sabato 8 gennaio 2011

FIAT. La bufala della sfida dei paesi emergenti

Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso la Fiat effettuò massicci licenziamenti concentrandosi sugli operai della Fiom e dando avvio alla pratica dei «reparti confino», ove venivano inviati gli operai comunisti, socialisti e gli iscritti alla Fiom. Allora sia il Pci che la Cgil interpretavano il capitalismo italiano come dominato dai grandi monopoli e destinato pertanto a una prolungata stagnazione. In risposta alla percepita stasi e crisi dell'industria e dell'auto in particolare, Vittorio Foa elaborò per la Cgil la proposta di sviluppare la produzione lanciando l'idea di una «vetturetta» popolare. 

In realtà era quello che la Fiat stava programmando, dato che l'economia italiana, capitanata dal gruppo Iri, stava imboccando la via della grande trasformazione postbellica. Poco dopo da Mirafiori uscì l'epocale Seicento. I licenziamenti avevano quindi due obiettivi: ristrutturare completamente l'apparato tecnico produttivo dell'azienda e cambiare in senso fordista la forza lavoro, indebolendo quanto più possibile ogni autonoma controparte sociale, la Fiom appunto. Il successo della politica di Valletta fu dovuto all'insieme della crescita del paese che con l'incremento della massa dei redditi, nonché della spesa pubblica in autostrade, generalizzò la domanda e l'uso dell'auto. 
Oggi il paragone con quel periodo, buio dal lato dei diritti sindacali in fabbrica tant'è che il Pci promosse una campagna per far entrare la Costituzione nelle fabbriche, risiede nella volontà aziendale di rendere la forza lavoro malleabile a piacere, volendo formalmente espellere la Fiom che non accetta i criteri imposti dall'azienda. È come se Valletta, che fino ai grandi scioperi del 1962 privilegiava il sindacato aziendale Sida e la Uilm, avesse bandito la Fiom dal correre alle elezioni della commissione interna; cosa allora impossibile malgrado il clima di violenta repressione antioperaia. La differenza cruciale tra oggi e quel lontano periodo sta nell'assenza di prospettive di un sostenuto sviluppo capitalistico per l'economia europea. Non c'è nessuna crescita europea e italiana capace di rilanciare la Fiat. La crescita dei paesi emergenti è fuori tiro perché, a eccezione del Brasile, la presenza Fiat è inconsistente.
In questi giorni,senza nemmeno sollecitare la Fiat a rendere pubblici i piani di produzione per l'Italia, i media dominanti si sono sbracciati nel difendere l'operato politico dell'azienda giustificandolo con la sfida proveniente dai paesi emergenti. Pura ideologia antisindacale. Infatti se si vuole raccogliere la sfida cinese in Cina bisogna esserci. Nel 2010 la produzione cinese di auto è stata di 17 milioni di unità, provenienti nella stragrande maggioranza dalle locali filiali delle multinazionali dell'auto operanti in partenariato con società cinesi.
L'esportazione di automobili dalla Cina è ancora minima, prevalentemente verso alcune zone asiatiche e fra un po' verso la Turchia. Ciò significa che la sfida posta dall'emergere di Pechino si gioca tuttora sulla produzione e sul mercato interno. Con Torino la sfida cinese non c'entra. La politica della Fiat nei confronti di Torino è invece tutta in rapporto al mercato interno italiano e europeo. La strategia è derivata dall'esperienza della deindustrializzazione americana aggravata dalla stagnazione europea e dalle perdite di quote di mercato. Negli Stati uniti il requisito sociale per dare corpo al processo di delocalizzazione verso zone low cost per riesportare verso la più ricca madrepatria è stato il forte declino sindacale a partire dagli anni Ottanta. Man mano che si indebolivano, i sindacati accettavano di incorporare le esigenze delle aziende e per poi ritrovarsi con minore capacità negoziale mentre la delocalizzazione continuava. Vedi il documentario di Michael Moore sulla devastazione di Flint, sede della General Motors. Non è un caso che, come elencato da Maurizio Zipponi al Tg3 di Linea Notte il 4/5 gennaio, si conoscano i programmi di produzione della Fiat per la Serbia, la Turchia, la Polonia ma poco o niente sull'Italia. L'idea che le nuove condizioni contrattuali possano portare a spettacolari incrementi di produttività è fallace. Per ottenere significativi aumenti di produttività tali da avere effetti competitivi e di diffusione sul territorio, è necessario che le innovazioni tecnologiche si accompagnino a un salto della scala di produzione verso valori di gran lunga superiori alle 500-600 mila unità attuali. 
Se questo fosse il vero obiettivo, gli investimenti e la lista dei modelli da produrre si concentrerebbero sull'Italia e secondariamente altrove. Tuttavia, le aspettative circa l'allargamento della scala di produzione dipendono principalmente dalla dinamica della domanda aggregata, cioè dai redditi dell'insieme dei salariati europei. La domanda è stagnante ed i salari reali sono in calo, quindi spazi per espandere la scala di produzione non ce ne sono. Anzi, le innovazioni dovranno assumere per forza di cose delle caratteristiche tipo downsizing che comporta l'outsourcing. Ne discende l'importanza primaria delle zone low cost, finanziate con molti soldi pubblici, della Polonia e della Serbia nonché della Turchia, per poter poi riesportare verso l'Europa occidentale. La malleabilità richiesta ai lavoratori di Mirafiori è per Torino la strada della deindustrializzazione, della disoccupazione e della precarizzazione di massa.

Joseph Halevi - il manifesto

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