Quel che c'è nella controriforma del mercato del lavoro è ormai
abbastanza noto. E i mal di pancia delle parti sociali vengono
plasticamente rappresentati dai partiti che sostengono faticosamente il
governo Monti. Il Pdl - con Confindustria e le altre associazioni minori
delle imprese - pretende con molta durezza che siano allargate ancora
di più le maglie della precarietà contrattuale, eufemisticamente
chiamata «flessibilità in entrata». Lamentando - oltre il livello della
vergogna - che in fondo sulla «flessibilità in uscita» (la libertà di
licenziare, smantellando l'articolo 18) il governo si è limitato a «una
modifica pro forma».
È falso, naturalmente, come hanno ben spiegato Piergiovanni Alleva e molti altri su questo giornale; ma non fa niente. «Mentite, mentite, qualcosa resterà», raccomandava a suo tempo Goebbels. Ora il gioco è più raffinato e coinvolge media meno dozzinali. Perciò il relatore del Pdl alla legge, Giuliano Cazzola, già annuncia «interventi correttivi concordati col governo» sulla detassazione dei premi di produttività, l'eliminazione del vincolo di 36 mesi oltre il quale il contratto a termine deve obbligatoriamente diventare a tempo indeterminato, e varie altre cosette che mirano a rendere il «giovane lavoratore» pura plastilina nelle mani dell'azienda.
Sul «fronte opposto», si fa per dire, il Pd prova sommessamente a ricavare qualche provvedimento per gli «esodati». Ma senza estremismi: «noi non facciamo numeri, individuiamo criteri per un rapida soluzione». Stesso discorso anche «per i giovani», destinatari di una mini-Aspi (indennità di disoccupazione) quasi impossibile da ottenere.
Tra le poche novità, l'indicazione vaga di un minimo contrattuale per i collaboratori a progetto («il corrispettivo non deve essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività e in ogni caso sulla base dei minimi salariali». Ma non è chiaro in qual modo i singoli lavoratori co.co.pro. - notoriamente poco rappresentati sindacalmente - possano far valere questo loro diritto nascente; almeno senza subire ritorsioni da parte del datore di lavoro.
L'«equità» e le «pari opportunità» erano due parole spesso pronunciate dal ministro del lavoro, Elsa Fornero. E in effetti il ddl ora legge prevede che gravidanza, infortunio e malattia non siano più cause di risoluzione del rapporto di lavoro precario. Con una piccola ma importante postilla: il «posto» deve essere conservato, ma di salario - per tutto il periodo della malattia o della maternità - non è «naturalmente» neppure il caso di parlare...
Seppellito l'art. 18 con la sola opposizione dei sindacati «conflittuali» (la Fiom e quelli di base), il punto su cui probabilmente si dovrà reintervenire è quello degli ammortizzatori sociali. Il testo uscito dalla Camera pesa come una mannaia su quanti perderanno il posto di lavoro nei prossimi mesi. Per i licenziati dal 1 gennaio prossimo fino alla fine del 2015, infatti, c'è solo «l'indennità di disoccupazione non agricola» prevista dal «regio decreto» del '39; con durata tra gli 8 e i 16 mesi a seconda dell'anno in cui avviene il licenziamento e dell'età del lavoratore.
Dal 1 gennaio 2016 scompare definitivamente anche la cassa integrazione straordinaria per le aziende che fallliscono o vanno in liquidazione coatta amministrativa (come il manifesto, insomma). Per quanto riguarda la «transizione» al nuovo regime (fino al 2016), invece, restano le cig «in deroga», ma della durata massima di 12 mesi (prorogabili), su decisione del governo ed «entro i limiti delle disponibilità del Fondo sociale per occupazione e formazione (1 miliardo per ciascuno dei prossimi due anni, poi 700 e 400 milioni). Ogni proroga, comunque, comporterà una riduzione crescente dell'assegno di cig. Degli 850 euro di massimale attuale, insomma, si perderebbe il 10% alla prima proroga, il 30% alla seconda e il 40 alla terza. In pratica, al terzo anno ci si ritrova con circa 500 euro mensili; come la pensione minima, ma per un anno solo. Poi basta.
L'enfasi sulla frequenza obbligatoria di «specifici programmi di reimpiego», infatti, non ci sembra in grado di risolvere alcun problema effettivo. Lavoratori che le imprese considerano «troppo vecchi» (diciamo dai 50 anni in su, senza voler esagerare) per restare in azienda, molto difficilmente potranno essere riassunti altrove solo perché nel frattempo hanno frequentato qualche lezione «di aggiornamento perenne».
La «struttura» che sembra tenere insieme le varie norme contenute nella «controriforma» è, a conti fatti, più ideologica che reale. Persino Confindustria, in una delle poche critiche sensate rivolte al decreto, ha dovuto constatare la completa assenza di «politiche attive» per il reimpiego dei licenziati. E non basta davvero un pistolotto sulla «scommessa per far cambiare mentalità agli italiani» per riempire un vuoto così vistoso. È sufficiente parlare con un francese qualsiasi, per accorgersi della differenza vitale esistente con i nostri «concorrenti europei».
È falso, naturalmente, come hanno ben spiegato Piergiovanni Alleva e molti altri su questo giornale; ma non fa niente. «Mentite, mentite, qualcosa resterà», raccomandava a suo tempo Goebbels. Ora il gioco è più raffinato e coinvolge media meno dozzinali. Perciò il relatore del Pdl alla legge, Giuliano Cazzola, già annuncia «interventi correttivi concordati col governo» sulla detassazione dei premi di produttività, l'eliminazione del vincolo di 36 mesi oltre il quale il contratto a termine deve obbligatoriamente diventare a tempo indeterminato, e varie altre cosette che mirano a rendere il «giovane lavoratore» pura plastilina nelle mani dell'azienda.
Sul «fronte opposto», si fa per dire, il Pd prova sommessamente a ricavare qualche provvedimento per gli «esodati». Ma senza estremismi: «noi non facciamo numeri, individuiamo criteri per un rapida soluzione». Stesso discorso anche «per i giovani», destinatari di una mini-Aspi (indennità di disoccupazione) quasi impossibile da ottenere.
Tra le poche novità, l'indicazione vaga di un minimo contrattuale per i collaboratori a progetto («il corrispettivo non deve essere inferiore ai minimi stabiliti per ciascun settore di attività e in ogni caso sulla base dei minimi salariali». Ma non è chiaro in qual modo i singoli lavoratori co.co.pro. - notoriamente poco rappresentati sindacalmente - possano far valere questo loro diritto nascente; almeno senza subire ritorsioni da parte del datore di lavoro.
L'«equità» e le «pari opportunità» erano due parole spesso pronunciate dal ministro del lavoro, Elsa Fornero. E in effetti il ddl ora legge prevede che gravidanza, infortunio e malattia non siano più cause di risoluzione del rapporto di lavoro precario. Con una piccola ma importante postilla: il «posto» deve essere conservato, ma di salario - per tutto il periodo della malattia o della maternità - non è «naturalmente» neppure il caso di parlare...
Seppellito l'art. 18 con la sola opposizione dei sindacati «conflittuali» (la Fiom e quelli di base), il punto su cui probabilmente si dovrà reintervenire è quello degli ammortizzatori sociali. Il testo uscito dalla Camera pesa come una mannaia su quanti perderanno il posto di lavoro nei prossimi mesi. Per i licenziati dal 1 gennaio prossimo fino alla fine del 2015, infatti, c'è solo «l'indennità di disoccupazione non agricola» prevista dal «regio decreto» del '39; con durata tra gli 8 e i 16 mesi a seconda dell'anno in cui avviene il licenziamento e dell'età del lavoratore.
Dal 1 gennaio 2016 scompare definitivamente anche la cassa integrazione straordinaria per le aziende che fallliscono o vanno in liquidazione coatta amministrativa (come il manifesto, insomma). Per quanto riguarda la «transizione» al nuovo regime (fino al 2016), invece, restano le cig «in deroga», ma della durata massima di 12 mesi (prorogabili), su decisione del governo ed «entro i limiti delle disponibilità del Fondo sociale per occupazione e formazione (1 miliardo per ciascuno dei prossimi due anni, poi 700 e 400 milioni). Ogni proroga, comunque, comporterà una riduzione crescente dell'assegno di cig. Degli 850 euro di massimale attuale, insomma, si perderebbe il 10% alla prima proroga, il 30% alla seconda e il 40 alla terza. In pratica, al terzo anno ci si ritrova con circa 500 euro mensili; come la pensione minima, ma per un anno solo. Poi basta.
L'enfasi sulla frequenza obbligatoria di «specifici programmi di reimpiego», infatti, non ci sembra in grado di risolvere alcun problema effettivo. Lavoratori che le imprese considerano «troppo vecchi» (diciamo dai 50 anni in su, senza voler esagerare) per restare in azienda, molto difficilmente potranno essere riassunti altrove solo perché nel frattempo hanno frequentato qualche lezione «di aggiornamento perenne».
La «struttura» che sembra tenere insieme le varie norme contenute nella «controriforma» è, a conti fatti, più ideologica che reale. Persino Confindustria, in una delle poche critiche sensate rivolte al decreto, ha dovuto constatare la completa assenza di «politiche attive» per il reimpiego dei licenziati. E non basta davvero un pistolotto sulla «scommessa per far cambiare mentalità agli italiani» per riempire un vuoto così vistoso. È sufficiente parlare con un francese qualsiasi, per accorgersi della differenza vitale esistente con i nostri «concorrenti europei».
F.Piccioni - 28/06/2012
il Manifesto