venerdì 29 aprile 2011

Primo maggio di lotta e di festa di Giorgio Cremaschi

Bisogna ringraziare prima di tutto i sindaci di Firenze e di Milano che, seguendo la moda dello spirito bipartisan con cui in Italia si approvano le peggiori nefandezze, hanno deciso che il Primo Maggio i lavoratori del commercio dovranno lavorare.
Bisogna ringraziare questi sindaci di centrodestra e centrosinistra, perché così hanno contribuito a chiarire che il Primo Maggio è ancora, come si scriveva sull’Avanti nel 1914, “una giornata di festa e di lotta”.
Fu l’Internazionale dei lavoratori a decidere che il Primo Maggio, in ricordo dei militanti socialisti e anarchici impiccati a Chicago, sarebbe stato un appuntamento di lotta e festa, in particolare nella battaglia per le 8 ore. Oggi che l’orario di lavoro è di nuovo totalmente in discussione. Oggi che l’Unione Europea, tra le sue tante porcherie, propone orari fino a 65 ore settimanali, e che i contratti separati firmati in Italia, dalla Fiat al commercio, impongono il taglio delle pause e la brutale flessibilità degli orari, oggi il Primo Maggio ridiventa fino in fondo una giornata di lotta per la libertà delle lavoratrici e dei lavoratori.
Nella furia revisionista che oggi colpisce il nostro paese anche il Primo Maggio è in discussione. Lo fanno i sindaci che si dichiarano aideologici, e quindi rispettosi solo dell’ideologia e degli interessi del mercato; lo fanno tutti coloro che non hanno mai davvero accettato che le date che segnano la lotta per la democrazia e i diritti in Italia, diventassero feste. Il 25 Aprile viene così da un lato vilipeso e dall’altro affogato in una retorica neorisorgimentale che permette anche ai fascisti di celebrare la Resistenza. Contro il Primo Maggio l’attacco è più frontale.
Già il ministro Calderoli aveva dichiarato che si poteva fare a meno di festeggiarlo e immagino che prima o poi ci sarà qualche parlamentare che proporrà, come per l’articolo 1 della Costituzione, l’abolizione di questa eredità comunista. Però, per fortuna, tutto questo suscita anche la risposta.
Il 25 Aprile è stata così una giornata di lotta, scandita da quei fischi in piazza che tanto hanno indignato Il Corriere della Sera, ma che in realtà sono la più limpida risposta all’ipocrisia con cui si mascherano i veri significati di quella data. Per il Primo Maggio ora si apre lo stesso scenario. Da un lato le celebrazioni ufficiali, compresa quella di Cgil Cisl e Uil a Marsala, celebrazioni assurde, perché con tutto quello che tocca oggi il mondo del lavoro, pensare di andare a festeggiare lo sbarco dei garibaldini significa proprio non voler parlare del significato attuale del Primo Maggio. D’altra parte, se si dicesse la verità, si dovrebbe cominciare col sostenere che oggi il terribile attacco che subiscono i lavoratori viene da politiche economiche e sociali attuate da governo e dalla Confindustria e condivise e sottoscritte da parte di Cisl e Uil. Tacere su questo significa tacere sulla condizione reale nella quale oggi si svolge la festa dei lavoratori.
Per questo il Primo Maggio di oggi non può che essere una giornata di annuncio e preparazione dello sciopero generale del 6 maggio. Uno sciopero che, nonostante le timidezze e le autocensure della Cgil, è una risposta all’attacco globale che oggi colpisce i diritti fondamentali delle lavoratrici e dei lavoratori. Il Primo Maggio si scenda dunque in piazza e si scioperi, dove si vuole impedire ai lavoratori di fare festa. Troviamoci a Bologna dove la Cgil locale ha avuto il coraggio di dire a Cisl e Uil basta con l’ipocrisia, non possiamo festeggiare assieme. Andiamo a Milano, dove si svolgerà la may-day, una delle più importanti manifestazioni del lavoro precario nel nostro paese. Andiamo ovunque si possa affermare e, se necessario urlare, la rabbia di un mondo del lavoro che da solo sta pagando tutti i costi della crisi.
Facciamo del Primo Maggio una giornata che ricordi davvero i sacrifici di coloro che l’hanno per primi  promossa. Nel 1889  il congresso della Seconda Internazionale adottava la decisione storica che ha portato alla festa del Primo Maggio, indicendo: “una grande manifestazione internazionale… una volta per sempre perché simultaneamente in tutti i paesi e in tutte le città, in questo giorno stabilito, i lavoratori presentino alle autorità le loro rivendicazioni… Buon primo maggio compagne e compagni”.

liberazione 29 aprile 2011

martedì 26 aprile 2011

Accolto il ricorso della Fiom anche alla Tyco di Torino. Il giudice ordina all'Azienda di applicare il Ccnl del 2008 senza toccare gli aumenti contrattuali!

Il Contratto nazionale del 2008 è in vigore. lo conferma anche la Magistratura. E se si toccano gli aumenti salariali si viola l'articolo 36 della Costituzione.



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.... per coloro che, come gli iscritti FIOM-CGIL, non si riconoscono in tale C.C.N.L., ritenendo operativo quello del 2008, tali miglioramenti costituiscono meramente un trattamento di miglior favore, giuridicamente intangibile sia come riferimento alla porzione erogata che a quella da erogare, in forza dell'obbligo di non discriminazione, sancito dall'art. 16 Statuto Lavoratori.
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venerdì 22 aprile 2011

Dopo Torino, arriva la sentenza del Tribunale di Modena su sette aziende, confermando che il Contratto in vigore è quello del 2008

“Con la sentenza di oggi del Tribunale di Modena - che riguarda sette aziende: Emmegi, Maserati, Rossi, Glem Gas, Ferrari, Case New Holland e Titan - viene accolto l'obiettivo del nostro ricorso: si conferma che il Contratto del 2008 è quello legittimamente in vigore. A questo punto è utile che tutte le parti, compresa Federmeccanica, si pongano il problema di definire un vero contratto nazionale condiviso da tutte le parti e che abbia il consenso delle lavoratrici e dei lavoratori.”
“La sentenza, che si aggiunge a quella di Torino, dimostra che la strada degli accordi separati aumenta i problemi anziché risolverli. E si riafferma la necessità che sulla rappresentanza e rappresentatività si arrivi a una soluzione certa, fino ad arrivare a una legislazione in materia.”
“Proponiamo a Federmeccanica e Fim e Uilm di avviare su tale materia un confronto per impedire il protrarsi della pratica degli accordi separati, per il bene delle lavoratrici e dei lavoratori.”

Maurizio Landini


Festa della Liberazione 2011

mercoledì 20 aprile 2011

I sindaci berlusconiani del Partito Democratico

Le reazioni degli enti locali di Terni alla sentenza ThyssenKrupp servono a capire perché Berlusconi si senta autorizzato a dire quel che dice contro i giudici e la magistratura.
Mi si dirà che il linguaggio e i toni dei rappresentanti delle istituzioni umbre non sono gli stessi del Presidente del Consiglio. E' assolutamente vero, nessuno nega la gravità estrema del linguaggio e delle scelte di Berlusconi. E, tuttavia, dobbiamo chiederci perché dopo una sentenza che per la prima volta inchioda alle sue responsabilità il gruppo dirigente e l'azienda dove è avvenuta una strage, vi siano state a sinistra, nel fronte che tutti i giorni accusa Berlusconi di voler sovvertire la Costituzione, reazioni come quelle del Sindaco e del Presidente della provincia di Terni. Costoro hanno subito paventato la possibilità che la ThyssenKrupp, troppo condannata, abbandoni l'Italia.
Nessuno, tranne qualche pazzo milanese, attacca la magistratura in quanto tale. Se i giudici si limitano al minimo sindacale ed esercitano la loro funzione soprattutto senza invadere il campo della politica o del mercato, non c'è niente da dire. I contrasti sorgono quando il potere giudiziario pone dei limiti veri all'arbitrio dei potenti. Siano essi quelli eletti dai cittadini, siano essi quelli che guidano il mercato.
Si vorrebbe  una magistratura di tipo ottocentesco, che non tocchi i notabili e gli affari ma che si limiti a perseguire i reati di coloro che possono essere condannati senza danneggiare alcun potere. E c'è ancora una parte della magistratura che a queste regole non scritte si attiene.
Se seguiamo lo sviluppo di altri processi per strage sul lavoro,  la Saras di Cagliari o l'Umbria Olii ancora nell'Umbria, troviamo una giustizia molto più cauta, sia nella estensione, sia nella qualità, sia nella forza delle indagini e delle incriminazioni.
La battaglia di Berlusconi contro la magistratura non è quindi solo un atto di follia senile. Essa nasce nei poteri profondi del paese. La Fiat e Craxi negli anni Ottanta si lanciarono in campagne contro i “pretori del lavoro” che, si diceva, con le loro sentenze toglievano potere alle imprese e ai sindacati. Oggi, in una condizione sociale e democratica molto più degenerata, è chiaro che un intervento rigoroso della giustizia per affermare i principi contenuti nella Costituzione sconvolge gli equilibri sociali e politici consolidati. Questo perché il paese sta scivolando verso un regime aziendalistico padronale nel quale i diritti scompaiono sotto il peso degli interessi e dei poteri.
Sono convinto che gli amministratori locali umbri considerino un'offesa essere anche lontanamente paragonati a Berlusconi. Eppure le loro affermazioni stanno dentro quel corso politico e culturale. Quello di chi pensa che a un certo punto la giustizia si deve fermare, se mette in discussione troppe cose nell'assetto costituito.
D'altra parte il sindaco di Terni è in buona compagnia. Il suo collega di Torino era parte civile contro la ThyssenKrupp, che in quella città conta ormai poco, Ma quando Marchionne ha minacciato lo stesso ricatto che oggi lancia la multinazionale tedesca, si è piegato in due secondi. Il sindaco democratico di Torino, il suo collega di Pomigliano del Pdl, hanno fatto proprie le minacce dell'azienda e hanno spiegato ai lavoratori che le rinunce ai diritti e ai contratti sono poca cosa di fronte al rischio che il padrone se ne vada.
Il degrado della nostra democrazia è prima di tutto dovuto al fatto che  c'è sempre un contesto, c'è sempre un territorio, c'è sempre un'istituzione o un'azienda ove le regole e i principi devono essere adattate agli interessi concreti in campo. I diritti, la salute e la sicurezza, la democrazia e la legalità, o sono esigibili sempre, o non lo sono mai. E se non fermiamo questa subalternità crescente dei poteri politici ai diktat del mercato e delle multinazionali, noi non avremo più in Italia un posto ove si possa dire: qui è ancora in vigore la Costituzione della Repubblica.

sabato 16 aprile 2011

Tyssen Krupp - La sentenza: le morti furono omicidio

"La sentenza Tyssen è un atto di giustizia che premia il rigore e la tenacia dell'inchiesta e dà speranza a tutto il mondo del lavoro che soffre e muore per il supersfruttamento. E' una sentenza storica che finalmente punisce nella giusta misura le responsabilità aziendali e riconosce tutte le vittime. Non ci restituisce le vite distrutte ma servirà a salvarne altre. Viva l'indipendenza della magistratura!"

Giorgio Cremaschi

giovedì 14 aprile 2011

Marcegaglia e Marchionne lasciati soli? Ma “ci facci il piacere”!

La presidente della Confindustria e l’amministratore delegato della Fiat si sono in questi giorni lamentati di essere stati lasciati soli dal governo. Quale incredibile sfacciataggine.Non c’è un solo provvedimento in questi mesi da parte del governo che non sia andato incontro ai desideri più profondi del sistema delle imprese. Dal collegato lavoro, ai contratti separati, alla politica fiscale, tutto ha favorito e ha risposto le scelte della Confindustria e della Fiat. E’ vero che in Italia non c’è alcuna politica industriale e che i due ministri che si sono succeduti al Ministero dello Sviluppo economico, Scajola e Romani, hanno brillato per la loro assoluta assenza. Ma né la Fiat né la Confindustria hanno mai proposto politiche industriali degne di questo nome, anzi hanno fatto fronte a ogni tentativo di coordinare le scelte delle imprese. Bisogna purtroppo dare ragione a Tremonti, quando sostiene che sul caso Parmalat è inutile parlare di dirigismo del governo, che non c’è, quando nessuna grande impresa privata italiana si è fatta viva, prima dei francesi.
D’altra parte il salotto buono delle imprese italiane, il loro autentico parlamento, il consiglio di amministrazione delle “Generali”, ha sfiduciato Geronzi, il banchiere più vicino oggi a Berlusconi, non certo per costruire un progetto di sviluppo per il paese, ma per sostituire, nella stessa politica, un gruppo di potere all’altro.
Gli unici ad essere stati soli sono stati gli operai di Mirafiori e Pomigliano, che si sono visti scagliati contro una campagna mediatica e ideologica senza precedenti. E’ vero che questa campagna ha avuto un effetto contrario sull’immagine della Fiat. Come lo hanno per Berlusconi gli eccessi di Emilio Fede e dei suoi fan. Ma questo è solo un effetto non voluto di un disegno che comunque è stato e viene perseguito. Lo dimostra il fatto che sul futuro della Fiat, sui fantomatici 20 miliardi di investimento, sui programmi produttivi colossali privi di qualsiasi aggancio con la realtà, non c’è alcun confronto critico nelle istituzioni e nella grande comunicazione.
Sono rimasti soli i lavoratori e i precari di fronte a una stagnazione economica e a una crescita delle ingiustizie sociali che fa pagare a loro tutti i costi della crisi. Che la ripresa sia una sostanziale invenzione, che milioni di disoccupati o sottooccupati incombano sulla stagnazione economica e nella crisi è un dato della realtà che Berlusconi, Marchionne e Marcegaglia hanno fatto il possibile per nascondere finora.
Il fatto che ora il sistema cominci a scricchiolare e l’oggettivo indebolimento di Berlusconi spinga i padroni a trovare una carta di ricambio, non cancella di un millimetro le loro responsabilità. Per questo fa grande tristezza vedere gran parte dell’opposizione politica, in particolare il terzo polo e il Partito Democratico, entusiasmarsi per le battute della presidente della Confindustria e dell’amministratore delegato della Fiat. Costoro, sul piano sociale ed economico almeno, criticano da destra il governo: vorrebbero una politica ancora più brutale verso il mondo del lavoro. E quindi non possono essere gli interlocutori di una reale alternativa a Berlusconi.
L’Italia riprenderà a crescere socialmente e civilmente, e anche economicamente, quando si saprà rispondere a Marcegaglia e Marchionne che lamentano di esser lasciati soli, come avrebbe fatto Totò: “ma ci facci il piacere!”.

Giorgio Cremaschi

mercoledì 13 aprile 2011

Frankfurt Consensus

Mentre abbondano le critiche sulle carenze delle regole di Shengen per l’immigrazione, con il Governo italiano che minaccia la secessione dall’Unione europea, ci sono questioni europee che, se possibile, dovrebbero preoccupare ancora di più.
Il processo che dovrebbe destare particolare allarme è quello della sostituzione del Patto di stabilità (e crescita) siglato a Maastricht nel 1991 – per intenderci quello del deficit al 3 per cento del Pil – con uno strumento molto più stringente: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes) da approvare a Giugno da parte del Consiglio europeo. Questo dovrebbe prevedere, tra l’altro, interventi automatici di un Fondo europeo dotato di risorse pari a 500 miliardi di euro in cambio di cure da cavallo e della definitiva affermazione del predominio dell’economia tedesca e delle politiche economiche di Bonn sulle altre del Continente. Il primo passo in questa direzione è già stato compiuto nel Consiglio europeo del 24/25 marzo con l’accordo sul Patto Euro Plus.
Il Patto di stabilità era già stato definito “folle”, in un momento di particolare sincerità, dallo stesso Romano Prodi. Esso infatti non ha contribuito alla crescita o all’innovazione, ma almeno garantiva la sovranità nominale delle nazioni europee sulla gestione della propria politica economica. Le novità in gestazione a Bruxelles significheranno che le economie più in difficoltà del Continente saranno messe sotto amministrazione controllata da parte della Banca centrale europea secondo i principi di un nuovo “Frankfurt consensus”. Questo vorrà dire che i paesi dell’euro sotto attacco della speculazione internazionale, come Grecia, Irlanda e Portogallo, potranno essere costretti a accettare prestiti europei in cambio dei quali saranno obbligati a drastici tagli ai bilanci, ulteriori privatizzazioni, mutamenti delle relazioni industriali per rendere più “flessibili” i lavoratori.
Se si vuole comprendere perché così forte sia l’interesse a stabilizzare i sistemi finanziari di alcuni paesi europei basta considerare che, stando agli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali (giugno 2010), il sistema bancario tedesco è esposto sulla Grecia per 65,4 miliardi, sull'Irlanda per 186,4, sul Portogallo per 44,3 e sulla Spagna per 216,6, e che solo prestiti internazionali possono salvare le banche tedesche per le quali un crack finanziario dei propri debitori avrebbe effetti devastanti.

Si sta in pratica edificando, come da tempo chiedevano anche i più illuminati fra gli economisti, un governo dell’economia europeo che si affiancherà alla moneta unica. Ma questo governo è in realtà una rigida dittatura burocratica imposta da Francoforte e da Berlino. Tutte le economie europee dovranno diventare competitive come quella tedesca e per farlo dovranno tagliare costi del lavoro e assicurazioni sociali, rendere le loro imprese contendibili e possibili prede dei partner europei. In cambio nessuna risorsa aggiuntiva sarà erogata da un bilancio europeo asfittico che in tutto arriva al massimo all’1,27 per cento del Prodotto interno lordo europeo. Nessun sacrificio, nessuna solidarietà, verrà richiesta alle economie che meglio si sono sapute adattare al mercato unico europeo e che da questo mercato stanno traendo i migliori benefici stando ai saldi commerciali con gli altri paesi dell’Unione europea.
Il “Washington consensus” imposto dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale a partire dagli anni Ottanta è entrato in crisi definitiva all’inizio di questo secolo quando paesi come l’Argentina, la cui capitale era invasa da cittadini che sbattevano sulle padelle, sfondavano i bancomat e giravano di notte con i carrelli della spesa per raccogliere cibo nella spazzatura, si sono rifiutati di impegnare ogni stilla del proprio sangue per ripagare i debiti contratti. Anche il Frankfurt consensus, con Francoforte e Berlino che impongono tagli ai servizi sociali e riduzione di già miseri salari, non reggerà che qualche mese e cadrà sotto il peso delle sommosse sociali che si avvertono in tutto il Mediterraneo e che sembrano arrivare fino in Gran Bretagna (pochi giorni fa c’è stata a Londra la più grande manifestazione sindacale dai tempi dei minatori contro la Thatcher). L’idea di curare l’Europa con le stesse ricette monetariste che hanno condotto alla crisi economica e finanziaria del 2007 condurrà a sicure sciagure.
Rafforzare i meccanismi per la cooperazione economica, intervenire per armonizzare la fiscalità e gli standard lavorativi, sarebbe certo una cosa buona. Il problema è che, se non si cambia presto rotta, e se non si investirà in un vero governo europeo dell’economia che abbia delle risorse aggiuntive per le infrastrutture e per l’innovazione, che offra uno spazio adeguato (e non di semplice consultazione) all’intervento democratico dei Parlamenti e che dia l’idea di in minimo di solidarietà fra le regioni più ricche e quelle più povere del Continente, a rimetterci potrebbe essere l’intero sistema politico dell’integrazione europea, dove già ovunque abbondano rigurgiti nazionalisti ed identitari.

Giuliano Garavini

Questa Europa fa schifo

Il ministro Maroni dice la verità quando afferma che questa Europa è capace di salvare le banche e di fare la guerra, ma non di fare solidarietà.
Ha ragione, ma questa è la sua Europa, quella delle Leghe, della xenofobia diventata mezzo per vincere le elezioni, dei governi di  destra che la cavalcano e di quelli, pochi, di sinistra che si adattano e accettano. Gli abitanti dell’Unione Europea sono oltre 300milioni, 30mila migranti che giungono all’improvviso dall’Africa costituiscono lo 0,01 percento della popolazione europea. Che i principali governi europei e la Commissione dicano all’Italia ributtateli a mare perché non c’è posto è qualcosa di più di una vergogna sociale e morale, è la dimostrazione che l’Europa ha finito di esistere.
 
Non serviranno allora le battute di sapore razzista con cui il segretario del Partito democratico accusa il governo di voler uscire dall’Unione europea per entrare nell’Unione africana. Questo modo di parlare è un altro segno della crisi  culturale e politica del Pd.

Il 9 aprile scorso una grandissima manifestazione di lavoratori convocata dalla tentennante confederazione europea dei sindacati, si è svolta a Budapest. In quella grande manifestazione rappresentanti del mondo del lavoro di tutto il continente hanno messo sotto accusa tutta la politica dell’Unione europea.
Quella politica che ha portato al massacro sociale della Grecia nel nome della stabilità dei conti delle banche tedesche, e che preannuncia analoga cura per l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e, domani, per l’Italia. Il nuovo patto di stabilità sottoscritto recentemente nel silenzio della politica italiana, ha stabilito una cura da strozzini per la rduzione del debito pubblico. L’Italia, se dovesse adottare davvero, a partire dal 2012, quelle misure di rientro dal debito, si troverebbe costretta a tagli sociali e civili di una dimensione mai vista e protratti nel tempo. Il che, con la follia in arrivo del federalismo, porterebbe alla frantumazione sociale, civile e forse anche politica del Paese.

Questa Europa pretende che tutti lavorino fino a 67 anni, ma non ha  preso nessuna misura per tutelare l’occupazione e anzi ha sposato totalmente le più bieche ricette liberiste. Questa Europa auspica la distruzione dei contratti nazionali e il legame d’acciaio del salario con la produttività.

Questa Europa ha salvato le banche, ma vuole la concorrenza selvaggia fra i lavoratori per il posto di lavoro ed esige la privatizzazione di ciò che resta dei sistemi sociali. Questa Europa non è stata in grado di affrontare, come invece era stato fatto nel passato, con un disegno comune crisi industriali come quella dell’auto. Si è così dato il via libera alla concorrenza selvaggia tra le multinazionali, alle delocalizzazioni, alle politiche di potenza degli Stati più forti, prima di tutto la Germania. Questa Europa non esiste più da tempo con un disegno civile e sociale unitario: è diventata solo un’area di esercizio delle più stupide ricette del libero mercato.

Con la crisi economica mondiale tutto questo si è accentuato e si è rafforzato il disegno dei poteri economici di far pagare tutta la crisi ai lavoratori e ai cittadini europei.

Così, mentre alimenta burocrazia e retorica, l’Europa si piega agli aspetti più brutali della globalizzazione e mette in discussione proprio i suoi beni e le sue conquiste più importanti, lo stato sociale, il diritto del lavoro e i contratti nazionali, i diritti  civili e l’accoglienza. Questa Europa ha paura di 30mila migranti che vengono da quell’Africa che ha colonizzato e depredato per secoli  perché ha paura di sé stessa, della propria democrazia, dei propri diritti. Per questo non serve a niente contrapporre al leghismo la  vuota retorica europeista, così come a nulla serve l’improvviso riutilizzo della retorica risorgimentale. Non si afferma la  solidarietà con l’ipocrisia. Bisogna invece riconoscere la crisi sociale politica e morale di questa Europa che ci chiede di buttare a  mare i tunisini. Questa Europa fa schifo. Noi dobbiamo solo pensare a come metterla in discussione dal lato della democrazia e dei diritti  sociali e civili. Altrimenti l’edificio europeo crollerà dal lato dell’egoismo e della barbarie per colpa della meschinità e delle politiche antisociali dei governi e delle classi dirigenti.
di Giorgio Cremaschi

martedì 12 aprile 2011

Il Comitato centrale della Fiom decide 8 ore di sciopero di tutta la categoria il 6 maggio

Ordine del giorno Comitato centrale Fiom-Cgil del 11 aprile 2011

Il Comitato centrale della Fiom-Cgil impegna tutta l'organizzazione per la massima riuscita dello sciopero generale proclamato dalla Cgil per il 6 maggio 2011 sulla base delle decisioni assunte dal Direttivo nazionale della Cgil.
Il Comitato centrale, nell'assumere la proposta della Segreteria nazionale, estende a 8 ore lo sciopero generale e invita le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici ad aderire e a partecipare alle manifestazioni territoriali in programma in tutto il paese.
Lo sciopero generale è lo strumento per riunificare le lotte sociali in corso in tutto il paese, contro la precarietà, per la difesa del lavoro e dello Stato sociale, per una scuola pubblica, il diritto allo studio e alla formazione, per la difesa della nostra Costituzione e per un nuovo modello di sviluppo.
La catastrofe giapponese, il riproporsi della guerra, con la conseguente fuga di migliaia di persone e il vergognoso rifiuto all'accoglienza, sono un'altra drammatica dimostrazione della totale insostenibilità di questo modello, per la vita umana e per l'ambiente.
Le rivolte in Medio Oriente e nel sud del Mediterraneo dimostrano la straordinaria voglia di democrazia e di partecipazione a cui va tutto il nostro sostegno.
Lo sciopero generale è lo strumento per permettere l'estensione nei luoghi di lavoro e nel paese di un vasto movimento capace di respingere l'attacco senza precedenti che Governo, Confindustria e Fiat stanno portando all'esistenza del Ccnl, ai diritti, al lavoro, alla democrazia e alle libertà delle lavoratrici e dei lavoratori.
Per queste ragioni, il Comitato centrale della Fiom considera l'estendersi della pratica degli accordi separati, che ha coinvolto anche i lavoratori del commercio, della scuola e del pubblico impiego, un fatto grave che segna un cambio di fase e l'esplicito tentativo del Governo, della Confindustria e delle altre associazioni datoriali di usare la crisi per modificare alla radice il sistema dei diritti e l'esistenza della contrattazione collettiva.
Sulla base delle decisioni e degli orientamenti assunti all'Assemblea nazionale di Cervia, la Segreteria nazionale è impegnata a convocare la prevista riunione del Comitato centrale entro la metà del mese di maggio.

Approvato all'unanimità

lunedì 11 aprile 2011

Che senso ha invitare Marcegaglia alla vigilia dello sciopero generale?

Non mi pare una buona idea in vista dello sciopero generale fare un convegno con la Presidente della Confindustria. Questo è invece quello che fa la Flai-Cgil, come se su donne, democrazia, rappresentanza, la presidente della Confindustria fosse il primo interlocutore. E’ bene ricordare che la Confindustria ha sostenuto il drammatico taglio dei tempi di lavoro per le lavoratrici della Fiat, che comprometterà ancora di più sia la salute in fabbrica, sia la qualità dei tempi di vita. Inoltre siamo alla vigilia dello sciopero generale. Non si può fare convegni con le controparti mentre si prepara lo sciopero, a meno che non si pensi che questo sciopero sia un puro atto di testimonianza fine a se stesso. In ogni caso la decisione di invitare Emma Marcegaglia al convegno della Flai è segno sbagliato e controproducente, per tutta l’iniziativa della Cgil.
di Giorgio Cremaschi

venerdì 8 aprile 2011

Incidenti lavoro: CGIL e IRES, un morto su tre è giovane sotto 35 anni


Secondo un'anticipazione della ricerca IRES CGIL che si inserisce negli approfondimenti del sindacato per promuovere le ragioni dello sciopero generale del 6 maggio, i giovani hanno il tasso infortunistico più elevato. Dal 2005 al 2009, sono stati 44.478 i lavoratori sotto i 35 anni che hanno subito un danno permanente a causa di un incidente sul lavoro » Anticipazione della ricerca sulle condizioni di lavoro dei giovani

Sfruttati e malpagati, in gran parte disoccupati e senza futuro, eppure per i giovani non è tutto. Quelli che lavorano corrono spesso gravi rischi per la loro vita e la loro salute. Secondo una ricerca condotta dall’IRES sulle condizioni di lavoro dei giovani (finanziata dal Ministero del Lavoro e a breve pubblicata dalla casa editrice Ediesse), nel corso del 2009 un infortunio sul lavoro su tre ha coinvolto un lavoratore sotto i 35 anni (secondo dati Inail ne sono stati registrati 262.233 su 790.112) così come un morto sul lavoro su tre (295 su un totale 1.050 vittime) è un giovane.
Nel rapporto dell’istituto di ricerca della CGIL, che si inserisce negli approfondimenti del sindacato per promuovere le ragioni dello sciopero generale del 6 maggio, si rileva come in cinque anni, dal 2005 al 2009, sono stati 44.478 i lavoratori sotto i 35 anni che hanno subito un danno permanente a causa di un incidente sul lavoro, un’invalidità che li segnerà per il resto della loro vita. E proprio i giovani hanno il tasso infortunistico più elevato: secondo le elaborazioni IRES si registrano 5,06 infortuni ogni 100 occupati per chi ha fino a 34 anni e 3,72 infortuni ogni 100 occupati per chi ha più di 34 anni.
Sono dati che forniscono una prospettiva diversa della condizione dei giovani e offrono una motivazione in più per scendere in piazza sabato 9 aprile nelle manifestazioni promosse dal comitato “Il nostro tempo è adesso - La vita non aspetta”. I giovani, infatti, “oltre a dover subire le difficoltà occupazionali e la dequalificazione all’interno dei processi produttivi, vivono anche il dramma poco rilevato delle difficili condizioni di lavoro”, si legge nel rapporto. Condizioni che hanno un impatto negativo sul loro stato di salute, comportando un malessere fisico e psicologico. Difatti, oltre a condurre un’analisi delle statistiche ufficiali, l’IRES ha intervistato mille lavoratori sotto i 35 anni, di diversa tipologia professionale e contrattuale, su tutto il territorio nazionale, tramite un questionario telefonico per far emergere il vissuto reale dei giovani al lavoro.

Fatica e rischio, smascherata retorica di generazione che fugge da lavoro
La ricerca dell'istituto dimostra che “la dura realtà del lavoro per i giovani è la ragione principale della loro elevata esposizione ai fattori di rischio”. Osservando il carico da lavoro dal punto di vista fisico, dalle interviste emerge che molti giovani lavorano sotto sforzo e in situazioni di rischio. “Un dato utile - denuncia l’IRES - anche per smascherare la retorica di una generazione che fugge dal lavoro di fatica”: più di un giovane lavoratore su tre solleva carichi pesanti o fa degli sforzi fisici considerevoli (35,2%) e quasi un giovane lavoratore su cinque ammette di lavorare in condizioni di effettivo pericolo (17,8%). Considerando il carico di lavoro dal punto di vista organizzativo, emerge l’elevata intensità dei ritmi di lavoro che caratterizza sia le mansioni operaie che quelle concettuali: circa due lavoratori su tre hanno un ritmo di lavoro eccessivo (60,5%); la metà del campione lavora con scadenze rigide e strette (il 48%) e non ha abbastanza tempo per svolgere il lavoro (47,5%).
I risultati rilevano anche il ridotto margine di autonomia dei giovani, “nonostante un aumento dei contratti a progetto che invece promettevano di garantirlo”. Due lavoratori su tre non possono scegliere o cambiare i metodi di lavoro (64,2%) e questa costrizione è più forte, paradossalmente, per chi ha un contratto di collaborazione occasionale o a progetto (per il 65,7% di loro) piuttosto che per chi ha un tempo indeterminato (55,4%) svelando come la flessibilità favorisca più la subordinazione che l’autodeterminazione. Del resto, più della metà dei collaboratori non può nemmeno cambiare la velocità con cui svolge il lavoro (55,6%) o scegliere con una certa libertà i turni di lavoro (54,7%) e nemmeno decidere quando prendere i giorni di ferie (57%), due su tre non possono cambiare i metodi di lavoro (65,7%) e nemmeno cambiare l’ordine dei compiti assegnati (70,7%), uno su cinque non può nemmeno prendere una pausa quando ne ha bisogno (20,6%). Dunque, in molti casi, la precarietà si traduce in un vero e proprio sfruttamento. Nel complesso, un lavoratore su quattro non può prendere una pausa quando ritiene di averne bisogno (il 24,8%) e ben più di un lavoratore su tre sostiene di svolgere il lavoro che spetterebbe ad altri (il 41,7%).
Considerando l’espressione delle capacità individuali, la ricerca osserva che i giovani sono scarsamente valorizzati: un lavoratore su cinque dichiara che i meriti e le competenze sono poco o per nulla considerate nel posto in cui lavora (21,2%) e solo il 14,9% sta in un posto che utilizza al meglio le sue capacità. Dentro un presente difficile per molti, anche le prospettive del futuro tendono ad essere nere: per quasi due lavoratori su tre non c’è nessuna possibilità di carriera nel posto in cui lavora (58,2%) e per molti aleggia lo spettro del licenziamento (uno su tre, il 35,4%, è preoccupato di perdere il posto di lavoro).

Questione generazionale riguarda anche reali condizioni lavoro
Questi risultati spingono a riflettere sulla reale situazione del mondo del lavoro giovanile. Nel rapporto si legge: “Da un lato c’è il ricatto occupazionale provocato da una disoccupazione crescente, ormai al 30%, a cui è da aggiungere la forte presenza di lavoro irregolare, un fattore rilevante se consideriamo che dei nostri intervistati il 40% dichiara di avere lavorato senza contratto almeno una volta nella vita. Dall’altro lato, quello ‘fortunato’, di chi ha un lavoro con un contratto, ci sono tanti giovani più o meno qualificati che operano spesso in condizioni di fatica e di pericolo”.
Le difficili condizioni di lavoro emerse, secondo l’IRES, “si traducono in difficili condizioni di salute, tanto da provocare malesseri fisici e psicologici che caratterizzano una parte rilevante delle nuove generazioni”, osserva il rapporto mettendo in risalto che tra i molti problemi di salute rilevati si osserva che quasi un lavoratore su tre soffre di mal di schiena (30,4%) e un lavoratore su tre soffre di stress, depressione, ansia o ha problemi di insonnia (34,4%) a causa del proprio lavoro. La ricerca mostra, inoltre, che la questione generazionale non riguarda solamente il problema noto dell’accesso al lavoro ma anche l’altra faccia della medaglia: le condizioni reali nelle quali il lavoro è svolto.
La sofferenza sul lavoro, si rileva, “è un elemento drammaticamente presente in molte biografie giovanili ed il lavoro è troppo spesso un vettore di sfruttamento piuttosto che uno strumento capace di favorire la tutela, l’emancipazione individuale e la promozione sociale”. Più in generale, l’analisi della condizione giovanile aiuta a comprendere non solo le specificità di una precisa classe generazionale ma anche “le tendenze generali dell’epoca contemporanea, che comportano delle nuove sfide per affermare la dignità dei lavoratori”. Per questo, conclude la ricerca IRES, “è urgente capire come costruire un modello di sviluppo efficace e coerente, che miri ad elevare la qualità complessiva dei processi di lavoro italiani, per coniugare la competitività delle aziende con il benessere dei lavoratori”.

giovedì 7 aprile 2011

Primo Maggio unitario in Italia. UN'IPOCRISIA!

Dichiarazione di Giorgio Cremaschi: “La decisione della Camera di Lavoro di Bologna di manifestare il 1° maggio senza Cisl e Uil è un fatto assolutamente positivo, che dovrebbe essere esteso ovunque. Le manifestazioni di Cgil, Cisl e Uil sul primo maggio sono oggi un fatto di assoluta ipocrisia, ancora più evidente visto che il 6 maggio ci sarà uno sciopero generale proclamato dalla Cgil contro la politica economica del Governo che Cisl e Uil sostengono totalmente.” “Bene Bologna bisognerebbe fare così in tutta Italia.”