venerdì 29 giugno 2012

La riforma è servita : addio all'articolo 18 e senza ammortizzatori sociali

Quel che c'è nella controriforma del mercato del lavoro è ormai abbastanza noto. E i mal di pancia delle parti sociali vengono plasticamente rappresentati dai partiti che sostengono faticosamente il governo Monti. Il Pdl - con Confindustria e le altre associazioni minori delle imprese - pretende con molta durezza che siano allargate ancora di più le maglie della precarietà contrattuale, eufemisticamente chiamata «flessibilità in entrata». Lamentando - oltre il livello della vergogna - che in fondo sulla «flessibilità in uscita» (la libertà di licenziare, smantellando l'articolo 18) il governo si è limitato a «una modifica pro forma».
È falso, naturalmente, come hanno ben spiegato Piergiovanni Alleva e molti altri su questo giornale; ma non fa niente. «Mentite, mentite, qualcosa resterà», raccomandava a suo tempo Goebbels. Ora il gioco è più raffinato e coinvolge media meno dozzinali. Perciò il relatore del Pdl alla legge, Giuliano Cazzola, già annuncia «interventi correttivi concordati col governo» sulla detassazione dei premi di produttività, l'eliminazione del vincolo di 36 mesi oltre il quale il contratto a termine deve obbligatoriamente diventare a tempo indeterminato, e varie altre cosette che mirano a rendere il «giovane lavoratore» pura plastilina nelle mani dell'azienda.
Sul «fronte opposto», si fa per dire, il Pd prova sommessamente a ricavare qualche provvedimento per gli «esodati». Ma senza estremismi: «noi non facciamo numeri, individuiamo criteri per un rapida soluzione». Stesso discorso anche «per i giovani», destinatari di una mini-Aspi (indennità di disoccupazione) quasi impossibile da ottenere.
Tra le poche novità, l'indicazione vaga di un minimo contrattuale per i collaboratori a progetto («il corrispettivo non deve essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività e in ogni caso sulla base dei minimi salariali». Ma non è chiaro in qual modo i singoli lavoratori co.co.pro. - notoriamente poco rappresentati sindacalmente - possano far valere questo loro diritto nascente; almeno senza subire ritorsioni da parte del datore di lavoro.
L'«equità» e le «pari opportunità» erano due parole spesso pronunciate dal ministro del lavoro, Elsa Fornero. E in effetti il ddl ora legge prevede che gravidanza, infortunio e malattia non siano più cause di risoluzione del rapporto di lavoro precario. Con una piccola ma importante postilla: il «posto» deve essere conservato, ma di salario - per tutto il periodo della malattia o della maternità - non è «naturalmente» neppure il caso di parlare...
Seppellito l'art. 18 con la sola opposizione dei sindacati «conflittuali» (la Fiom e quelli di base), il punto su cui probabilmente si dovrà reintervenire è quello degli ammortizzatori sociali. Il testo uscito dalla Camera pesa come una mannaia su quanti perderanno il posto di lavoro nei prossimi mesi. Per i licenziati dal 1 gennaio prossimo fino alla fine del 2015, infatti, c'è solo «l'indennità di disoccupazione non agricola» prevista dal «regio decreto» del '39; con durata tra gli 8 e i 16 mesi a seconda dell'anno in cui avviene il licenziamento e dell'età del lavoratore.
Dal 1 gennaio 2016 scompare definitivamente anche la cassa integrazione straordinaria per le aziende che fallliscono o vanno in liquidazione coatta amministrativa (come il manifesto, insomma). Per quanto riguarda la «transizione» al nuovo regime (fino al 2016), invece, restano le cig «in deroga», ma della durata massima di 12 mesi (prorogabili), su decisione del governo ed «entro i limiti delle disponibilità del Fondo sociale per occupazione e formazione (1 miliardo per ciascuno dei prossimi due anni, poi 700 e 400 milioni). Ogni proroga, comunque, comporterà una riduzione crescente dell'assegno di cig. Degli 850 euro di massimale attuale, insomma, si perderebbe il 10% alla prima proroga, il 30% alla seconda e il 40 alla terza. In pratica, al terzo anno ci si ritrova con circa 500 euro mensili; come la pensione minima, ma per un anno solo. Poi basta.
L'enfasi sulla frequenza obbligatoria di «specifici programmi di reimpiego», infatti, non ci sembra in grado di risolvere alcun problema effettivo. Lavoratori che le imprese considerano «troppo vecchi» (diciamo dai 50 anni in su, senza voler esagerare) per restare in azienda, molto difficilmente potranno essere riassunti altrove solo perché nel frattempo hanno frequentato qualche lezione «di aggiornamento perenne».
La «struttura» che sembra tenere insieme le varie norme contenute nella «controriforma» è, a conti fatti, più ideologica che reale. Persino Confindustria, in una delle poche critiche sensate rivolte al decreto, ha dovuto constatare la completa assenza di «politiche attive» per il reimpiego dei licenziati. E non basta davvero un pistolotto sulla «scommessa per far cambiare mentalità agli italiani» per riempire un vuoto così vistoso. È sufficiente parlare con un francese qualsiasi, per accorgersi della differenza vitale esistente con i nostri «concorrenti europei». 

F.Piccioni - 28/06/2012
il Manifesto
 

giovedì 28 giugno 2012

Come si licenzia in una multinazionale

“Sai come licenziano in una multinazionale?” La mia amica mi guarda sapendo che la domanda sarà il pezzo forte della mattina. “Dipende dalla multinazionale”, rispondo io, e mi sembra una risposta scontata, indiscutibile. “È successo ieri a mio marito”. Non conosco personalmente suo marito, lo conosco perché qualche volta me ne ha parlato, quindi ho giusto gli elementi basilari della sua storia: quanti anni ha (una quarantina), qual era il suo ruolo nella multinazionale da cui è stato appena licenziato (progettista nel settore automotive), quante ore al giorno lavorava (10-12, a volte anche di più, ma del resto aveva un ruolo di responsabilità).
“Licenziato?” La guardo sconcertato. “In tronco”, risponde lei con un sorriso amaro. “L’ha chiamato il direttore del personale intorno alle dieci del mattino e gli ha comunicato la cosa: ‘Ti offriamo dodici mensilità, prendere o lasciare. Se vuoi puoi fare vertenza, per noi non è così rilevante’. Non gli ha dato nemmeno il tempo di replicare. ‘Riduzione del personale per riorganizzazione aziendale’, ha detto”.
Scuoto la testa, non so che dire. “Tra l’altro,” continua lei, “la cosa incredibile è che gli è stato vietato di salutare i colleghi, e una volta uscito dalla stanza ha trovato un lucchetto alla porta del suo ufficio, ha chiesto spiegazioni e gli hanno detto che avrebbero fatto un pacco delle sue cose e gliele avrebbero spedite a casa con DHL”.
“Addirittura? E perché?”. “Rischio di spionaggio industriale”. Un comportamento che sulle prime mi sembrava esagerato, adesso riesce perfino ad avere un senso, una sua logica malata. “In fondo c’è gente che viene messa alla porta senza buonuscita. Almeno in questo siamo fortunati”.
“Fortunati?” Le faccio questa domanda perché non riesco ad accettare che la fortuna venga calibrata sulle disgrazie. “Eh sì. Per lo meno abbiamo un anno per cercare un nuovo lavoro. E un anno è un sacco di tempo”. Si toglie gli occhiali da sole, ha l’espressione di chi non ha dormito abbastanza. “Hai sentito che ha detto il ministro ieri, no?”
Le faccio segno di sì: “Ho sentito”.
“Qui niente è più un diritto, neppure la decenza”. Si strofina gli occhi. “Figuriamoci il lavoro”.

A. Pomella - 28/06/2012
Il Fatto Quotidiano

La Fornero contro la Costituzione: il lavoro non è un diritto

Il ministro Fornero, in una intervista rilasciata al Wall Street Journal, ha dichiarato che il lavoro non è un diritto. “We’re trying to protect individuals not their jobs. People’s attitudes have to change. Work isn’t a right; it has to be earned, including through sacrifice.”. Traduzione: “L’atteggiamento delle persone deve cambiare: il lavoro non è un diritto ma va guadagnato, anche con il sacrificio”. Ergo: il lavoro non è un diritto. Vorrei ricordare alla Professoressa Fornero che la Repubblica Italiana è una Repubblica fondata sul lavoro. Lo dice la Costituzione sulla quale lei ha giurato. Lo dice la Costituzione che tutto il mondo ci invidia. Lo dice la Costituzione italiana già all’articolo 1, e lo ribadisce in maniera ancora più chiara ed inequivocabile all’articolo 4.
Caro Ministro le rinfresco la memoria e glielo ricordo io l’articolo 4 della Costituzione italiana perché, mi permetto di farle notare, o non riconosce la costituzione sulla quale ha giurato o ha giurato su un qualcosa che non conosce e francamente non so cosa sia più grave e imbarazzante. Comunque l’articolo 4 recita così:  “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Vorrei tanto che si ripassasse a casa questo articolo: è un compitino semplice, due righe, non di più. Non è un’operazione complessa come quella di contare il numero degli esodati e mi auguro, come cittadino della Repubblica Italiana, che oltre a ricordarlo Lei, in qualità di Ministro della Repubblica Italiana, si impegni a rispettarlo e tutelarlo. Le ricordo che anche se Lei è un ministro tecnico e anche se non è stata eletta dai cittadini Lei ha il dovere di rispettare la Costituzione, compreso l’articolo 4.
Scusi il mio tono ma sono veramente irritato: dopo anni di battaglia contro il governo Berlusconi che voleva modificare la nostra Costituzione, ora Lei, senza colpo ferire, attacca in maniera così brutale uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione. La differenza, ed è questa la cosa che più mi irrita, è che durante il ventennio berlusconiano l’opposizione e una parte della stampa (penso in particolar modo al gruppo De Benedetti) era fortemente critica nei confronti di Berlusconi, mentre ora su di Lei e sul primo ministro c’è un atteggiamento prono da parte dei partiti e dei media. Penso in particolar modo al PD, nato dalle ceneri di una parte del partito dei lavoratori e che ha fatto del diritto al lavoro una battaglia sacrosanta, che ha impegnato anima e corpo nel difendere ed ampliare i diritti dei lavoratori, ora subisce in silenzio, senza alzare la testa, senza reagire, senza, mi si perdoni, dignità.
Mi rivolgo all’Onorevole Bersani: come potete tollerare che un ministro possa sostenere, nelle parole e nei fatti, una cosa che uccide la vostra storia e dignità? Come? Come potete nascondere la testa sotto la sabbia di fronte a questo gravissimo attacco all’articolo 4 della nostra Costituzione? Come potete sostenere un governo che attacca la Costituzione e infanga la vostra storia? Chissà, forse siete troppo presi dalle strategie di corridoio, dalle formule astratte e algide, dal fare alleanze con Casini che per 15 anni ha sostenuto Berlusconi e tutte le sue politiche liberticide e leggi ad personam, per non accorgervi che questo governo sta distruggendo la vostra storia e la vostra credibilità. Non posso credere che di fronte a questa ennesima sortita il PD subisca, ancora una volta, in silenzio, senza far sentire la propria voce, la propria storia e la propria dignità.
E al Presidente della Repubblica, garante della Costituzione, chiedo: Signor Presidente Lei non si sente in dovere di intervenire?

M.Ragnedda - 27/06/2012
notizie.tiscali.it
via Megachip.info

giovedì 21 giugno 2012

il 22 giugno in piazza per reagire alla nausea

Ci sono delle giornate peggiori delle altre e ieri era una di quelle.
Innanzitutto la vomitevole felicità del regime per la vittoria dell'euro in Grecia. Sì perché secondo i principali commentatori è proprio la moneta che ha vinto le elezioni. Monti e il suo governo dell' austerità hanno dimenticato che il primo partito greco è quello accusato di aver falsificato i bilanci di quel paese portandolo alla catastrofe.
Centrodestra e centrosinistra sono a loro volta apparsi felici perché i partiti che formeranno il governo greco sono i loro gemelli e se l'euro ha salvato quelli, perché non sperare che lo faccia anche con questi?
Solo i mercati, gli unici marxisti rigorosi rimasti, han creduto poco alla vittoria della moneta e han continuato a speculare partendo dai dati reali della crisi economica, che continua come prima. (...)
Anche la Cgil ha colto al balzo la palla delle elezioni greche, sarà un puro caso naturalmente, per revocare quello sciopero in difesa dell'articolo 18, che peraltro aveva congelato da mesi. 
Questa decisione è stata presa proprio mentre il governo si appresta a ricorrere alla fiducia per portare al vertice europeo di fine mese lo scalpo degli ultimi diritti costituzionali del lavoro. 
Quando il governo si irrigidisce, il sindacato confederale si ammorbidisce. 
Questa è la formula che ha permesso di far passare la più feroce controriforma delle pensioni d'Europa, il cui l'effetto esodati, che si tenta goffamente di limitare, è solo uno dei primi danni collaterali. 
Ora va all'approvazione la controriforma del lavoro, mentre viene già annunciata la pubblica svendita di tutti i beni comuni e un esponente del governo in cerca di notorietà vuol abolire le ferie. 
Ma i greci han votato per l'euro di che preoccuparci allora?
Non sempre la cura contro i conati di vomito è stare fermi e aspettare che passino . A volte un po’ di sano movimento può far stare meglio. 
Per questo suggerisco a tutte e tutti coloro che come me rischiano di non sopportare la nausea per un regime ove i governanti ricattano i cittadini con la moneta e se ne vantano pure, suggerisco di reagire scendendo in piazza. 
Non è sicuramente sufficiente, ma può farci stare meglio. 
Appuntamento il 22 allora, in difesa dell'articolo 18, contro il governo Monti e tutti coloro che imbrogliano ricattando con l' euro.
Con i greci che non s arrendono e con chi sta con loro.

Giorgio Cremaschi - 19/06/2012
versione audio:

mercoledì 20 giugno 2012

La Deutsche Bank e il piano di dismissioni per i governi Ue

Un piano di dismissione gigantesco, proporzionale a quello che coinvolse la ex Germania dell’Est dopo la riunificazione del 1990. E’ questa la richiesta che la Deutsche Bank ha fatto all’Europa, e in particolare al governo tedesco, in suo rapporto di qualche mese fa e che ora abbiamo potuto leggere. Il documento è del 20 ottobre 2011 e si intitola “Guadagni, concorrenza, crescita” ed è firmato da Dieter Bräuninger, economista della banca tedesca dal 1987 e attualmente Senior Economist al dipartimento Deutsche Bank Researc. Un testo importante perché aiuta a capire meglio cosa sono “i mercati finanziari”, chi è che ogni giorno boccia o promuove determinate politiche di questo o quel governo. La richiesta che è rivolta direttamente alla cosiddetta Troika, Commissione europea, Bce e Fmi è quella della privatizzazione massiccia e profonda del sistema di welfare sociale e di servizi pubblici per un valore di centinaia di miliardi di euro per i seguenti paesi: Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda. Il rapporto stretto con gli “attacchi” dei mercati internazionali si vede a occhio nudo

Gli autori del rapporto hanno come modello di riferimento per questo piano di privatizzazione il vecchio Treuhandanstalt tedesco (l’Istituto di Gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994 garanti la dismissione di cira 8000 aziende dell’ex Ddr soprattutto a vantaggio delle imprese dell’Ovest). Stiamo parlando di un valore patrimoniale di 600 miliardi di marchi tedeschi del 1990 secondo le stime ufficiali, circa 307 miliardi di euro attuali. Nonostante quell’agenzia abbia terminato il suo lavoro con una perdita di 256 miliardi di marchi, lo schema viene riproposto nel documento Deutsche Bank – e a giudicare dalle intenzioni, anche dai progetti governativi: “La situazione difficile sui mercati finanziari non è un ostacolo – scrive il rapporto. 
Una modalità consisterebbe nel trasferire gli attivi a un’agenzia incaricata esplicitamente di privatizzazione. Questa potrebbe in seguito, a seconda della congiuntura dei mercati, scaglionare la vendita nel tempo”. Si mette tutto in un fondo comune, dunque, senza fare di questa o quella privatizzazione l’emblema del progetto, in modo da non sapere più cosa e quando viene venduto, aggirando eventuali opposizioni.

Il capitolo che riguarda l’Italia è molto dettagliato, al pari di quelli degli altri stati. Dopo aver fatto una breve disamina della situazione pregressa – dall’Iri alle privatizzazioni di Telecom e delle altre grandi aziende -  il documento ammette che “lo stato nel suo complesso nel corso dell’ultimo decennio si è ritirato in modo significativo” da diversi settori. Però esistono ancora “potenziali entrate derivanti dalla vendita di partecipazioni in grandi aziende”. Almeno 70-80 miliardi. Ma “particolare attenzione meritano gli edifici pubblici, terreni e fabbricati. Il loro valore è stimato dalla Cassa Depositi e Prestiti per un totale di 421 miliardi”. E, si aggiunge, “la loro vendita potrebbe essere effettuata relativamente con poco sforzo”.
Secondo i dati ufficiali, è di proprietà dello Stato (comprese le regioni, i comuni) un patrimonio complessivo di 571 miliardi, ossia quasi il 37% del Pil”. Quindi, non si tratta di vendere solo qualche quota di Eni o Enel ma interi pezzi del patrimonio pubblicoin particolare l’approvvigionamento di acqua”, misura che appare “utile” soprattutto per via delle “enormi perdite, fino al 30%, dell’acqua distribuita”.

In effetti il testo dedica molto spazio ai servizi pubblici, non solo l’acqua pubblica: “A differenza delle telecomunicazioni, certe parti del settore energetico e dei trasporti (innanzitutto ferroviari) sono ancora suscettibili di privatizzazioni radicali e di una deregolamentazione, da condurre nell’insieme dell’Europa”. E nel testo non c’è alcun imbarazzo a scrivere che “in principio, la privatizzazione di servizi pubblici di interesse generale presenta dei vantaggi, come ad esempio l’approvvigionamento d’acqua, la gestione delle fognature, l’assistenza sanitaria e le attività non statali dell’amministrazione pubblica”.

Oltre all’Italia, come detto, il rapporto si occupa di altri paesi. La Francia, ad esempio dovrebbe avere circa 88 miliardi di euro di beni capitalizzabili sul mercato, il 4,6% del Pil ma, spiega la Deutsche Bank, “l’intervento statale nell’economia va oltre queste cifre”. Ci sono le infrastrutture, le centrali idroelettriche a partire dall’Edf che è di proprietà statale e ampi spazi del settore bancario. Per quanto riguarda la Spagna, l’accento è posto sulla vendita di aeroporti, sui servizi di navigazione, i cantieri navali, le Poste, le ferrovie. Infine, per quanto riguarda la Grecia, si ricorda che gli impegni presi dal paese nei confronti della Troika riguardano il 22% del Pil, circa 50 miliardi di euro di privatizzazioni. Ma, si sottolinea, “lo Stato controlla il 70% del Paese”, quindi c’è ancora molto da fare.

S.Cannavò - 19/06/2012
il Fatto Quotidiano 

martedì 19 giugno 2012

I miliardi virtuali dei pasticcioni di governo

Per chi vuole illudersi ancora con la crescita, si goda il "Decreto sviluppo" del governo Monti (via Passera), uno spottone assiduamente pompato da una sfiorita gazzetta conservatrice, la Repubblica. E da altri giornali a rimorchio.  Corrado Passera, uno dei banchieri più in vista (di quest’epoca di banchieri) ha promesso che il provvedimento del governo «mobiliterà risorse sino a 80 miliardi di euro», sempre che qualcuno abbia la bontà di spiegarci cosa significa in concreto quel «mobiliterà».
Il ministro sembra alludere a un’apertura di forzieri, a un pompaggio di moneta sonante da erogare per lo sviluppo e la crescita, qualcosa di simile ai soldi iniettati nelle grandi banche a cui ci hanno abituati negli ultimi quattro anni, ma questa volta in un’altra direzione.
Il suono allusivo della parola magica («mobiliterà») dovrebbe sottintendere a un governo che finalmente trasfonde denaro vero nel circuito economico a rischio necrosi. E per giunta con volumi che al confronto il Piano Marshall è una spesuccia.
Niente di tutto questo. Il decreto ricomincia con i soliti sistemi disorganici delle agevolazioni fiscali e degli incentivi alle imprese: sono cucchiaini che non fermano lo tsunami della lunga recessione né il processo di deindustrializzazione dell’Italia. Non mancano le promesse per le solite Grandi Opere.
Hanno sbagliato i conti sulle entrate fiscali? Posto che pretendevano un’assurdità (aumentare le imposte e non attendersi un crollo della domanda), hanno pronto il rimedio che già intuivamo per la copertura finanziaria: svendere asset pubblici costruiti in generazioni. E poi sforbiciare nel settore della pubblica amministrazione. La chiamano pomposamente “spending review”.
Saranno, in realtà, stipendi in meno e disoccupati in più.
Gli 80 miliardi non sono dunque moneta viva, bensì, al contrario, un vago programma di sottrazione dalla ricchezza della nazione. Tanto vago da non avere tempi definiti: ammesso che il decreto-fuffa abbia effetti, li avrà dopo anni. E chissà come sarà, dopo anni, perfino un mercato ignobile come quello che si accaparra i beni di tutti. Si tratta di tempi lunghi e indistinti, mentre l’incalzare della speculazione e dei crolli bancari sono eventi brevi e impellenti, oltre che capaci di prosciugare multipli delle risorse “mobilitate” dal governo dei presunti tecnici. Per un governo che misura i miliardi a “paccate” (scuola Fornero), nulla di più patetico e cialtronescamente virtuale delle risorse evocate per l’economia reale.
Al partito della suddetta gazzetta conservatrice ciò basterà per cinguettare che questa è una svolta. Idem il Pd. Ma sono bugie senza futuro. Non possono promettere arrosti dopo che il fumo dura troppo mentre il governo del “risanamento” ci porta ormai alla soglia dei due trilioni di euro di debito. Come stupirsi che ci sia una corsa all’afferra afferra? Chi ha soldi li porta altrove, sempre di più, a finanziare i già ricchi (zona Berlino e Francoforte), o a tentare un ulteriore giro nella giostra folle dei derivati e della finanza criminale (zona Londra e Wall Street). Una finanza così criminale che mai si meriterà un monito di Giorgio Napolitano, il king maker dei bancocrati pasticcioni.
Se si guarda in modo spassionato all’assoluta inutilità del "Decreto sviluppo", si comprende la gravità delle prospettive per i decenni a venire. E chi regge il sacco a questi personaggi sarà da considerare pienamente corresponsabile.

Pino Cabras - 19/6/2012
http://www.megachip.info

domenica 10 giugno 2012

Roma, 9 giugno 2012. Il Lavoro prende la parola

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La truffa del reintegro

Art.18: ecco perchè il lavoratore non sarà mai più reintegrato
nel posto di lavoro

Non avrei mai pensato di rivolgere al presidente Monti e al ministro Fornero la stessa domanda (retorica) tante volte fatta a B&C: ma ci siete o ci fate?

E invece… L’art. 14 comma 7 del ddl sulla riforma del lavoro (Tutele del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo) dice: “il giudice che accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (sarebbe il licenziamento per motivi economici) applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del medesimo articolo” (il reintegro ). E, poco più avanti: “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”. Che consiste nel dichiarare “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condannare il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva” (l’indennizzo).
TUTTO RUOTA intorno a due paroline: “manifesta insussistenza”. Cosa vogliono dire? In linguaggio comune è semplice: il fatto posto alla base del licenziamento non esiste; perciò il lavoratore va reintegrato nel posto di lavoro, poche storie. Ma, per un giurista, insussistenza senza aggettivi è cosa diversa dall’insussistenza “manifesta”. Il giurista si chiede: ma perché questi hanno sentito il bisogno di scrivere che l’insussistenza deve essere “manifesta”? Un fatto o sussiste o non sussiste; quanto sia complicato accertare che esista non incide sulla sua esistenza, solo sulla difficoltà della prova.
Per capirci meglio, un assassino va condannato sia che lo si becchi con il coltello sanguinante in mano, sia che la sua responsabilità emerga dopo un complicato lavoro di indagine (movente, alibi, testimonianze etc). Dunque, pensa il giurista, questi hanno scritto “manifesta insussistenza” proprio per differenziare questi casi da quelli in cui c’è l’insussistenza semplice; e per differenziare il trattamento conseguente, reintegro nel primo caso, solo indennizzo nel secondo.
Come tecnica legislativa non è una novità. Quando, in un processo, si solleva un’eccezione di illegittimità costituzionale, il giudice la accoglie solo quando la questione non è “manifestamente infondata”. Se è sicuro che la legge è conforme alla Costituzione, respinge l’eccezione. Insomma, solo quando il giudice ha qualche dubbio sulla costituzionalità della legge (o, naturalmente, quando è sicuro che sia incostituzionale), chiede alla Corte costituzionale di valutare. Ne deriva che la Corte non riceve tutte le questioni di illegittimità costituzionale ma solo quelle che i giudici ritengono “non manifestamente” infondate. Può darsi che tra le altre, quelle che il giudice ha respinto (sbagliando), ce ne fossero di fondate; ma la loro fondatezza non era “manifesta”; e quindi…
Tornando all’art. 18, siccome i criteri di interpretazione giuridica delle leggi questi sono (art. 12 del codice civile), ne deriva che il giudice potrà reintegrare il licenziato solo quando, da subito, senza indagini, senza prove, “manifestamente ”appunto, è sicuro che il motivo economico non sussiste. Se invece dubita, se per decidere deve acquisire prove, allora niente reintegro. E cosa al suo posto? Ma è chiaro, l’indennizzo. E infatti Monti-Fornero lo dicono espressamente: “nelle altre ipotesi”, cioè quando l’insussistenza del motivo economico va accertata con una normale istruttoria dibattimentale (prove, testimonianze, perizie), quando dunque non è “manifesta”, di reintegro non se ne parla. Magari alla fine salterà fuori che il motivo economico non c’è; ma, siccome è stato necessario un vero e proprio processo per rendersene conto, niente reintegro, solo un po’ di soldi.
DA QUI DERIVANO TRE CONSEGUENZE MICIDIALI:
LA PRIMA:
Il reintegro per motivi economici non ci sarà mai. Davvero si può pensare che un’azienda licenzi con motivazioni che da subito, senza alcun dubbio, “manifestamente”, si capisce che sono una palla? Se anche la motivazione economica è infondata, sarà certamente motivata bene; e quindi sarà necessario un normale processo, come si fa sempre. Solo che, a questo punto, l’insussistenza del motivo economico, anche se accertata, non è “manifesta”; e il lavoratore non potrà essere reintegrato.
LA SECONDA:
I giudici saranno in un mare di guano. Perché, in alcuni casi, l’insussistenza del motivo economico ci sarà; ma, per essere sicuri, un po’ di istruttoria va fatta. Un giudice non può dire: “È così’”. Deve motivare perché è così; e per questo è necessaria l’istruttoria. Ma, se la fa, addio reintegro. Mica male come dilemma.
LA TERZA:
A seconda dell’interpretazione che il giudice darà del concetto “manifesta insussistenza” gli diranno che è uno sporco comunista o uno sporco capitalista. Della serie: “Se la mente del giudice funziona, la legge è sempre buona” (Snoopy sul tetto della sua cuccia). “Certo che con questi giudici…; anche le leggi migliori, che il sindacato si è ammazzato per ottenerle (o che il governo si è dannato per scriverle), non funzioneranno mai. La responsabilità per gli errori dei magistrati, ecco quello che ci vuole”.
Ma, a questo punto: davvero Camusso & C, Bersani & C, a tutto questo non ci hanno pensato? O si sono accontentati di una (finta) dimostrazione di forza, del tipo: “Abbiamo costretto il governo etc etc; guardate come siamo bravi”?

Bruno Tinti, Magistrato - 05/06/2012
 http://italy.indymedia.org/


giovedì 7 giugno 2012

Giorgio Cremaschi - Controriforma del lavoro. In piazza dall'8 giugno

Ma come è giusta la ministra Fornero! E' innamorata dell'eguaglianza e rivendica fieramente  per  i dipendenti pubblici la stessa libertà di licenziamento dei privati.  Il quotidiano La repubblica, organo ufficiale del governo monti, ne esalta la battaglia persino con un sondaggio..volete forse conservare ai pubblici qualche indegno privilegio? Eppure anche questa penosa sceneggiata mediatica è istruttiva. Innanzitutto perche chiarisce ancora una volta la sostanza della controriforma del lavoro:la libertà di licenziamento per l'appunto. Oramai è rimasta solo la segreteria della cgil in italia a  credere che l articolo 18 ci sia ancora. mentre è istruttiva proprio l'obiezione del ministro Patroni Griffi. 
Infatti per il ministro non è semplice estendere ai pubblici la nuova normativa, perchè non è chiaro chi dovrebbe pagare l'indennità di licenziamento per chi viene cacciato. Il dirigente di tasca sua o l'amministrazione? Quale nobile contesa..
Cosi dopo la controriforma delle pensioni più feroce d' europa, anche quella del lavoro, che potrebbe essere sintetizzata in: tutti precari per sempre, si appresta ad essere approvata con lo stesso consenso bipartizan. Intanto i sindacati confederali continuano a manifestare il rifiuto rigoroso di essere utili ed i partiti di centrosinistra discutono se è meglio il centrosinistra classico, allargato, o con liste civiche. Sembra la pubblicità dell'acqua minerale.
Di fronte a questo disastro democratico che mescola continuamente  tragedia e farsa, è chiaro che non e' semplice reagire. Ogni scelta di mobilitazione e lotta deve prima di tutto scontare la sua inadeguatezza. Ma se chi ha più forza sta a casa o è complice dobbiamo per questo arrenderci tutti? Io penso proprio di no.Dunque proviamoci, lottare serve sempre.
Si parte l'8 giugno davanti alla camera con l'appuntamento lanciato dalla assemblea dei delegati di pochi giorni fa.  Ci saranno poi due giornate di mobilitazione la prossima settiimana, decise assieme dai movimenti sociali. E poi lo sciopero appena annunciato dal sindacalismo di base per il 22.
Certo le forze che lottano sono ancora poche e  frastagliate, mentre il sostegno istituzionale al governo monti è ancora un blocco solido. Però il consenso popolare al governo delle banche  e a chi lo appoggia cala ogni giorno che passa. Partiano allora dal  no indignato alla libertà di licenziamento e poi andiamo avanti. Senza nasconderci fatica, contraddizioni, difficoltà,  proviamoci. 

G.Cremaschi - 04/06/2012

venerdì 1 giugno 2012

Alcune chicche sulla riforma del lavoro approvata al Senato

52 pagine, vari emendamenti del governo come approvati il 31 maggio 2012 al Senato della Repubblica impopolare italiana.
52 pagine nel complesso difficili da leggere e comprendere da persone non addette ai lavori, ed infatti i primi commenti che ho intravisto sulla stampa classica, riportano errori grossolani e non hanno ben compreso il vero spirito di questa riforma.
Una riforma che è sostenuta dalla politica istituzionale, destra e sinistra non sfiduciando il governo, hanno voluto questa riforma.
Ogni critica successiva sarà solo sterile retorica, ipocrita demagogia.
Evidenzierò contrariamente dagli altri solo alcuni aspetti particolari di questa riforma, diciamo delle chicche che devono essere lette e colte con attenzione.
Già il titolo del primo emendamento lascia trapelare in cosa consisterà questa riforma, poiché si sottolinea il termine flessibilità in uscita, anche se nel contenuto del testo si parlerà pure di flessibilità in entrata.
Ma il titolo rappresenta bene l'essenza di queste 52 pagine che riscrivono anni di diritto del lavoro e gettano letteralmente nel cesso,fatemi passare questo termine, battaglie sindacali, operaie, che hanno sempre creato malore e dispiacere a chi ora si vendica.
Perché questa è una vendetta del sistema.
Una vendetta bestiale.
Nella premessa si legge che le disposizioni della presente legge costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, quindi i dipendenti pubblici sono avvisati. A breve si perfezionerà la totale privatizzazione del pubblico impiego, con la realizzazione di quei licenziamenti che vengono da settimane invocati e che solo gli illusi ancora non vedono e non vogliono vedere.
Essere consapevoli è necessario per resistere, per difendersi.
Negare l'esistenza altro non farà che rafforzare proprio chi ti vuole licenziare.

Già nel mio precedente scritto, Appunti sulla nuova riforma del Lavoro, evidenziavo alcune criticità della sempre più vicina riforma del non diritto del lavoro.
Ora hanno modificato, con il passaggio al Senato, in peggio, alcuni aspetti del testo originario.
Per esempio in tema di contratto a tempo determinato, l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato potrà fare a meno delle motivazioni volte a giustificare le ragioni di di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro per il primo contratto non superiore ai 12 mesi. Nel testo originario i mesi erano 6.
Gran passo, complimenti.
Si specifica però che questo contratto, quello senza causale, non potrà essere soggetto a proroga e che dovrà essere computato nel canonico 36 mesi oltre il quale l'apposizione del termine non sarebbe possibile.
Dico sarebbe perché in Italia anche se non si può in realtà si può.
Dunque 12 mesi di contratto franco.
Sorvolo tutte le questioni che riguardano gli altri contratti atipici ma in realtà tipici, rilevando solo che molto si punta sull'apprendistato ed in particolar modo tale forma contrattuale di sfruttamento per i lavoratori è incentivata nelle imprese sotto i 10 dipendenti.
Veniamo alla materia che se da un lato ha avuto effetto distrazione, perché si è parlato solo di questo e non del corpus integrale della riforma del lavoro, dall'altro in queste 52 pagine si pone fine al principio che ha salvaguardato lo Statuto dei Lavoratori, si attacca e si colpisce con efficacia il simbolo della lotta operaia, l'articolo 18.

In caso di licenziamento cosa accade?
Allora il padrone, anzi il datore di lavoro, anzi l'imprenditore, come oggi deve essere chiamato, se decide di licenziarti, deve inviare una comunicazione alla Direzione Territoriale del luogo e solo per conoscenza al lavoratore.
Così è scritto nella riforma.
La Direzione Territoriale entro 7 giorni trasmette la convocazione alle parti, si avvia il tentativo di conciliazione che si conclude entro 20 giorni dalla convocazione fatta salva l'ipotesi di richiesta congiunta di rinvio per trattative.
Il Giudice, qualora non si raggiunga l'accordo, dovrà valutare, quasi come una minaccia, il comportamento delle parti in sede di conciliazione sia per risarcimento danno che per l'adozione delle spese processuali.
In sede di conciliazione, si specifica sempre nel testo della riforma, è possibile un solo impedimento giustificato del lavoratore che può determinare la sospensione della procedura non oltre i 15 giorni dalla comunicazione dell'evento.

Nel caso di licenziamento disciplinare, leggete con attenzione, emerge che questo produce effetto dal giorno in cui ha avuto luogo l'inizio del procedimento disciplinare e non più dalla data della ricezione del licenziamento.

Altra chicca in negativo ovviamente è che si specifica la nullità del licenziamento intimato in caso di matrimonio tra uomo e donna, e si specifica tra uomo e donna, giusto per non lasciare trapelare dubbi, le coppie di fatto o quelle omosessuali in Italia non devono avere diritti.
Dunque tale licenziamento sarebbe nullo per tutte le aziende a prescindere dal criterio dimensionale e produrrebbe gli stesse effetti del licenziamento inefficace perché intimato in forma orale ovvero la reintegra che non dovrà essere inferiore alle 5 mensilità della retribuzione globale di fatto ivi incluse ovviamente pagamenti previdenziali dedotto il percepito in itinere.
Però il lavoratore entro 30 giorni dal deposito della Sentenza o invito del datore a rientrare al lavoro, potrà optare per una indennità pari a 15 mensilità ma che non sarà soggetta a contribuzione previdenziale.
Altro elemento dunque peggiorativo rispetto al passato.
 


Nel caso invece di di annullabilità del licenziamento, quando non sussistono le ragioni,quando si può adottare una sanzione conservativa del posto di lavoro anziché l'espulsione dal lavoro, si applica la reintegra con risarcimento che prevede una retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento al momento della reintegra dedotto ovviamente il reddito percepito in itinere con altra attività, ma follia normativa vuole che dovrà essere dedotto anche quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse cercato con diligenza altro lavoro.
Ma con quale criterio un Giudice potrà mai definire questo ultime parametro?
Follia pura, eppure è stata normata.

E' interessante leggere anche, sempre in tema di licenziamento, che se il datore di lavoro lo revoca entro 15 giorni , il lavoratore avrà diritto solo alla retribuzione e nessuna sanzione verrà comminata al datore.
E certo, prima ti licenzio, ti cagiono stress e preoccupazioni senza inizio e senza fine, e poi per convenienza pura decido di revocare il licenziamento e per questo vile atto di natura intimidatoria non pagherò nulla? In base alla riforma, no!

Si deve ricordare che si introdurranno dei riti speciali per i casi di licenziamento ma anche per la qualificazione del rapporto di lavoro e si specifica che le parti devono produrre una duplice copia dei documenti.
Di norma in Tribunale si produce solo una copia, il fatto di produrne due è per risparmiare i costi al Ministero, ma ovviamente questi costi si rifletteranno sul lavoratore che dovrà ovviamente pagare la duplice copia documentale, e poi un semplice interrogativo, visto che anche i procedimenti di qualificazione del rapporto di lavoro saranno soggetti al procedimento speciale, visto che gli organici dei Giudici sono carenti, quanto dureranno gli altri processi?

Veniamo brevemente all'ASPI che dovrebbe sostituire il sistema degli ammortizzatori sociali come oggi esistente.
Si specifica che i dipendenti pubblici che perderanno il lavoro non avranno alcun ASPI, così come non lo avranno i lavoratori che producono le dimissioni.
Oggi giorno chi si dimette per giusta causa, mobbing, perché non percepisce lo stipendio da tre mesi, ha diritto alla disoccupazione, all'ASPI però no.

Infine si evidenzia, quella che è stata lanciata come una grande conquista, l'obbligo di astenersi dal lavoro per un giorno nei primi cinque mesi del proprio figlio per il padre il quale può per due giorni sempre nell'arco dei cinque mesi assentarsi però ad una sola condizione, ovvero essere in sostituzione della madre...
Ogni commento è superfluo.

In tema di mobilità voglio sottolineare che perde la detta indennità il lavoratore che rifiuta lavoro con retribuzione non inferiore del 20% rispetto all'importo lordo dell'indennità di cui ha diritto,ed infine che entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge si devono riformare gli enti, le realtà che possono offrire formazione formale ed informale, la certificazione delle competenze e le modalità di rilascio dei crediti formativi; quali saranno gli enti che potranno organizzare corsi di formazione per il personale dipendente? Quali saranno i criteri? Lo decideranno i Ministeri tutti interessati sentite le solite parti sociali, probabilmente da un lato incrementeranno il business delle certificazioni delle competenze e dall'altro colpiranno chi forma i lavoratori in modo libero ed anti-sistemico, chi forma i lavoratori solo con l'unico scopo di tutelare, oltre ogni logica corporativa, i diritti dei lavoratori.

E la chicca delle chicche è che l' Inps e l' Inail sono chiamate ad effettuare misure di razionalizzazione organizzativa pari ad una spesa di 18 milioni annui per Inail e 72 milioni per Inps.
Altri licenziamenti?

Ecco perché questa riforma si apriva con un titolo chiaro, ove si evidenziava,appunto, la flessibilità in uscita.

Avv. Marco Barone
http://baronemarco.blogspot.it