Non è un problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze
ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni
fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano
«Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso
conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al
milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati
all'esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel
raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle
250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così
come quei 20 miliardi di euro d'investimenti in Italia (i due terzi
dell'intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio
d'indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e
trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.
Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I
pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo
scrissero, non lo fecero perché «ideologicamente» ostili alla Fiat, o
all'«impresa», o al «capitale». Se gli uomini della Fiom, unica
organizzazione nell'intero panorama sindacale, capirono al volo che
quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne - sacrifici operai
subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola mortale, non
lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché,
appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di
fabbrica, spalla a spalla con altri uomini e donne con cui
condividevano difficoltà, sentimenti e interessi.
Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una questione di «antropologia»:
nella materialità di una condizione umana e di un sistema di relazioni
su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse
culturale». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale
l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'AD Sergio Marchionne, svizzero
fiscalmente, americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo
sono i variopinti eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti
cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure ormai abissalmente
distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo e anche del secondo
capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente
distruttore», calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e
irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i
nuovi manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui
parola vale l'éspace d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta
(«Siamo qui. Anzi io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per
l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio Mauro nell'intervista pubblicata
proprio ieri da Repubblica, erettasi per l'occasione a informale
tramite tra Impresa e Governo). Marchionne non è un imprenditore in
senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i
tedeschi, come la Volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e
veleggia verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7
miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati
dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la
tecnologia Fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno
di Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato
europeo mai registrata (la Fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in
compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la classifica della
redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del 33%»!
CONTINUA|PAGINA3 Vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui
manager globalizzati di ultima generazione nel suo ultimo volume su La
cultura del nuovo capitalismo: gente che vive strutturalmente - in
forza della distanza abissale, di reddito e di stile di vita, che li
separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione tra
guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati
nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e
a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e
pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri.
Quelli che dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli
stanno dietro (o sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della
politica, quasi tutta l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo
della Cisl Raffaele Bonanni, nell'aprile del 2010 a «brindare alla
salute di Fabbrica Italia», definendola «una minirivoluzione che
potrebbe riportare l'Italia ai vertici produttivi di un tempo»? E
ancora l'anno successivo a dichiarare: «Sarà brusco, sarà crudo, ma
Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della
Fiat. Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha
spinto il segretario della Cisl torinese Nanni Tosco - che pure
dovrebbe essere un po' più vicino ai luoghi della produzione - a
sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne «un'opportunità
irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano B'»? E
il futuro sindaco Fassino, alla vigilia del famigerato referendum
sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse
stato un operaio Fiat (sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto
il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga di
Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano,
spellandosi le mani ad applaudire le prodezze di un avventuriero».
Perché?
Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il
leggendario segretario della Camera del lavoro di Torino venuto dagli
anni duri), ma nemmeno i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i
Pierre Carniti, i responsabili della Cisl piemontese e nazionale che
guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva conoscere e valutare
gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e rispettava gli
uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i Berlinguer, i
Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e persino
il vecchio sindaco Giuseppe Grosso... In mezzo, tra questi due
diversi «tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata,
come un vomere, la lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro.
Di un arretramento epocale nelle condizioni materiali del lavoro, nel
livello delle remunerazioni e dei salari dei lavoratori, e insieme nel
ruolo stesso che il lavoro gioca nello spazio sociale, nella sua
capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo
splendido La lotta di classe dopo la lotta di classe calcola che nel
corso del ventennio a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo lo
spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i
250 miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre
finanziarie lacrime e sangue. E' la misura della perdita di potere del
lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione». Espulsione del lavoro
dalla sfera pubblica (quella in cui l'aveva riconosciuto anche
formalmente l'art. 1 della nostra Costituzione), e suo confinamento
nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da
rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente
asimmetrici. Di questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di
questa sua privatizzazione (a cui hanno assistito passivamente e
collusivamente) sono figli, gli attuali politici maggioritari e i
sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di turno.
L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una
strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della
rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola
eterea dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la
comunicazione pubblica come un involucro asfissiante (la «cattura
cognitiva» di cui parla Gallino), riflette questa liquefazione.
Ora,
se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona
parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle
forme ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa
della nuova imprenditoria globale - con il Marchionne di turno - il
risultato è scontato: essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata
irrimediabilmente, con la comune rovina di se stessa e di noi tutti.
Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a confrontarsi, con
durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come lui,
mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili
vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della
corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita
si può immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha
saputo restare «solido» nel generale processo di dissolvimento.
Mantenere un rapporto col proprio suolo, culturale, sociale,
produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori del campo
ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel
40% di «inattuali» che a Pomigliano avevano avuto il coraggio di dire
NO, e quel quasi 50% di Mirafiori. Per senso di dignità, prima che per
calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il
ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o
perire»). Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto
disperati operai che votarono Sì. Come vedeva lontano la Fiom, a cui
andrebbe fatto un monumento per aver saputo mantenere aperto un varco,
attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere ancora, nel mondo
che verrà.
Marco Revelli - il Manifesto 19/09/2012
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