni massime datoriali (rimesse ai rapporti di forza in ogni singolo contratto nazionale).

Noi crediamo che il diritto di organizzarsi sul posto di lavoro e di scegliere i propri rappresentanti a livello nazionale non sia delle organizzazioni sindacali ma di ciascuna donna e di ciascun uomo che lavora.  E crediamo che non possa esserci mai nessuno scambio tra la rappresentanza democratica e i diritti costituzionalmente garantiti di lottare per ottenere migliori e più dignitose condizioni di lavoro e di vita. Crediamo infine che questa materia necessiti di una legge e che non sia possibile trattarla attraverso accordi privati che escludono altre formazioni sindacali e che soprattutto non rispettano i diritti costituzionali delle lavoratrici e dei lavoratori.  Per questo chiediamo di sottoscrivere questo appello:

-     - per far sentire la propria voce di dissenso verso un accordo che nega i principi della libera e democratica rappresentanza nei luoghi di lavoro;
- 
-
per chiedere che sia varata dal Parlamento una legge che – inverando la sostanza dell’art. 39 della Costituzione − preveda la misurazione senza vincoli e proporzionale del consenso di tutti i lavoratori in relazione a tutte le formazioni sindacali e che - senza alcuno scambio con il diritto di sciopero, non a caso previsto dalla Costituzione all’ articolo 40 con riserva di legge per ogni sua limitazione  − riconosca la rappresentanza in relazione all’effettiva rappresentatività, indipendentemente dalla partecipazione ai tavoli negoziali e alla sottoscrizione degli accordi che comunque dovranno essere sempre definitivamente approvati dai lavoratori.

Invitiamo a partecipare a tutte le iniziative che saranno organizzate contro l'accordo del 31 maggio a partire dall'Assemblea pubblica che si svolgerà a Roma il 4 luglio prossimo.


Forum Diritti - Lavoro   21/06/2013

fonte e primi firmatari  qui


L'assemblea della Rete decide il documento alternativo al congresso CGIL

Il documento approvato
 
L'assemblea nazionale della Rete28Aprile-Opposizione CGIL conferma la scelta di presentare un documento globalmente alternativo alle posizioni della segreteria confederale nel prossimo congresso. Rivolge un appello a tutti i militanti, delegati, lavoratrici e lavoratori che pur non aderendo all'area programmatica condividono la necessità di opporsi alla deriva della CGIL ed alle pesantissime condizioni imposte oggi a tutto il mondo del lavoro. Costruiamo assieme un percorso plurale unitario e partecipato per la battaglia congressuale che sia espressione del più vasto dissenso possibile nei confronti della maggioranza CGIL. (...)
 
Il congresso è un'occasione straordinaria per accrescere e rafforzare un'area interna di opposizione ma soprattutto per  la scelta di fondo, costituente per la nostra esperienza, di essere parte del processo di costruzione di un nuovo antagonismo sociale, della necessaria discesa in campo di nuove generazioni di uomini e di donne che rompano la pace sociale imposta dalla  scelta complice e corporativa di Cgil Cisl Uil ed apra una nuova stagione di conflitto.
Il nostro primo obiettivo, per queste ragioni, resta quello della rottura della passività e della stagnazione sociale per giungere ad un movimento generale di lotta contro le politiche di austerità e chi le sostiene; questo obiettivo comporta sia la iniziativa concreta sia la definizione della piattaforma. Questo obiettivo è in contrasto pratico e teorico con il regime di pace sociale governato dal sistema PD, dal governo e dalla alleanza corporativa di CGIL, CISL, UIL e Confindustria.
 

La Rete 28 Aprile opera dunque in aperto e visibile contrasto con il regime di pace sociale ed con i suoi gruppi dirigenti politici e sindacali.
La Rete è dunque impegnata nella costruzione di un ampio fronte sociale, assieme a tutte le forze antagoniste politiche, sindacali e ai movimenti sociali e ambientali, per  un movimento generale contro le politiche d'austerità, il patto sociale.
 

Riduzione d'orario, salario, reddito, abbassamento della età pensionabile, estensione del pubblico nei servizi sociali, rilancio della scuola e della sanità pubblica, nazionalizzazioni, blocco dei licenziamenti, rottura di ogni subordinazione contrattuale della condizione di chi lavora, questione Europa, rottura delle compatibilità e delle subordinazioni della politica economica e sociale al rispetto dei dettami della Bce e dell'Unione europea: sono questi i principali punti sui quali costruire sia una piattaforma generale alternativa alla austerità e al patto corporativo, sia  il documento congressuale alternativo.
 

La lotta alla precarietà, alla flessibilità e allo sfruttamento sono da un lato parte della piattaforma e della lotta generale, anche rilanciando l'iniziativa contro le leggi e i contratti che dal Pacchetto Treu in poi hanno massacrato i diritti del lavoro. Da un altro però devono diventare una guerriglia rivendicativa che apre conflitti ovunque possibile. Decisiva la iniziativa dei e verso i migranti. La Rete sostiene esplicitamente le lotte che rompono la tregua, dei migranti della logistica ai tranvieri di Bologna e Firenze.
Particolarmente grave è la situazione dei lavoratori e delle lavoratrici del settore pubblico. I loro contratti e i salari sono ormai bloccati da anni e tale blocco è stato recentemente prorogato con un consenso parlamentare che ha perfino travalicato la maggioranza di governo. Nei settori pubblici continua a dilagare la precarietà, mentre i servizi pubblici (come ad esempio la scuola e la sanità) sono soggetti a pesanti tagli e a operazioni di privatizzazione con gravi ricadute sull'occupazione e sulla qualità e la quantità dei servizi ai cittadini.
 

Un'attenzione particolare, forse nuova per la Rete e più in generale per le sinistre sindacali, va prestata alla questione delle e dei pensionate/i. Non solo sostenendo la necessità di difendere e di rilanciare la previdenza pubblica, in via di smantellamento, me anche comprendendo il nuovo e importante ruolo che i pensionati e le pensionate a volte hanno nel sostegno alle famiglie colpite dalla crisi e dalla caduta dell'occupazione.
 

L'accordo sulla rappresentanza è un vero e proprio spartiacque nella storia politica e sociale del paese. Ogni minimizzazione della sua gravità o è in malafede, o è la manifestazione di una illusione politica comprensibile ma in fondo priva di realismo, quella di poter continuare ad operare così come si è operato in questi anni. Dobbiamo costruire una grande campagna di informazione su questo accordo, che la CGIL ha approvato violando lo Statuto e che i militanti non conoscono.
Il modello sindacale a cui fa riferimento questo accordo è quello aziendalistico americano, inquadrato nella concertazione burocratica e autoritaria del nostro paese. Definire questo accordo patto sociale è una semplificazione superficiale che ne attenua la portata. Questo accordo è un patto di complicità assoluta tra sindacati riconosciuti e imprese.

 

Questo accordo è la estensione ovunque delle relazioni sindacali Fiat. Per questo è particolarmente grave e significativo che proprio il  gruppo dirigente FIOM e la ex minoranza della “Cgil che vogliamo” sostengano e perfino rivendichino questo accordo. La concertazione non è più triangolare ma bipolare tra parti sociali unite da un lato e casta politica e governo dall'altro. È il  successo del modello corporativo CISL che assorbe totalmente la CGIL, che non a caso sempre più spesso manifesta senza angosce assieme ai padroni.
Ma la gravità dell'accordo sta ovviamente nel suo carattere autoritario e incostituzionale. Chi non accetta la complicità non ha diritti sindacali, dentro e fuori CGIL, CISL, UIL e UGL.
 

Dunque rispetto a questo accordo non si può semplicemente dissentire, ci si deve opporre. Bisogna rendere inesigibile il patto sulla esigibilità. Bisogna agire sul piano della vertenzialità nei luoghi di lavoro, su quello della lotta politica e su quello della iniziativa istituzionale, rilanciando la campagna per una legge sulla rappresentanza che cancelli l'accordo, assieme a tutte le forze politiche, sociali ed ai movimenti che si oppongono  al patto che istituzionalizza le politiche d'austerità.
 

Una parte grande del mondo del lavoro è oggi fuori da CGIL, CISL, UIL e UGL. Non solo quello non sindacalizzato, precario, migrante. E non solo quella minoranza che aderisce ad altre organizzazioni sindacali. Ma anche quella parte del lavoro sindacalizzato che lotta agisce in generale fuori dal contesto confederale, se si escludono i metalmeccanici.
Le lotte per il lavoro di fronte alla chiusura delle aziende sono le uniche sinora ad avere una preponderanza di direzione CGIL, CISL e UIL e, non a caso, si sono quasi tutte concluse con l'accettazione della chiusura delle aziende.
 

La Rete deve dunque operare per estendere le pratiche di autorganizzazione unitaria nel mondo del lavoro. Come esempio abbiamo la lotta della scuola ove i coordinamenti dei precari sono stati decisivi nel solo movimento che ha ottenuto un parziale successo.

La Rete lotta per affermare il sindacalismo democratico e vertenziale, dei lavoratori e delle lavoratrici. Lottiamo contro la  burocratizzazione e la degenerazione della vita interna del sindacalismo confederale.

Il maccartismo e la repressione del dissenso, la centralità crescente delle funzioni e delle entrate di servizio e del bilateralismo, la rigida selezione dei gruppi dirigenti sulla base della fedeltà hanno raggiunto livelli, almeno per la CGIL, estranei alla storia e alla esperienza del sindacalismo italiano.
Quindi la lotta contro il sindacalismo degli enti bilaterali deve essere centrale per la Rete. Dobbiamo affermare il principio che un sindacato vive solo del contributo degli iscritti, e che le iscrizioni devono essere periodicamente rinnovate.
La lotta e la denuncia contro la burocrazia  sindacale, parte della casta politica che sostiene il governo di larghe intese, deve essere visibile per incontrare il malessere e la sfiducia dei lavoratori; mai dobbiamo apparire come coloro che hanno qualcosa da difendere nel palazzo sindacale, ma anzi dobbiamo essere i primi a contestarlo.

Il nostro obiettivo è quello di mettere in rete e organizzare, anche dopo il congresso tutte e tutti coloro che in CGIL non accettano, non si arrendono alla deriva corporativa e complice e vogliono lottare. Non siamo interessati alla testimonianza e neppure alla “correntina” che sta nelle nicchie del potere. La nostra battaglia vuole essere parte di una battaglia più generale per la ripresa del conflitto sociale nel nostro paese.

In sintesi  gli elementi della lotta congressuale sono:

•    Una posizione chiara e semplice sugli obiettivi del lavoro oggi, contro la austerità e la complicità sindacale. Un documento piattaforma spendibile subito.
•    La condanna della passività e della degenerazione burocratica di CGIL, CISL, UIL, la rivendicazione di lotta e democrazia e di indipendenza dal governo e dai partiti, PD in particolare.
•    La richiesta formale, prima dell'avvio del congresso, di regole democratiche, trasparenza anti brogli, par condicio tra le posizioni.

Sarà necessario un piano di lavoro, di organizzazione e di responsabilità, da definire prima della ferie, che copra tutto il territorio nazionale.
Il gruppo dirigente nazionale deve poter intervenire là ove ci sono ritardi, assenze o incomprensioni che impediscano l'avvio del lavoro organizzato dei collettivi della Rete.
L'assemblea su questo dà  preciso mandato al gruppo dirigente nazionale della Rete, che va verso un necessario e inevitabile avvicendamento e che va allargato a nuove forze, soprattutto delegate e delegati nei luoghi di lavoro.

Va lanciata una campagna di adesione e di sottoscrizione.

Il nostro sito, che mantiene costante e crescente consenso, deve diventare definitivamente il nostro primo strumento di intervento e di comunicazione. Ma decisiva è la presenza fisica dei militanti della Rete nelle lotte e rispetto ai luoghi di lavoro.

L'annuncio del documento alternativo e dei suoi contenuti e scopi deve essere sintetizzato in un volantino che dovrà essere distribuito ovunque con un piano verificato a livello nazionale.



 01/07/2013