giovedì 19 maggio 2016

Comunicato 18 maggio 2016


Dopo l’ennesima richiesta di chiarimento da parte delle RSU circa la gestione delle ferie, si conferma il metodo adottato dall’Azienda, totalmente iniquo e a discapito di tutti quelli che le ferie le fanno; alle RSU Insiel non resta che stigmatizzare le decisioni unilaterali dell’Azienda, che violano il CCNL e la normativa attuale.

Le RSU sono quindi costrette a confermare

la rottura di ogni qualsivoglia relazione industriale.

La Direzione aziendale perde sempre più credibilità, anche alla luce delle voci di dimissioni da parte della D.G. a tutt’oggi non smentite, sia per la gestione dei rapporti con i lavoratori, sia per la gestione dell’organizzazione interna del lavoro, sia per la fallimentare implementazione del piano industriale (già di per sé discutibile).

Le RSU denunciano con forza il teatrino messo in piedi dal presidente Puksic che, usando l’Azienda per i propri fini personali, veicola risorse e mezzi verso attività inutili e al di fuori della mission aziendale.
Le iniziative che si sono accavallate in questi mesi, tutte di facciata (un inutile ed inutilizzato social network aziendale, i corsi sui social network, We Change Insiel, Internet Day, Totem, etc.….), mirano a buttare fumo negli occhi ai lavoratori distraendoli dai reali problemi aziendali:
  • Assenza di progettualità indipendente dalla proprietà Regione.
  • Mancanza di un piano formativo.
  • Disastrosa organizzazione interna del lavoro.
  • Perdita di Know How a seguito di un mancato passaggio di consegne.
  • Esternalizzazione dello sviluppo software, da sempre attività core di Insiel.
  • Mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo
 
Le RSU Insiel

mercoledì 27 aprile 2016

Lettera alla Presidenza della Regione

Il Piano Industriale Insiel 2014-2017 mediante il quale la Regione si prefigge l’obiettivo di rilanciare l’Azienda, considerata strategica e strumento indispensabile per mettere in atto le importanti riforme che ha predisposto per gli Enti Locali e la Sanità, suscita ancora parecchie perplessità e preoccupazioni nei lavoratori.

A metà del suo percorso non sono stati ancora definiti, in maniera chiara ed esaustiva, i prodotti e i servizi che fanno parte del core-business e si presume, visti l'indecisione e la mancanza di risposte della Direzione aziendale, che non ci sia una strategia definita che consenta tale operazione in tempi brevi.

A oggi l’unico punto del Piano Industriale messo in atto sembra essere quello relativo all'art.4 della Legge Fornero con i trentadue pre-pensionamenti del 2015, senza peraltro aver predisposto un adeguato ed efficace piano di passaggio di consegne.

Ciò è causa di un evidente impoverimento del know-how aziendale e rischia di produrre rilevanti problemi sulla continuità dell’erogazione dei servizi in essere e di mettere in serio pericolo la buona riuscita dei servizi a sostegno delle riforme strategiche Regionali.

In questo quadro di depauperamento di competenze tecniche, l'Azienda fa apparire come inevitabile il ricorso a esternalizzazioni, che oltre ad essere onerose, non garantiscono risultati soddisfacenti nell'erogazione e nella qualità dei servizi, come già verificatosi in diverse occasioni.

Le esternalizzazioni, con affidamento ad aziende terze, della realizzazione dei prodotti sottostanti ai servizi, drenano risorse economiche dirottandole da Insiel ad aziende che spesso non operano sul territorio e non danno garanzie sulla gestione post-realizzazione dei servizi, accollando ad Insiel gli oneri e tenendosi per sé i profitti e il know how.

Non è stato presentato alcun progetto di riqualificazione del personale e gli unici progetti formativi riguardano l’uso dei social network, sicurezza dati e qualche corso limitatamente ad alcuni profili professionali.

Questa situazione sta portando ad un impoverimento dell’offerta di Insiel a tutto vantaggio di soggetti terzi concorrenti, con possibili pericolosissime ricadute sui livelli occupazionali aziendali. Una simile prospettiva è negativa non soltanto per l'Azienda e i suoi lavoratori, ma darà un’immagine negativa a tutta la Regione che dovrà rinunciare a una delle più importanti aziende nel campo dell'ICT.

Una strategia regionale che non può che destare perplessità e malumori nei lavoratori che ritengono più opportuno un vero rilancio dell'azienda con il recupero delle competenze tecniche e di know how disperse anche nelle precedenti sciagurate amministrazioni.

I lavoratori di Insiel riuniti in assemblea il 13 aprile 2016, condividendo tutto quanto sopra espresso, chiedono attraverso i loro rappresentanti sindacali che sia richiesta alla proprietà REGIONE FVG una verifica puntuale dell’attuazione del Piano Industriale e che siano chiariti percorsi e strategie regionali riguardo all’azienda Insiel.

I lavoratori altresì chiedono che venga rilanciata seriamente l’occupazione in Insiel con una forte opera di inserimento di nuovi profili nella società (che vada aldilà del turnover 1:2 previsto con la legge Fornero  che recenti interviste dei vertici aziendali danno per acquisito, sia in uscita che in entrata, ma che ad oggi, nei numeri, risulta ben lungi dall’essere realizzato) che possano apportare le energie per fare di Insiel il motore digitale del territorio e l’azienda leader nella PA.

In attesa di un vostro riscontro, si porgono
Cordiali Saluti.

RSU Insiel di Trieste e Udine

mercoledì 9 marzo 2016

L'ATTO DEL LAVORO: IL (MAGRO) BILANCIO DI UN ANNO DI INTERVENTI RENZIANI, E I LORO VERI OBIETTIVI

Premessa: quello che state per leggere è il nostro quarto o quinto contributo sul Jobs Act. Se la nostra è un'ossessione, lo è in misura speculare a quella del governo e dei suoi megafoni ambulanti che, nel corso dell'ultimo anno, ci hanno quasi quotidianamente edotto sui prodigiosi effetti delle politiche governative sul lavoro.
Arriviamo buoni ultimi a rivelarvi che, in realtà, di prodigi se ne sono visti pochi: ma l'ansia da prestazione dell'apparato di governo su questi temi è di per sé rivelatrice del fatto che l'attacco al mondo del lavoro non può essere oggetto di alcuna critica. Il complesso di interventi volti a rendere più incerta la continuità lavorativa, minore e più precario il salario non consentivano critiche di alcun tipo: la realtà, però, è più forte di ogni rappresentazione, anche di quella di chi controlla le leve del potere politico e influenza paurosamente il potere mediatico.
Nota di metodo: ascriveremo alla categoria Jobs Act molte cose diverse: gli esoneri contributivi stabiliti dalla legge di stabilità 2015; i decreti che costituiscono il Jobs Act vero e proprio (decreti Poletti del 2014, contratto a tutele crescenti, demansionamento e controllo a distanza); l'estensione della possibilità di utilizzo dei voucher. Faremo questa mescolanza perché, al di là delle differenze tecniche tra i provvedimenti, ci interessa cogliere il nesso politico dietro tutta l'azione governativa sul lavoro, in un contesto, quello italiano, che non sembra proprio intenzionato a voler uscire dalla crisi (ammesso che qualcun altro ci sia effettivamente riuscito).
AGGIORNAMENTO 6 MARZO 2016: Nota sulle fonti
I dati che sono stati utilizzati per questo documento sono presi, essenzialmente, dall'Osservatorio sul Precariato dell'INPS e dal database dell'ISTAT. In particolare, quelli relativi all'incremento occupazionale 2015 e alla sua composizione sono tratti dal comunicato stampa ISTAT del 2 Febbraio 2016, reperibile qui. L'Istat ha, successivamente, aggiornato tutte le serie storiche relative all'occupazione, in seguito ad un'innovazione metodologica relativa alla destagionalizzazione dei dati. I cambiamenti non sono pochi, nè di scarso peso: per fare solo un esempio, il dato relativo all'incremento occupazionale 2015, che ammontava a +109.000 unità secondo il vecchio metodo, è “improvvisamente” diventato +163.606. Non avendo la possibilità di verificare di nuovo, e in breve tempo, tutti I dati, ci attestiamo su quelli che l'Istat forniva fino al mese scorso. Non possiamo fare a meno di notare, però, che la procedura seguita dal nostro istituto di statistica è poco rigorosa e piuttosto “bizzarra”, quantomeno dal punto di vista comunicativo. Del resto questo improvviso aumento di circa un terzo dei posti di lavoro in più per il 2015 – che ai malpensanti potrebbe far nascere più di un sospetto – è in scia con quanto è accaduto, ad esempio, in Grecia, Spagna e Portogallo negli anni scorsi; o con quanto è accaduto con I dati sulle migrazioni forniti da Frontex; dati che cambiano all'improvviso e che dimostrano, anche presupponendo la buona fede di chi li fornisce, il carattere profondamente politico, e quindi ideologicamente orientato, della raccolta ed elaborazione statistica di dati, sulla quale poi si fanno, o si giustificano, le scelte dei governi.


1. Spazziamo il campo dalla falsa propaganda: il Jobs Act è stato un flop (a caro prezzo)

Vi chiediamo un momento di pazienza prima di iniziare. Vi sembrerà di essere sommersi da un mare di numeri contraddittori e incomprensibili, e di perdervi, ma state tranquilli: ne usciremo vivi.
Le fonti utilizzate sono, come abbiamo detto, il bollettino mensile dell'Osservatorio sul Precariato dell'INPS e le rilevazioni statistiche dell'ISTAT.
Qual è la differenza tra le due fonti? L'INPS analizza i flussi, cioè l'andamento mensile delle attivazioni e delle cessazioni di contratti; l'ISTAT lo stock, cioè il saldo finale degli occupati, il suo incremento o decremento.
Non è la stessa cosa, un nuovo contratto o un nuovo posto di lavoro? No. Una stessa persona può essere intestataria di più contratti, contemporaneamente – due part-time, per esempio – o successivamente: ad un solo posto di lavoro possono corrispondere più contratti. Un altro esempio – è successo nel 2015 – è che un lavoratore, formalmente “autonomo”, diventa dipendente: quel lavoratore già era presente nel mercato del lavoro, quindi al nuovo contratto non corrisponde automaticamente un nuovo posto.
Che cosa ha fatto la propaganda governativa, a partire dall'inizio del 2015? Ha usato sistematicamente i dati INPS, cioè quelli sui contratti, e li ha spacciati per posti di lavoro (con la supina, pigra e colpevole complicità della quasi totalità della stampa nazionale); non solo, per cantare le lodi del Jobs Act il governo è arrivato addirittura a presentare come “crescita dell'occupazione” il dato lordo sui nuovi contratti attivati, senza calcolare le contemporanee cessazioni. Hanno imbrogliato spudoratamente e goffamente, per un anno intero.
La realtà, ovviamente, è diversa.


continua < QUI >


fonte : 
http://clashcityworkers.org
6 marzo 2016 

giovedì 17 dicembre 2015

Comunicato relativo al meeting aziendale

NESSUNO REMA CONTRO IL CAMBIAMENTO
ECCO LE PRIORITÀ

CAMBIAMO modo di lavorare
con interventi pianificati e non in perenne emergenza

CAMBIAMO il tipo di formazione
Deve essere tecnica e diffusa per rispondere ai continui aggiornamenti tecnologici

AFFIANCHIAMO i giovani ai colleghi più esperti
sì alla condivisione del know how

RINNOVIAMO il rapporto con le persone che LAVORANO in Regione
A richieste chiare e precise risposte tecniche e puntuali

TRASFORMIAMO il sistema premiante
Il premio al valore del GRUPPO non solo alla persona di riferimento

Le RSU FIOM Insiel Trieste

mercoledì 11 novembre 2015

NOTE CRITICHE SULLA PIATTAFORMA FIOM

Punto per punto, alcune riflessioni su quel che non va della Piattaforma FIOM 2016, tralasciando per lo più quel che altri hanno già detto.

di Lorenzo Mortara


Nuovismo – La prima cosa che colpisce della PIATTAFORMA FIOM per il RINNOVO del CONTRATTO DEI METALMECCANICI 2016, è la voglia di novità e di sperimentazione contrattuale. Tutto il preambolo è un unico peana in onore del rinnovamento. Peccato che anche Federmeccanica, non parli d’altro che di rinnovare l’assetto contrattuale. Questo vizio di ammiccare alla controparte con le stesse parole, ben sapendo che le lingue sono diverse, ha già prodotto disastri nel recente passato. Chi non ricorda che Landini fu il primo ad aprire a Renzi? Il metodo era lo stesso: il Berluschino del PD voleva cambiare l’Italia, e anch’io, disse il nostro Leader, lo voglio, perché nessuno più dei lavoratori vuole cambiare questo Paese. Sperava così di diventarne un interlocutore privilegiato. Divenne solo un giocattolo nelle sue mani. Possibile che dobbiamo fare un’altra volta la figura dei fessi? Così come Renzi vuole cambiare in peggio il Paese, e Landini in meglio, almeno per i lavoratori, alla stessa maniera l’innovazione contrattuale di Federmeccanica è lo smantellamento del Contratto Nazionale, l’innovazione della Fiom è invece il suo rafforzamento. Sono due cose opposte e inconciliabili, perché quando due discorsi vaghi e generici sul rinnovamento contrattuale si incontrano, tra i due prevale sempre quello più forte. Esattamente come l’apertura a Renzi sul cambiamento del Paese, non ha sortito altro che l’uso strumentale di Landini come copertura delle sue politiche antioperaie. La colpa non è di Renzi, ma di Landini che l’ha continuamente promosso, portandolo in palma di mano per un paio di mesi, anziché smascherarlo subito senza pietà. La Piattaforma ripete lo stesso errore col profondo rinnovamento contrattuale…

 

mercoledì 28 ottobre 2015

La dottrina del Jobs Act e il deserto dei diritti


di Domenico Tambasco

Proprio centodieci anni fa, di questi tempi, la Corte Suprema statunitense nella causa Lochner contro New York dichiarava incostituzionale la “limitazione” a dieci ore lavorative giornaliere (ovvero 60 ore settimanali) introdotta dallo Stato di New York a favore dei dipendenti dei panifici. Nella motivazione di tale provvedimento, è dato leggere che “la norma priva queste persone della libertà di lavorare finché lo desiderano”[1].

Una sentenza analoga desterebbe oggi ilarità e stupore; eppure, nell’era del Jobs Act si considerano con serietà le affermazioni di uno degli ispiratori delle moderne “riforme del lavoro”, Pietro Ichino, che nel brandire il vessillo della “protezione nel mercato del lavoro e non dal mercato del lavoro”[2] e nell’auspicare un regime nel quale il licenziamento “è considerato come evento appartenente alla normale fisiologia della vita aziendale, in qualche misura utile anche alle stesse persone che lavorano”[3], afferma perentoriamente che “non c’è legge o contratto collettivo, non c’è giudice, o ispettore, o sindacalista, che possano assicurare a una persona che vive del suo lavoro la libertà e la dignità che le è data dalla possibilità di andarsene sbattendo la porta dall’azienda dove è trattata male, perché sa dove trovarne un’altra dove la trattano meglio. Un mercato del lavoro fluido e innervato da buoni servizi per l’incontro fra domanda e offerta può fare molto di più, per la dignità e libertà dei lavoratori, di quanto possa la Gazzetta Ufficiale”[4].

A parte il secolo di distanza, tra i principi sanciti dalla Corte Suprema e le tesi espresse da Ichino non c’è proprio nessuna differenza: la “libertà di lavorare finché lo si desidera” e la “libertà di andarsene via sbattendo la porta” sono pure mistificazioni, nello stile della neolingua orwelliana[5], costruite ad arte allo scopo di isolare il lavoratore e il suo prodotto, il lavoro, abbandonandoli alle leggi di mercato. Un vecchio schema distruttivo, già collaudato nei decenni del primo liberismo e del laissez faire, che risponde all’applicazione del principio della libertà di contratto[6], ovverosia un ritorno all’infanzia del diritto del lavoro, dove lavoratore e datore di lavoro erano parti accomunate dall’astratta ed apparente eguaglianza in un contratto di scambio[7].

Dinanzi alla “dottrina” del Jobs Act, si staglia tuttavia la cruda realtà del mercato del lavoro: la costitutiva, connaturale disparità di potere economico che da sempre caratterizza i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro ed un immane esercito industriale di riserva, rappresentato da una massa di disoccupati e da “un vasto sistema legale di occupazioni con contratti di breve durata, a tempo parziale, in affitto, pagate al di sotto della soglia di povertà”[8].

Al deserto dei diritti sul lavoro, perfezionato dalla recente liberalizzazione dei licenziamenti anche nei contratti a tempo indeterminato e dalla legittimazione dei demansionamenti, fanno da controcanto le misere compensazioni nel mercato del lavoro, costituite dall’aumento dell’indennità di disoccupazione e da qualche voucher, senza tuttavia alcun serio ricorso a misure doverose (e diffuse in quasi tutta Europa) di reddito minimo garantito: i jobcentre dell’esperienza tedesca o inglese sono solo un miraggio[9].

Quale libertà di scelta potrà mai avere l’impiegato cinquantenne licenziato dall’oggi al domani? Quale libertà di definire la propria retribuzione potrà avere il lavoratore di fronte ad aziende che, con migliaia di “lavoratori poveri” alle porte, fanno del contenimento del costo del lavoro il proprio “cavallo di battaglia”? Quale employability[10] sul mercato del lavoro (per utilizzare gli anglicismi cari alla neolingua del Jobs Act) potrà mai vantare il lavoratore ora “liberamente” demansionato per anni a seguito di una decisione unilaterale del datore?

Parlare di libertà del lavoratore nel mercato del lavoro in questo scenario, dunque, è come gettare una persona nel mare in burrasca, rassicurandola che è libera di nuotare per salvarsi.

E allora è proprio il caso di chiamare le cose con il loro nome, tornando all’epoca in cui abbiamo trovato la sentenza della Corte Suprema, e seguendo l’opposto discorso di un personaggio animato dalla penna di un altro statunitense, Jack London, le cui parole paiono ancora tanto attuali: “Quando parlava dell’uguaglianza delle probabilità per tutti, alludeva alla facoltà di spremere guadagni......desiderate l’occasione per spogliare i vostri simili uno alla volta e vi suggestionate al punto di credere che volete la libertà…...trasformate il desiderio di guadagno, che è puro e semplice egoismo, in sollecitudine altruistica per l’umanità sofferente…….la parola libertà, nel caso vostro, significa ricavare profitti dagli altri[11].



fonte
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-dottrina-del-jobs-act-e-il-deserto-dei-diritti/


[1] La sentenza del 1905 è citata da Ha-Joon Chang in Economia, istruzioni per l’uso, Milano, Il Saggiatore, 2015, p. 334, come esempio della logica economica liberista in materia di lavoro.
[2] P. Ichino, Il lavoro ritrovato, Rizzoli, Milano, 2015, p. 69.
[3] P. Ichino, cit., p. 71.
[4] P. Ichino, cit., p. 85.
[5] La neolingua del Jobs Act, Micromega, 11 marzo 2015.
[6] Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, ed. 2010, p. 210.
[7] Maria Vittoria Ballestrero, Il lavoro e l’eguaglianza nel deserto dei diritti, in La vocazione civile del giurista – saggi dedicati a Stefano Rodotà, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 166-167.
[8] Luciano Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Torino, Einaudi, 2015, p. 119.
[9] Si rimanda alla completa trattazione di G. Perazzoli, Contro la miseria, Roma-Bari, Laterza, 2014.
[10] Traducibile con il termine “occupabilità”.
[11] Si tratta del discorso di Ernest nel capitolo “I distruttori della macchina” del romanzo di Jack London, Il tallone di ferro, 1907, ed. 2014, Feltrinelli, Milano, pp. 105 e 109.