giovedì 24 gennaio 2013

Monte dei Paschi, ancora il debito contro il lavoro

Nel 1935, Ezra Pound poteva ancora citare il Monte dei Paschi di Siena come esempio di "un sistema bancario sano", in quanto "i suoi profitti dovevano andare a ospedali ed opere a beneficio del popolo di Siena". Dai primi anni Novanta, la "privatizzazione" ha eliminato dall'ordinamento italiano il principio della pubblica utilità del credito, per cui le banche vengono destinate unicamente a fare profitto. I partiti sono tuttavia riusciti a mantenere il controllo sui capitali delle ex banche pubbliche, scorporando da esse le Fondazioni bancarie.
Così iniziava in Italia il ventennio del trionfo dell'economia del debito, capace di generare nel mondo "derivati" per un valore oltre dodici volte superiore a quello del lavoro annuo di tutta l'umanità. Le Fondazioni, e non solo le banche, hanno partecipato alla speculazione: col risultato che le sole prime 12 Fondazioni avrebbero bruciato, al settembre 2011, ben 10 miliardi di euro, cui nel 2012 si dovrebbero aggiungere altri 14 miliardi di perdite sui titoli di Stato presenti nei loro portafogli.
Dato che il patrimonio delle 88 Fondazioni bancarie italiane ammonta a oltre 50 miliardi di euro, ci rendiamo conto di quanto la crisi finanziaria mondiale abbia intaccato uno dei più importanti patrimoni dell'Italia, costituito nel tempo dal lavoro degli Italiani e originariamente destinato al sostegno delle attività non lucrative, tra le quali, in primo luogo, la cultura.
Le improvvise, per gli ignari, notizie sulla grave crisi del Monte dei Paschi, che irrompono sulla campagna elettorale, annunciano, a nostro avviso, ulteriori difficoltà del sistema creditizio e delle fondazioni nel nostro paese: proprio quando recenti analisi di esperti confermano il fatto che questo sistema continua a sostenere soltanto le grandi aziende e le pubbliche amministrazioni, lasciando famiglie e piccole e medie imprese prive di denaro proprio quando sarebbe più necessario.
Una scelta strategica rivelatrice del fatto che per la finanza internazionalizzata il denaro non è il controvalore del lavoro di un popolo, ma lo strumento per renderlo schiavo attraverso la creazione del debito.
La patologica commistione di politica dei partiti e di speculazione finanziaria si traduce quindi nella rapida distruzione di risorse che il nostro popolo ha prodotto in decenni. Bruciando con gli strumenti della finanza derivata le ultime disponibilità destinate a sostenere non solo le attività economiche e imprenditoriali, ma anche quelle culturali creative artistiche, si minaccia quindi direttamente la stessa identità di ogni popolo.
Dietro i meri aspetti che tanto interessano i "tecnici", la questione di fondo è che con l'involuzione del credito e della banca, l'Italia regredisce ulteriormente dalla civiltà delle arti e dei mestieri, di cui è stata nobile espressione, alla dura soggezione alla brutale potenza dell'oro.


G. C. - www.clarissa.it - 23/01/2013      
  
   
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mercoledì 23 gennaio 2013

Il Financial Times: “Monti inadatto a guidare l’Italia” [traduzione]

Monti aveva sostenuto che la sua “salita” in campo serviva a togliere l’Italia dalle mani degli incapaci. Ma il Financial Times la pensa in modo diametralmente opposto. Secondo l’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, il governo Monti è uno dei governi europei che ha sottovalutato il prevedibile impatto dell’austerità: se la crisi finanziaria sembra essersi affievolita, la crisi economica è in deciso peggioramento, l’economia italiana dopo un decennio di crescita quasi nulla indugia in una lunga e profonda recessione, con il credit crunch che peggiora, la disoccupazione che cresce, la produzione che cala, la fiducia delle imprese ai minimi.
In questa situazione, non diversamente dagli altri paesi periferici dell’eurozona, l’Italia si trova secondo Munchau davanti tre possibilità:
“La prima è quella di rimanere nell’euro e farsi carico da sola dell’intero aggiustamento. Con questo intendo sia l’aggiustamento economico, in termini di costi unitari del lavoro e inflazione, che l’aggiustamento fiscale. La seconda è quella di rimanere nella zona euro, a condizione di un aggiustamento condiviso tra paesi debitori e paesi creditori. La terza è quella di lasciare l’euro. I governi italiani uno dopo l’altro hanno praticato una quarta opzione – rimanere nell’euro, concentrarsi solo sul risanamento dei conti pubblici a breve termine e attendere.
La quarta opzione, la storia economica lo dimostra, alla lunga non conduce ad altro che a ritrovarsi di nuovo alle scelte evitate in passato.
Per Munchau la scelta migliore sarebbe la seconda, ma Mario Monti non ha opposto resistenza ad Angela Merkel. Ci sta provando Mariano Rajoy, il primo ministro spagnolo, che ha richiesto un aggiustamento simmetrico – ma è tardi, la Germania sta già pianificando il suo bilancio di austerità per il 2014 e tutte le decisioni politiche sono già prese: la seconda opzione non c’è più, sta svanendo lentamente.

Ed ecco le previsioni del Financial Times sulle elezioni italiane:
“Dove andrà l’Italia con le elezioni del mese prossimo? Da primo ministro, Mr Monti ha promesso riforme e ha finito per aumentare le tasse. Il suo governo ha cercato di introdurre riforme strutturali modeste, di scarso significato macroeconomio. Partito come leader di un governo tecnico, si è poi mostrato essere un duro operatore politico. La sua narrazione è che ha salvato l’Italia dal baratro, o piuttosto da Silvio Berlusconi, il suo predecessore. Il calo dei rendimenti dei titoli ha giocato un ruolo in questa narrativa, ma la maggior parte degli italiani sa che deve questo a un altro Mario – Draghi, il presidente della Banca Centrale Europea.
A sinistra, Pier Luigi Bersani, segretario generale del Partito Democratico, ha sostenuto l’austerità, ma di recente ha cercato di prendere le distanze da tali politiche. E’ stato anche esitante sulle riforme strutturali. I temi principali della sua campagna elettorale sono una tassa sul patrimonio [recentemente abbandonata, ndr] , la lotta contro l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro e i diritti dei gay. Lui dice che vuole che l’Italia rimanga nella zona euro. Vi è una minima probabilità che abbia più successo nel battersi con la Merkel perché è in una posizione migliore per collaborare con François Hollande, il presidente francese e collega socialista.
A destra, l’alleanza tra Berlusconi e la Lega Nord è indietro nei sondaggi ma sta facendo progressi. Fino ad ora, l’ex primo ministro ha fatto una buona campagna. Ha consegnato un messaggio anti-austerità che ha fatto vibrare le corde di un elettorato disilluso. Continua anche a criticare la Germania per la sua riluttanza ad accettare un eurobond e consentire alla BCE di acquistare incondizionatamente obbligazioni italiane.
Si potrebbe interpretare questo atteggiamento come l’opzione due: insistere su un aggiustamento simmetrico o uscire. Tuttavia, conosciamo Berlusconi fin troppo bene. E’ stato primo ministro abbastanza tempo per aver avuto la possibilità di fare simili proposte in precedenza. Per diventare credibile, dovrebbe presentare una strategia chiara che tracci le scelte in dettaglio. Sinora tutto quel che abbiamo sono solo slogan televisivi.
A giudicare dagli ultimi sondaggi, il risultato più probabile delle elezioni è la paralisi, forse sotto forma di una coalizione di centro-sinistra Bersani-Monti, possibilmente con una maggioranza di centro-destra nel senato, dove si applicano regole di voto diverse. Questo renderebbe tutti, più o meno, responsabili. Nessuno avrebbe il potere di attuare una politica. Ma ognuno avrebbe il diritto di porre il veto.
Se così fosse, l’Italia continuerebbe a tirare avanti, fingendo di aver scelto di rimanere nell’euro senza creare le condizioni per rendere l’adesione sostenibile. Nel frattempo, mi aspetterei che emerga un consenso politico anti-europeo che o otterrà una piena maggioranza alle elezioni successive o provocherà una crisi politica, con alla fine lo stesso effetto.
Quanto al signor Monti, la mia migliore ipotesi è che la storia gli assegnerà un ruolo simile a quello di Heinrich Brüning, cancelliere tedesco nel 1930-1932. Anche lui era parte di un consenso prevalente nell’establishment che non vi fosse alternativa all’austerità.
L’Italia ha ancora qualche strada aperta. Ma deve prenderla.”

(enfasi redazionali)


fonte:

keynesblog.com - 21/01/2013




giovedì 17 gennaio 2013

Sergio Bellavita - Comunicato / riflessioni su Melfi

Democrazia e pluralismo sono negate nella Fiom di Landini (...)
 

In preparazione dell'assemblea nazionale dei delegati Fiom che si è tenuta a Cervia avevamo più volte richiesto, sino a formalizzarlo per iscritto, il rispetto del pluralismo di mozione che, è utile ricordarlo, nasce dall'alleanza congressuale tra Rinaldini, all'epoca segretario generale Fiom, e Cremaschi, portavoce della Rete 28 aprile. La risposta è stata negativa. La platea dell'assemblea è stata costruita con l'esplicito mandato ai territori di garantire delegazioni, a prescindere,favorevoli al documento di maggioranza, tranne, ovviamente, che per la prima mozione sulla quale c'è l'esplicito obbligo statutario a garantire la rappresentanza. Ciò testimonia una volta di più il devastante processo di degenerazione autoritaria del sindacato a fronte della sua incapacità di produrre una risposta adeguata a salvaguardare la condizione dei lavoratori. Un'organizzazione che costruisce e seleziona i suoi gruppi dirigenti sulla fedeltà, sulla “lealtà” può certo governare un'assemblea, un direttivo, ma non potrà mai né combattere né tanto meno vincere battaglia alcuna per i lavoratori.
Non a caso la stretta autoritaria interna alla Fiom è parte integrante della svolta moderata di Landini che ha prodotto il totale rientro dei metalmeccanici nelle scelte della Cgil.
Nella Fiom di Landini si può certo dissentire ma sei fuori da tutto, c'è il pluralismo ma se e quanto lo decide la maggioranza. E' così che si combatte l'autoritarismo di una Fiat che controlla, spia e identifica ogni singolo lavoratore per accertarne i comportamenti e per intimidire?
Era la prima assemblea nazionale dei delegati dopo la rottura della maggioranza e la cacciata dalla segreteria nazionale ed il pluralismo è stato negato proprio perchè si voleva affermare d'autorità, a tavolino, la riduzione di peso della Rete 28 aprile.
Non accetteremo in nessun modo questa penalizzazione.
 Tuttavia non siamo noi le prime vittime di questa degenerazione autoritaria, le prime vittime sono i lavoratori e le lavoratrici. Quelli a cui non bastano applausi e standing ovation, peraltro costantemente in calo, per cambiare una condizione che precipita ogni giorno di più. Quelli a cui serve un sindacato democratico, combattivo che abbia il coraggio della coerenza tra le enunciazioni e la pratica. Un coraggio che, sappiamo, è merce sempre più rara.

Sergio Bellavita

16/01/2013
 Rete 28 aprile in Fiom


* * *

Riflessioni su Melfi



E' inutile che gli operai di Melfi piangano lacrime amare e si disperino sulla fabbrica che chiude o che gli operai dell'Alcoa reclamino investimenti per l'alluminio in Sardegna. Fino a quando le fabbriche o le miniere lavorano per fare merci e per il mercato l'occupazione il lavoro la vita dei lavoratori e delle loro città sono legati al ciclo delle vendite e dei profitti. Pretendere magari chiudendosi dentro un pozzo o salendo come gli stiliti su una torre che le aziende continuino comunque a produrre è inutile ed insensato. Per questo bisogna creare un sistema economico in cui si produca non per fare merci ma beni e servizi necessari alla società. Un sistema che non metta in competizione i prodotti ma soltanto li assegni ai bisogni della popolazione. Insomma ci vuole la produzione socialista ed una società finalmente calma non agitata dall'ansia e dalla frenesia della competizione della velocità del profitto. Una società serena che è capace di vivere con poche ore di lavoro in cui la popolazione si dedichi alla cultura agli svaghi alla conoscenza al sapere. Non è utopia ma un bisogno urgente! 

Pietro Ancona 
 

mercoledì 16 gennaio 2013

Allarme: cinesi si stanno comprando l’Italia!

Nella scorsa settimana, i servizi segreti hanno presentato un rapporto al governo nel quale lanciano un allarme: i cinesi si stanno comprando l’Italia. Hanno messo gli occhi sull’enorme area dismessa della Falck di Sesto San Giovanni, dove pensano addirittura di aprire una filiale della Bank of China; fanno man bassa azionaria nel settore della automazione industriale, della nautica da diporto, delle tecnologie ambientali, ecc. I brevetti sono a rischio, la posizione concorrenziale dell’Italia pure. Infine –suprema infamia!- nell’anno prossimo, sbarcherà in Italia la temibile Dagong, l’agenzia di rating cinese, per valutare la fattibilità degli investimenti in Italia! Orrore! Scusate ma dove è il problema?  Con gli accordi di Marrakesh (1993) abbiamo sancito, in omaggio ai sacri principi liberisti, la libera circolazione dei capitali a livello mondiale senza alcuna barriera protettiva statale. E allora? Dovevate sapere che tutto questo avrebbe comportato anche problemi di sicurezza.
“Ma questi sono cinesi!” E allora, cosa c’è che non va? Il colore giallo? Che differenza farebbe se gli acquirenti fossero americani, francesi, tedeschi? “Ma americani, francesi e tedeschi sono alleati e questi no”. A parte il fatto che le agenzie di rating americane (Jp Morgan e Moody’s) o franco-americane (Fitch) non si comportano granché da alleate, queste sono valutazioni di ordine politico che non dovrebbero influenzare le decisioni di mercato. O vi siete dimenticati di quello che ci avere insegnato sulla perfezione del mercato?
“Ma americani, inglesi e francesi si muovono attraverso imprenditori privati, mentre dietro gli investitori cinesi si intravede l’ombra del loro Fondo Sovrano, il braccio armato del governo che userà le acquisizioni non per scopi economici, bensì politici”. Appunto: quando avete fatto festa per l’avvento del libero mercato globale dovevate sapere che avrebbe potuto verificarsi anche un rischio del genere. Peraltro, solo un anno fa pregavamo in ginocchio Wen Jabao di far comprare i titoli di debito pubblico italiani da parte del fondo sovrano cinese. Ed allora? I bond si e le aree dismesse e le industrie no?
Diciamocela francamente: possiamo sospettare che qualcuno stia  cercando di fare un favore a qualche amichetto? Mi spiego meglio: l’Italia si sta apprestando ad un piano di dismissioni che va dalle aree demaniali ai gioielli di famiglia come Eni, Alitalia, Finmeccanica ecc. ecc. Personalmente sono ostile a questo piano per ragioni che ho spiegato altrove, comunque, se asta di beni pubblici ci deve essere, meglio che ci siano più concorrenti possibili e che ci siano quelli che fanno le offerte più alte. I cinesi, oggi, sono indubbiamente i concorrenti più “liquidi” ed è prevedibile che la loro presenza sul mercato faccia salire il valore delle offerte. Dovremmo esserne contenti, vero? Ma questo potrebbe anche dispiacere a chi vuol partecipare all’asta, ma risparmiando.
Ed allora un allarme del genere giunge davvero a proposito. Un Grande ci ha insegnato che “a pensar male si fa peccato, ma ci si indovina”. E noi siamo tanto peccatori!
 
Aldo Giannuli (Blog) - 15/01/2013


martedì 8 gennaio 2013

Monti, progressista o regressista?

Destra e sinistra? Sono concetti politici superati, appartengono al passato.
Il mio – ha detto Mario Monti – è “un movimento civico popolare e responsabile”, non intende collocarsi “al centro” tra una destra e una sinistra ormai superate, bensì costituirsi “come elemento di spinta per la trasformazione dell’Italia, in contrapposizione alle forze conservatrici, prone a interessi particolari, a protezioni corporative o addirittura dichiaratamente anti-europeiste. Questa nuova forza politica sarà certamente moderata nei toni, ma non nel programma perseguito, che si caratterizza invece per l’incisività delle riforme che intende realizzare”.

Definendo gli altri come ‘conservatori’, ovviamente Monti si auto-celebra come ‘progressista’; nega la distinzione (per lui superata) tra destra e sinistra ma ripropone quella tra conservatori e progressisti. O tra conservatori (soprattutto a sinistra: la Fiom, la Cgil, Fassina e Vendola) e veri riformisti, auto-definendosi come vero riformatore, “anche estremo”.

Senza apparentemente rendersi conto che così introduce per sé quel concetto di ‘estremismo’ che poi usa invece per denigrare le ‘ali estreme’ degli altri invitando Bersani a tagliarle (sempre la Fiom, la Cgil, Fassina e Vendola).
Ma soprattutto Monti non comprende che tra ‘estremismo’ e ‘radicalismo’ c’è un abisso di significati: Beveridge e Roosevelt (e in Italia Gobetti, Di Vittorio, Brodolini, Fortuna&Baslini e molti altri ancora) erano ‘radicali’ nel loro riformismo volto a ricostruire società, redditi, solidarietà e ad ampliare i diritti, ma non erano certo ‘estremisti’; mentre il neoliberismo è ‘estremista’, dogmatico e ideologico in sé e per sé e nella sua volontà nichilistica di distruggere società, redditi, solidarietà e diritti sociali e quindi anche politici e civili. Ma poi, come credere che Montezemolo, Casini, Ichino e lo stesso Monti siano riformisti e progressisti? O che il futuro/progresso radioso, felice e quasi mistico sia realizzato e compiuto nella stessa narcisistica e solipsistica persona di Monti, per cui deve essere reale e vero solo ciò che Monti definisce come reale e vero – e non altro? E poi: cosa significa essere riformisti? Tutto dipende ovviamente dagli effetti che le riforme vogliono produrre.
Di più: anche le controriforme (come quelle del lavoro e delle pensioni) sono comunque riforme, peccato che siano appunto delle controriforme e invece di fare ‘progresso’ determinino ‘regresso’ in termini di benessere, diritti, sapere
e conoscenza.

Ma soprattutto, nelle parole di Monti vi è lo stravolgimento della realtà (un altro dei vizi del berlusconismo trapassato nel montismo): definire infatti come ‘progressista’ l’azione del governo Monti (o la sua Agenda) è quanto di più surreale ci possa essere. Fare una riforma delle pensioni inutile; modificare il mercato del lavoro riducendo i diritti sociali delle persone e non riducendo la precarizzazione (che i diritti li nega); impoverire milioni di italiani abbassando salari e pensioni, per riposizionare più in basso rispetto a prima il sistema produttivo italiano, svalutando il lavoro non potendo più svalutare la vecchia lira per recuperare competitività; tagliare gli investimenti per scuola e università portandole al collasso (ma aumentando i finanziamenti per le scuole private), negando nei fatti ogni possibilità di vero progresso;
tirare per le lunghe le trattative per l’accordo fiscale con la Svizzera; fare poco o niente per l’ambiente; rinviare l’introduzione della Tobin tax, pure decisa a livello europeo, lasciandola in eredità al prossimo governo (a proposito di europeismo…) - fare tutto questo e molto altro ancora è ‘progressismo’?
Nella logica dei mercati, sicuramente sì. Nella logica neoliberista, altrettanto sicuramente – quel neoliberismo che è (forse) morto nell’America di Obama, ma che in Europa è più vivo che mai. 


La Costituzione, allora, che dice (a meno di considerarla conservatrice, vecchia, cosa del passato, anch’essa ‘frangia estrema’ da tagliare):
che il lavoro è un diritto che deve essere reso effettivo (e non ridotto e limitato, come accaduto invece con le politiche di austerità e di deliberata recessione/disoccupazione del governo Monti o con le nuove relazioni sindacali di Marchionne&Monti, più Cisl e Uil); che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (e anche i diritti sociali, quelli che Monti vuole smantellare in nome della sua personalissima idea di ‘progresso’, sono inviolabili); che è compito della Repubblica rimuovere (e non crearli o aumentarli, come fatto dal governo, con il sostegno dell’ex-migliorista Napolitano) gli ostacoli di ordine economico e sociale che “limitando di fatto
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”; che la Repubblica promuove (e non riduce o cancella) lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico; che la salute è un fondamentale diritto del cittadino; che la retribuzione – oltre ad essere un diritto – deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro e “in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; e che l’iniziativa economica privata (e lo stesso dovrebbe valere anche per la finanza), “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana” e che ogni attività economica deve essere sempre e comunque indirizzata “a fini sociali”. E non solo.

Ma tutto quanto è scritto a chiare lettere nella Costituzione, impegnando la Repubblica nella sua azione politica è stato negato (anche) dall’azione del governo Monti. Non si poteva fare altrimenti, dicono Monti con Draghi e Merkel. Falso. Monti ha fatto ciò che voleva l’ideologia neoliberista e ciò che volevano i mercati, replicando in forma nuova, ma non nella sostanza, quella vecchia differenziazione di potere messa in luce già cento e più anni fa da Gaetano Mosca, cioè tra ‘governanti’ e ‘governati’, tra oligarchie/èlite e popolo, con i mercati oggi come nuova oligarchia, come nuova èlite, come ‘classe’ dei governanti contro i governati. Tutto questo è progressista?
Solo uno sciocco può crederlo. Si poteva fare diversamente? Certo (e Obama sta cercando di farlo, pur con tutte le sue timidezze), ma occorrevano dei veri ‘progressisti’, consapevoli di ciò che è ‘progresso’ (una volta scritto con la maiuscola) e soprattutto occorreva che la sinistra (italiana ed europea) fosse davvero sinistra e non cedesse anch’essa alle tentazioni nichilistiche neoliberiste e facesse quindi politiche progressiste (e quindi di sinistra, o almeno da New Deal rooseveltiano). Perché è ‘di sinistra’ e ‘progressista’ aumentare il benessere della gente, dare quella sicurezza sociale che permette poi agli individui di scegliere la loro vita; perché è ‘progressista’
e ‘di sinistra’ accrescere conoscenza e cultura, diritti individuali e diritti sociali, tutelare l’ambiente e accrescere la democrazia.
‘Regressista’ e ‘controriformista’ è invece ridurre tutto questo – e questo è stato il governo Monti/Napolitano, con Pd e Pdl. Perché tra destra e sinistra (e si potrebbe andare a rileggere il Bobbio di Destra e sinistra, il Giddens di Oltre la destra e la sinistra e in particolare il Revelli di Sinistra destra) non è solo un problema di uguaglianza e disuguaglianza, ma di diritti da accrescere,
di autonomia da valorizzare uscendo da ogni forma di eteronomia specie se economica e tecnica.

Sì perché Monti è e resta un ‘tecnico’ anche se oggi cerca di declinarsi in ‘politico’, messosi per di più a capo di una autentica ‘armata brancaleone’, impresentabile, oligarchica e in profondo conflitto di interessi. Un Monti che usa il neoliberismo in economia e in politica come grimaldello per modificare – in termini biopolitici – la società e l’economia. Sulla base della biopolitica – diventata tanato-politica, visti gli effetti sociali che ha prodotto – del neoliberismo. Una biopolitica poi tanatopolitica fatta di: egoismo, edonismo e godimento (quando è possibile, altrimenti penitenza e recessione), solipsismo, fare da sé, essere imprenditori di se stessi e soprattutto vivere la vita come una perenne competizione. Sempre più al lavoro, in una sorta di totalitaria ‘mobilitazione totale’ al lavoro (o alla ricerca del lavoro).
Perché gli apparati tecnici funzionano in sé e per sé e il loro scopo è togliere ogni ‘intralcio’ politico e sociale al loro funzionamento, apparato che infatti deve essere a produttività, a flessibilizzazione, a individualizzazione e
a velocizzazione crescente, tutto però accompagnato da un’altrettanto crescente integrazione/connessione di tutti nell’apparato, oggi grazie alla rete.

Il tecno-capitalismo – la grande biopolitica/tanatopolitica che governa le nostre vite – non ama distinguere tra destra e sinistra ma chiede che destra
e sinistra assecondino le sue esigenze di funzionamento (oggi grazie al neoliberismo). Se questo è ‘progresso’ e ‘riformismo’, Dio o la Ragione ci liberino da questa manipolazione del dizionario e della logica. Ma soprattutto, la sinistra torni ad essere sinistra, ma ‘radicale’, marchi la sua differenza (eccome se esistono) con la destra e soprattutto con le tecnocrazie.
Oggi serve il massimo di conflitto ‘politico’ rispetto al neoliberismo e al tecno-capitalismo. In nome di una Europa diversa. Un’Europa che è invece ancora ferma al ‘conservatore’ Hoover, presidente degli Stati Uniti ai tempi della crisi del 1929 e che invocava politiche ‘riformiste’ fatte di salvataggio della banche e di obbligo di pareggio di bilancio. Insomma, la sinistra rovesci l’Agenda Monti, migliori la propria e soprattutto inventi un nuovo New Deal.



Lelio Demichelis* - 04/01/2013
da MicroMega

* Insegna Sociologia al Dipartimento di Economia dell'Università degli Studi dell'Insubria.
Tra i suoi scritti: Società o comunità (Carocci, 2011), Bio-tecnica (Liguori, 2008). Ha curato (con G. Leghissa), Biopolitiche del lavoro (Mimesis, 2008). Collabora ad Alfabeta2,
a MicroMega online e a Tuttolibri.