sabato 26 novembre 2011

Cremaschi: Ecco perché quello di Fiat è fascismo aziendale

Vorrei rispondere alle critiche che ho ricevuto per aver usato la definizione fascismo aziendale per quello che oggi sta facendo la Fiat di Marchionne.
Partiamo dai fatti. Dopo la svolta di un anno e mezzo fa, quando l’amministratore delegato del gruppo lanciò il suo diktat agli operai di Pomigliano, l’aggressione al diritto dei lavoratori si è estesa a valanga nel Paese. Altro che eccezione, come disse allora il segretario del partito democratico. Il ricatto Fiat («O rinunci ai diritti o non lavori») è diventato il leit motiv che ha guidato la più grave offensiva contro i contratti, i diritti, le leggi a tutela del lavoro dal ’45 a oggi. Il sistema Pomigliano si è prima esteso a tutto il sistema Fiat e poi è diventato un modello per tutte le relazioni sindacali. L’arroganza e lo strapotere della casta dei top manager ha perso ogni senso della misura.
Cito qui, tra tanti episodi, il vergognoso licenziamento di Riccardo Antonini deciso dall’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Licenziamento avvenuto perché questo ferroviere è tecnico di parte civile per le famiglie vittime della strage di Viareggio. Il dovere della fedeltà, costi quel che costi, al capo dell’azienda e ai suoi principi è diventato la costituzione formale che ha sostituito in tanti luoghi di lavoro i principi della costituzione repubblicana.
Con l’accordo interconfederale del 28 giugno il principio delle deroghe al contratto nazionale è stato accettato da tutti i sindacati compresa la Cgil e con l’articolo 8 del decreto sulla crisi, voluto da Sacconi, si è persino stabilita la facoltà per le imprese prepotenti (e per i sindacati venduti ad esse) di non applicare più la legge dello Stato, a partire dalla tutela contro i licenziamenti.
Il dilagare del modello Marchionne ha comportato un giro di vite terribile sulle libertà dei lavoratori. Anche chi non usa quegli strumenti esplicitamente, li utilizza come minaccia. Se consideriamo che già una parte del mondo del lavoro, quello con contratti precari, è sottoposto al supersfruttamento, comprendiamo come l’attacco alla dignità delle lavoratrici e dei lavoratori sia diventato una costante comune ovunque.
In Fiat a tutto questo si aggiunge un sistema persecutorio meticoloso e raffinato, indagini sul pensiero e sui sentimenti dei dipendenti che vanno persino a rovistare su facebook. Un clima di intimidazione e di attacco alle libertà personali che si traduce nella consapevolezza che ogni lavoratore ha di essere sottoposto a un regime speciale.
I licenziamenti politici, come quelli avvenuti a Melfi, l’autoritarismo continuo, l’oppressione sul lavoro resa ancora più forte dal fatto che si continuano a chiudere fabbriche, tutto questo non è ancora fascismo.
Nel suo bellissimo ultimo romanzo “One big union” Valerio Evangelisti ci racconta le terribili lotte e le violentissime persecuzioni che subì il movimento operaio americano alla fine dell’ottocento. Marchionne e la casta manageriale che ragiona e si comporta come lui vengono da quella cultura. Da quelle campagne antisindacali fondate sulla liquidazione di chi si oppone ai voleri dell’azienda e sulla costruzione sapiente di sindacati servili per il padrone e inutili per i lavoratori. La storia della Fiat affonda in queste radici americane. Quelle che fecero sì che il presidente Roosevelt, negli anni Trenta considerasse Henry Ford un padrone autoritario da contrastare e combattere in tutti i modi.
Si può quindi definire la politica di Marchionne come una politica autoritaria, aziendalista e reazionaria, distruttrice di posti di lavoro e di diritti, senza utilizzare il termine fascismo. Perché allora l’ho usato? Perché con l’ultima decisione, quella di applicare dal 1° gennaio il contratto Fiat a tutti gli stabilimenti del gruppo, sia dell’auto che degli altri settori, l’azienda compie un passo in più.
Negli anni Cinquanta il capo della Fiat, Vittorio Valletta, usò tutte le politiche antisindacali e autoritarie, tutti gli strumenti della repressione allora conosciuti. Si fermò però di fronte ad una soglia: non abolì mai le elezioni delle commissioni interne. Anche nei periodi più bui della persecuzione della Fiom e dei comunisti e dei socialisti in fabbrica, i lavoratori periodicamente votavano per eleggere i propri rappresentanti. Marchionne ha invece abolito le elezioni. Dal 1° gennaio 2012 i lavoratori Fiat avranno solo sindacalisti nominati dall’alto, con il gradimento dell’azienda, le elezioni delle Rsu sono formalmente abolite.
C’è un solo precedente nella storia del nostro Paese che possa essere citato. Il 2 ottobre 1925, presidente del consiglio Benito Mussolini, la Confindustria e i sindacati corporativi e fascisti si accordarono per riconoscersi reciprocamente l’esclusiva nella rappresentanza sindacale. E conseguentemente abolirono le elezioni delle commissioni interne.
In un Paese ove è stata condotta una grande e giusta campagna contro i parlamentari nominati, e che però oggi subisce un governo nominato, non c’è da stupirsi se la cancellazione della democrazia formale negli stabilimenti Fiat passi sotto silenzio. Purtroppo verifichiamo ogni giorno che quando si parla di economia non c’è più la democrazia e che i principi brutali annunciati un anno e mezzo fa da Marchionne si stanno estendendo dalla fabbrica a tutta la società e a tutte le istituzioni. Per questo ho usato questo termine.
Marchionne ha dichiarato che la disdetta di tutti i contratti per imporre un nuovo sistema senza alcuna libertà formale per i lavoratori costituisce una semplice scelta tecnica. Tecnicamente è fascismo aziendale. La definizione è un po’ forte, si capisce chi la critica ricordando che il fascismo è stato qualcosa di ben altro e di ben più terribile. Tuttavia io penso che debba essere usata e urlata per forare il muro dell’indifferenza e della complicità che sta coprendo il massacro delle libertà fondamentali in Fiat. In Fiat soltanto? Un’altra eccezione? Non credo proprio.

martedì 22 novembre 2011

Si riparte dal no al governo Monti

Marco Revelli sostiene che occorre di nuovo "baciare il rospo". Non sono d'accordo. Monti gestirà un programma durissimo. Si può lavorare per costruire un'ampia opposizione sociale e politica

Mi dispiace tanto, ma questa volta non sono proprio d’accordo con il mio amico Marco Revelli. In tutti questi anni ci siamo sempre trovati dalla stessa parte. Questa volta no. Io non bacio il rospo e mi preparo a fare tutto quel che mi è possibile per mandarlo via.
Confesso che non sono sceso in piazza con la bandiera tricolore per festeggiare la caduta di Berlusconi. Ho passato questi ultimi 17 anni a combattere Berlusconi, la sua cultura, le sue prepotenze. Prima ho fatto lo stesso con il suo maestro Craxi. Eppure la sera del 12 novembre non l’ho sentita come una liberazione. I paragoni storici che si stanno facendo mi paiono fuorvianti. Come Marco Revelli non vedo nessun 25 aprile in atto. Non mi risulta che il governo di allora fosse di larghe intese tra Cln e Repubblica sociale. Ma non vedo nemmeno un chiaro 25 luglio, se non per l’annuncio del governo Badoglio: “la guerra continua”. 
Se proprio si deve ricorrere ai paragoni storici, bisogna tornare all’Europa del 1914. Al suicidio di un continente nel nome della guerra e del nazionalismo, e alla corrispondente dissoluzione di gran parte della sinistra socialdemocratica e dei sindacati. Oggi per fortuna non siamo (ancora?) a quel punto ma è sicuramente in atto un suicidio e una dissoluzione dell’Europa e della sinistra in essa. La guerra del debito, scatenata in tutto il continente, sta mettendo in crisi democrazia e conquiste sociali. Tutti i governi europei sono soggetti alle stesse scelte e agli stessi indirizzi economici. Poi, benignamente, questa tirannia finanziaria ci concede la facoltà di accettarla. Ma non si può dire di no. Il governo Greco è stato destituito perché voleva fare un referendum. In Italia le elezioni politiche immediate farebbero salire lo spread e quindi non si fanno. 
A me tutto è più chiaro da un anno e mezzo, da quando Marchionne disse agli operai di Pomigliano che se volevano lavorare nell’epoca della globalizzazione, dovevano rinunciare a tutti i loro diritti. E aggiunse che potevano solo votare sì al referendum sul suo diktat, perché il no avrebbe comportato la distruzione dell’azienda. Marchionne, fino a poco tempo prima incensato come borghese illuminato, così come oggi Monti, ottenne il consenso pressoché unanime del parlamento italiano. 
Il governo Monti è espressione diretta del grande capitale italiano e internazionale, con suoi intellettuali organici di valore. E’ la prima volta che questo avviene nella storia della nostra repubblica ed è sicuramente un segno della crisi totale della classe politica. In questi venti anni il padronato italiano ha alternato politiche di rottura populista e politiche di concertazione democratica. L’obiettivo era sempre lo stesso, contenere il salario ed estendere flessibilità e precarietà, allargare la sfera del profitto con le privatizzazioni. Quando le condizioni lo permettevano e si sentiva particolarmente forte, il padronato italiano ricorreva a Berlusconi  e alla destra. Se la risposta sociale e politica cresceva, allora si tornava alla concertazione. Quest’ultima ammorbidiva le scelte, le rallentava, ma non ne fermava la direzione di fondo.
La novità è che oggi il sistema economico dominante salta qualsiasi mediazione politica, non si fida più non solo di Berlusconi, ma anche dell’opposizione e decide di agire in proprio. Altro che governo tecnico, questo è uno dei più politici e ideologici tra i governi della repubblica. E’ il governo che più nettamente sposa l’ideologia neoliberale. 
La crisi economica mondiale ha travolto la ridicola classe politica italiana, così come è toccato ad altre del continente. Non bisogna credere ai complotti, anche se oggi la stampa annuncia un programma segreto della Germania per controllare le economie in crisi. Sarà quindi un puro caso, ma tutti i paesi piigs sono stati posti rapidamente sotto controllo. Se si fossero messi assieme, se avessero fatto una comune politica del debito, come a un certo punto i paesi dell’America Latina, banche tedesche e Fondo monetario internazionale sarebbero dovuti venire a patti. La ridicola classe politica europea è invece stata facilmente travolta e commissariata. 
Anche a me fa piacere la sobrietà e lo stile del nuovo governo, contrapposto ai nani e alle ballerine, ai bordelli, alle barzellette che facevano piangere, al degrado culturale e civile che ispirava quello precedente. Tuttavia la mia esperienza sindacale mi ha insegnato che il padrone per bene, quello che dice “siamo tutti nella stessa barca tutti dobbiamo fare gli stessi sacrifici”, può farti molto più male del padrone sfacciato e impresentabile. 
Questo governo ha un mandato chiaro, quello della Bce. E’ il mandato di quel capitalismo internazionale che pensa di affrontare la sua stessa crisi con riforme neoliberali, come negli ultimi trent’anni. Con la solita ipocrisia dell’equità e del rigore, si mettono in discussione ancora una volta i diritti pensionistici dei lavoratori, la tutela contro i licenziamenti, i diritti contrattuali, i diritti punto e basta. Si risponde al referendum sull’acqua con le privatizzazioni e si annuncia quella mostruosità giuridica ed economica del pareggio di bilancio in Costituzione. Si risponde agli studenti in sciopero esaltando la riforma Gelmini. Sì, certo, la sobrietà del governo produrrà dei contentini. Un po’ di privilegi di casta politica verranno tagliati, ma solo per giustificare i sacrifici sociali. Si annuncia che non ci sarà massacro sociale. Ma questo è già in atto. E’ la crisi, è la recessione che stanno producendo una drammatica selezione sociale. Il governo può anche non volere il massacro, ma se opera con riforme neoliberali lo agevola e lo accresce.
E’ la ricetta neoliberista che è destinata a fallire. Perché non si riuscirà, per quanti sacrifici si impongano, a far ripartire il meccanismo della globalizzazione. Per questo sarebbe necessario prima di tutto prendere atto della crisi di sistema, cosa che Monti nella sua relazione programmatica si è ben guardato dal fare. E costruire una vera alternativa. Il debito non può essere pagato da un’economia in recessione, pretendere di farlo a tutti i costi significa aggravare la recessione e appesantire il debito. E’ successo alla Grecia e succederà all’Italia, nonostante la professionalità di Monti.
Bisogna partire dall’opposizione al nuovo governo per costruire un’alternativa economica, sociale e politica al programma della Bce e del capitalismo internazionale. Sarà dura, ma si riparte dal no a questo governo. 

Giorgio Cremaschi (Il Manifesto 22 novembre 2011)

lunedì 21 novembre 2011

Giorgio Cremaschi: "Contro il fascismo Fiat fatti, non parole”

Un anno e mezzo fa a Pomigliano Marchionne per la prima volta imponeva il suo diktat.
Allora in tanti dissero che quella era un’eccezione. Oggi quell’eccezione è diventata la distruzione del contratto nazionale e la negazione delle più elementari libertà per i lavoratori.
Quello della Fiat è un sostanziale fascismo, perché non solo si vogliono imporre condizioni di supersfruttamento ai lavoratori, ma si vuole anche impedire ad essi la libera azione sindacale e persino il libero voto per le proprie rappresentanze. Nemmeno negli anni Cinquanta la Fiat si sognò di abolire le elezioni delle Commissioni interne. Oggi Marchionne stabilisce un sistema extracostituzionale ed extralegale che cancella per i lavoratori Fiat le libertà costituzionali.
Non è più il tempo delle parole o dei timidi distinguo. Ognuno è chiamato a dire da che parte sta. In primo luogo chiediamo una rigorosa autocritica a chi, dicendosi di sinistra e per la democrazia come i sindaci di Torino e Firenze, ha sinora appoggiato l’autoritarismo di Marchionne. Il governo, a sua volta, ha uno strumento molto semplice per dimostrare che non è d’accordo con la Fiat: mettere in mora e abolire l’articolo 8 della manovra del precedente governo. Senza quell’articolo l’operazione di Marchionne è priva di qualsiasi sostegno giuridico. Se questo non verrà fatto vorrà dire che il governo sostiene nei fatti l’azione della Fiat.
Il tempo delle parole è finito, se si vuole fermare il dilagare del fascismo aziendale dalla Fiat a tutto il paese, è il momento di fatti nudi e crudi.

domenica 20 novembre 2011

Se il capitalismo divorzia dalla democrazia

Mi è capitato di partecipare a uno di quei talk show televisivi ove la confusione è programmata per fare audience. Lì ho sentito Massimo Cacciari affermare con fastidio che, di fronte al fallimento della democrazia degli stati, è persino ovvio accettare le necessità imposte dall’economia globale. Tale terribile affermazione è scivolata via e questo mi ha convinto che, dopo il postmoderno ed il postfordismo, è il momento della postdemocrazia. Tanti intellettuali di sinistra hanno così accettato lo stato di necessità alla base della costituzione del governo Monti. Tutte le munizioni della critica si sono esaurite nella lotta contro Berlusconi?
La devastazione sociale e culturale di questi 20 anni è stata terribile, così come lo è stato il logoramento della democrazia, ridotta sempre più al pronunciamento popolare su un capo a cui affidare tutto. Mentre azienda e politica, mercato e potere si intrecciavano sempre di più. Berlusconi, che oggi lamenta una democrazia sospesa, è vittima dei meccanismi che ha costruito: il degrado del paese alla fine si è concentrato sulla figura del suo capo.
Pochi mesi fa Alberto Asor Rosa auspicò una deposizione dall’alto di Berlusconi. E questa alla fine c’è stata per opera di quella superiore autorità che è oggi il mercato finanziario internazionale. Non illudiamoci, non siamo stati noi che abbiamo tanto lottato alla fine a far cadere il governo, ma lo spread. Come è toccato alla Grecia, anche l’Italia è stata commissariata. Il ruolo del Presidente della Repubblica, la pacificazione nazionale vengono dopo questa presa di potere da parte mercati internazionali.
I partiti si erano già arresi da tempo. Lo si era capito già un anno e mezzo fa quando Sergio Marchionne impose agli operai di Pomigliano di rinunciare a tutti i diritti pur di lavorare. Marchionne, come Monti, si è presentato in veste austera e con la fama di borghese illuminato, e ha imposto le scelte più feroci come stato di necessità di fronte alla globalizzazione. E il 95% del Parlamento lo ha sostenuto.
Allora Marco Revelli si scagliò con passione e intelligenza contro la FIAT e chi l’appoggiava. Oggi si schiera a favore dell’inevitabile necessità del governo Monti, che pure Marchionne ha sostenuto e difeso. Certo il governo non è un amministratore delegato, anche se questo governo tecnico è ciò che ci somiglia di più. Il punto è che il programma di questo governo è esattamente la lettera della BCE, che a sua volta è il programma unificato che viene imposto a tutti i governi europei dal capitalismo internazionale.
Si sono utilizzati molti paragoni storici in questi giorni. Per me l’unico davvero calzante è quello con il 1914, quando l’Europa e la sinistra si suicidarono per fare la guerra. Oggi la guerra è la schiavitù del debito, che impone lo stesso stato di necessità, lo stesso appello all’unità di patria, la stessa ricerca di un consenso unanime. Se guardiamo in questi giorni il telegiornale a reti unificate che viene trasmesso dalle principali reti italiane, sembra già di essere in una informazione di guerra.
Basta la caduta di Berlusconi a far accettare tutto questo? Per me no. Il governo Monti, con intellettuali di valore, è espressione diretta di quella ideologia neoliberale che ha guidato la politica economica degli ultimi trent’anni. La crisi economica attuale, la crisi della globalizzazione sono proprio il frutto di quelle politiche, eppure il programma economico e sociale del governo propone un rilancio di esse, giustificato da dichiarazioni di equità e da qualche taglio alla casta politica.
Il programma del governo Monti è un classico programma di destra economica liberale e per questo fallirà. Non eviterà il massacro sociale per la semplice ragione che il massacro è già in atto e le politiche liberali non lo fermeranno, quando non lo agevoleranno. E’ il sistema che e’ andato in crisi e non lo si salva certo con l’ unita’ nazionale attorno alle politiche di sempre. La guerra del debito va fermata e non invece combattuta fino al disastro. Occorre una radicale svolta nelle politiche economiche in italia e in europa,a favore del pubblico del sociale, ci vuole una  drastica redistribuzione della ricchezza, altro che equità dei sacrifici  per rassicurare i mercati.
Il governo Monti fallirà nel suo obiettivo di fondo, rilanciare la crescita, e la crisi si aggraverà. A quel punto cosa succederà della nostra democrazia già posta sotto il vincolo della necessità?
Michele Salvati sul Corriere della Sera paragona Monti a un dictator romano, ma afferma che il suo compito è più difficile perché camera e senato dovranno approvare ogni sua iniziativa… Quali poteri speciali verranno reclamati allora per il governo, se le cose dovessero peggiorare e se la logica politica resterà la stessa? Dove ci fermeremo se ci fermeremo?
Il capitalismo occidentale sta divorziando dalla democrazia, se si vuole salvare la seconda bisogna mettere in discussione il primo. Superato Berlusconi resta in piedi tutto il meccanismo ideologico e di potere che l’ha portato al governo in questi anni.
Credo che questo sottovalutino alcuni amici intellettuali profondamente impegnati. Io penso essi non abbiano colto la dimensione della crisi e anche quella delle forze in campo. Essi sperano che il governo Monti ci dia una tregua nella quale riorganizzare le forze per una alternativa reale al berlusconismo. Ma si sbagliano, la tregua non ci sarà, ci sarà invece l’attacco all’articolo 18 e alle pensioni, ai bene comuni e alla scuola pubblica e non perché i nuovi governanti siano cattivi o prepotenti, ma perché questo è il loro mandato. No, questa tregua non ci sarà e per difendere la democrazia e cambiare davvero si dovrà partire dall’opposizione a questo governo e non dal consenso, seppure per necessità, ad esso.

Giorgio Cremaschi – da Liberazione

martedì 15 novembre 2011

Lettera del figlio di un operaio


Dal berlusconismo al bocconismo

Se, come pare, il prossimo governo Monti sarà composto dalle personalità apparse sui giornali, potremmo dire che l’Università Bocconi sarà andata al governo del paese.
La Bocconi non è soltanto una scuola di eccellenza, a pagamento, ma è anche una ideologia. La Bocconi è il centro della cultura e della proposta politica liberale e liberista. I bocconiani pensano che l’Italia abbia ancora troppi freni al libero sviluppo del mercato e che solo tagliando tutti i lacci e lacciuoli che frenano la crescita, questa potrà ripartire.
Non sappiamo quanto di questa ideologia si tradurrà in programma concreto, basta però leggere la lettera della Bce per capire che qui c’è la sostanza del governo Monti. La crescita nasce dai tagli e dai sacrifici. Che naturalmente dovranno essere più equi possibili, ma che sostanzialmente, per fare cassa, non potranno che colpire prima di tutto e più di tutto il lavoro dipendente e i redditi medi. Queste, del resto, sono le ricette che la Banca centrale europea ha applicato in Grecia, portando quel paese a una recessione senza ritorno. 
Qui però ci interessa sottolineare l’aspetto culturale. Per anni l’Italia è stata invasa dall’ideologia berlusconiana. Quel misto di populismo e ricerca dell’interesse personale a tutti i costi, che è stato alla base del berlusconismo. Oggi muore il berlusconismo, e gli succede un’ideologia di destra più austera, ma non meno pericolosa. Il bocconismo. 
C’è un solo aspetto positivo in tutto questo. Che i commentatori economici bocconiani che in questi giorni sono scatenati su tutti i mass-media con le loro ricette, non potranno sottrarsi più all’onere di essere nel governo. Essi sono oggi a Palazzo Chigi e troverei un po’ ridicolo per loro praticare una cultura politica di lotta e di governo. No, i bocconiani sono ora al governo e dovranno assumere tutte le responsabilità del disastro che le loro ricette provocheranno nel paese.
di Giorgio Cremaschi

sabato 12 novembre 2011

Governo Monti: dichiarazione di Giorgio Cremaschi, FIOM

Dalle prime indiscrezioni sui nomi che dovrebbero comporre la compagine del governo Monti, pare che si stia discutendo di persone più adatte al consiglio di amministrazione delle Assicurazioni Generali che al Governo della Repubblica. Se il governo Monti si farà davvero così e con il programma contenuto nella lettera della BCE, questo governo non si troverà di fronte solo un'opposizione leghista, ma anche un'opposizione di sinistra e sociale, che magari non è rappresentata in Parlamento ma c'è e ci sarà nel paese.

venerdì 11 novembre 2011

Bellavita (Fiom): “Netto dissenso nei confronti del comunicato della Segreteria Cgil a favore della formazione di un Governo di emergenza”

“Esprimo il mio netto dissenso nei confronti del comunicato con cui la Segreteria nazionale della Cgil ha preso posizione a favore della formazione di un Governo di emergenza. La Segreteria della Cgil non ha infatti nessun mandato per esprimere sostegno nei confronti di un Governo che avrebbe come unico obiettivo quello di attuare drastiche misure in materia economica e sociale. Ovvero le misure che sono state chieste a gran voce dai padroni, dalla Bce e dall’Unione Europea col pretesto del debito.”
“I lavoratori, i giovani, i pensionati e i precari sono creditori sociali. Bisogna lottare contro il pagamento del debito a chi trae profitto dalla crisi e a favore di una nuova politica economica e sociale.”

lunedì 7 novembre 2011

Piattaforma Fiom. Il 95,16 delle lavoratrici e dei lavoratori approva la piattaforma

Si è conclusa la consultazione sulla piattaforma Fiom per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici.
Su oltre 372.000 lavoratrici e lavoratori votanti, il 95,16% ha approvato la piattaforma.
I votanti sono stati nettamente superiori rispetto al numero complessivo degli iscritti alla Fiom che per la consultazione sull'accordo interconfederale del 28 giugno hanno votato in circa 137.000.
Molto alta è la percentuale del 61,47% dei votanti rispetto agli aventi diritto, superiore alla media delle consultazioni precedenti.
Vanno infine considerate le molte chiusure e le aziende coinvolte dalla cassa integrazione – soprattutto in grandi realtà – che, insieme all'assenza dell'ora di assemblea di organizzazione (già consumata), hanno reso impossibile il coinvolgimento di una platea più ampia.
Un valore particolare va attribuito al dato relativo al Gruppo Fiat dove, negli stabilimenti in cui è stato possibile, le lavoratrici e i lavoratori hanno partecipato massicciamente al voto, nonostante le scelte di Marchionne li abbiano esclusi dal contratto nazionale.

venerdì 4 novembre 2011

No agli ispettori del Fondo monetario internazionale, responsabile di crimini contro l’umanità

"Gli ispettori del Fondo monetario internazionale devono essere respinti dalla democrazia italiana, se questa esiste ancora. Il Fondo monetario internazionale con i suoi programmi di aggiustamento strutturale, è responsabile di veri e propri crimini contro l’umanità che hanno provocato fame e devastazione e che sono stati denunciati anche da numerosi economisti e premi nobel.
La democrazia italiana non può accettare che gli ispettori di questa squalificatissima organizzazione vengano a dettar legge sulle nostre scelte. Chiunque si pieghi ai diktat del Fondo monetario internazionale e dei suoi ispettori opera per distruggere la democrazia e la civiltà nel nostro Paese.
Verificheremo su questo i comportamenti e le dichiarazioni, sia del Governo sia dell’opposizione."

di Giorgio Cremaschi

giovedì 3 novembre 2011

No ai governi delle lettere sì al referendum

L’annuncio di un referendum in Grecia sul “fraterno aiuto” europeo ha avuto il grande pregio di squarciare i veli dell’ipocrisia e dimostrare che oggi il continente è governato con un regime autoritario che rigetta ogni forma di reale partecipazione. Diversi commentatori hanno infatti scritto: la Grecia è in guerra e sulle guerre non si fanno consultazioni.
In realtà il primo ministro Papandreu probabilmente ha concepito, per ricostruire il proprio consenso, un’operazione alla Marchionne su scala nazionale: imporre ai propri cittadini di votare sì sotto il ricatto della catastrofe economica e della fame. Ma nonostante queste intenzioni, che dovrebbero piacere ai vertici europei, il primo ministro greco non è stato capito, tutti i potenti d’Europa si sono scandalizzati e, di fronte alla sola ipotesi di un intervento dei cittadini nella gestione della crisi, le borse e i titoli del debito pubblico sono crollati.
Nel 1989 furono i popoli dell’Est a travolgere i regimi del socialismo reale. Allora nelle cancellerie occidentali si brindò per l’estendersi della democrazia in tutto il continente. Nel 2011 i pronunciamenti dei popoli europei fanno paura e si teme che qualsiasi atto di partecipazione democratica - un referendum ma anche solo uno sciopero come una manifestazione - possa far crollare il regime burocratico finanziario che governa il continente. Tra queste due date si dipana il fallimento del capitalismo liberista assieme a quello di una costruzione europea fondata sulla moneta, sulle banche, sul mercato selvaggio e sulla flessibilità del lavoro. L’unità dell’ Europa non esiste e nulla di quello che oggi si decide fa davvero riferimento ad essa. L’unità dell’ Europa è oggi uno specchietto per le allodole, un argomento di vuota retorica buono solo per coprire gli interessi reali delle fallimentari classi dirigenti del continente. Francia e Germania hanno in mente prima di tutto la tutela della propria finanza e delle proprie banche e  hanno la forza di chiedere il conto a tutti gli altri. I paesi più deboli, tra cui l’Italia, mendicano riconoscimenti e sostegni in competizione e in alternativa tra loro. Tutti sono uniti solo nel colpire i redditi e i diritti del mondo del lavoro. L’Europa democratica non c’è, al suo posto arranca una costruzione misera economicamente e moralmente che sta riproducendo le decisioni dei tempi di guerra. I governi di destra e la sinistra ad essi subalterna sottoscrivono i rispettivi crediti di guerra come avvenne nel tragico suicidio europeo del 1914. Per fortuna oggi non si spara, ma quegli impegni e quelle “riforme” che i governi sottoscrivono per salvare i profitti della finanza e delle banche colpiscono in maniera brutale tutti i diritti e le condizioni di vita dei popoli. Questo mentre un regime informativo embedded al seguito dei convogli bancari veicola un unico pensiero secondo il quale lo scopo della politica oggi dovrebbe essere prima di tutto quello di rassicurare i mercati.
L’Italia è solo un punto estremo della crisi della democrazia europea.
L’impresentabilità e i fallimenti del governo Berlusconi aggiungono costi ai costi. Il governo Berlusconi va cacciato, ma non per continuare a somministrare le stesse ricette di sempre. Questo rischio c’è tutto visto che il programma scritto nella lettera che il presidente del consiglio ha inviato in Europa sta diventando il testo di riferimento per tutti i prossimi governi. Non siamo d’accordo con il presidente della Repubblica quando, come ha fatto per la guerra in Libia, interviene esplicitamente nella gestione politica della crisi chiedendo coesione nazionale attorno a un governo che attui le misure richieste dalla lettera famigerata della Bce.
Il vincolo europeo dei patti di stabilità non può più essere accettato. 
Per uscire dalla crisi bisogna innanzitutto respingere la lettera della Bce e costruire una politica economica sociale e fiscale alternativa a quella proposta in quel testo. Bisogna, come afferma anche Guido Rossi sul Corriere della sera, ripartire dall’uguaglianza, cioè togliere ricchezza a chi ce l’ha e redistribuire reddito a favore prima di tutto dei salari. Bisogna allargare non diminuire la spesa pubblica. Bisogna nazionalizzare il sistema bancario invece che finanziarlo gratuitamente con i soldi dello stato sociale. 
Si torna così alla crisi politica italiana. Infatti ormai è chiaro che non solo il centrodestra, ma anche l’attuale centrosinistra sono inadeguati di fronte a questo disastro e non a caso si stanno scomponendo. Una riedizione degli schieramenti del 2006 ci consegnerebbe un centrosinistra magari vincente ma sostanzialmente succube alle banche e alla grande borghesia che hanno sfiduciato Berlusconi da destra. Sbaglia il Pdci di Diliberto a riproporre le scelte di cinque anni fa. O si sta con la Bce e allora si fa una politica di destra anche se ci si chiama in un altro modo, oppure ci si batte per il cambiamento sociale ed economico e allora si entra in conflitto immediato con i poteri che oggi governano l’Italia e l’Europa. 
E’ per questo che il referendum greco fa tanta paura. Ed è per questo che nell’assemblea del primo ottobre contro il debito abbiamo chiesto di poter votare anche in Italia. Bisogna riprendersi il diritto di decidere, come chiedono le piazze degli indignati che difendono davvero la democrazia.

di Giorgio Cremaschi [Articolo su Liberazione del 3 novembre 2011]