venerdì 5 agosto 2011

Luciano Gallino: solo ricette suicide, anche in Cgil

La crisi che il paese sta attraversando è davvero grave, sotto ogni profilo, nel quadro della crisi che investe la Ue. Rilanciare la crescita è una strada necessaria ma ardua da trovare e da percorrere. Che in tale situazione il presidente Silvio Berlusconi si permetta prima battute quali l´invito a investire nelle sue aziende «che continuano a fare utili», poi assicuri che la situazione non può peggiorare, e spiattelli sul momento un piano anti-crisi in otto punti, vuoto di qualsiasi sostanza, offende l´intelligenza di tutti i cittadini italiani. Come uno può pensare sul serio di rilanciare la crescita mediante un ampliamento della libertà economica da inscrivere nella Costituzione, quasi che tale libertà non esistesse quando negli anni 60 il paese cresceva al tasso del 5-6 per cento l´anno? O di modernizzare il mercato del lavoro, quando alcuni milioni di lavoratori giovani e meno giovani hanno già sperimentato di persona che cosa ciò significa nell´età berlusconiana, se non precarietà, retribuzioni stagnanti da quindici anni, sindacati in difficoltà, diritti dei lavoratori in declino? 
Quando non siano battute offensive oppure trovate inimmaginabili, come modificare la Costituzione per rilanciare subito la crescita, gli otto punti del piano anti-crisi indicati dal presidente del Consiglio sembrano ripresi tal quali dalle vecchie ricette del Fondo monetario internazionale. Bisogna ridurre a ogni costo la spesa pubblica. Avviare un grande piano di privatizzazioni dei servizi pubblici. Modernizzare il sistema di welfare e le relazioni sindacali (cioè tagliare le prestazioni del primo e ridurre al minimo il potere dei sindacati). Sono ricette di destra, che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che il governo italiano e la maggior parte dei governi Ue, combinando ottusità, incompetenza e un tot di malafede, hanno ora ripreso come rimedi alla crisi, trasmessa dalle banche ai bilanci pubblici. 
Prima di indicare perché dette ricette sono suicide, sotto il profilo economico, politico e sociale, non si può far a meno di notare, con qualche preoccupazione, che le proposte avanzate dalle parti sociali contengono ricette del tutto analoghe. Il loro «drastico programma per rilanciare la crescita» chiede a sua volta di tagliare la spesa pubblica, lanciare un piano di privatizzazioni, modernizzare (rieccolo, il più minaccioso dei termini quando si parla di riforme) le relazioni sindacali e il mercato del lavoro. Che un tale piano sia stato redatto e sottoscritto da Confindustria è comprensibile. Che sia stato sottoscritto anche dalle confederazioni sindacali, tra cui nientemeno che la Cgil (anche se la segretaria Susanna Camusso ha detto di non essere del tutto d´accordo in tema di privatizzazioni), sta forse a indicare che la situazione è percepita di tale gravità da costringere tutti a non badare più all´identità del vicino nella scialuppa di salvataggio. Ma forse anche - e questo vale per tutta la Ue - che «gli dei fanno uscire di testa coloro che vogliono condurre a perdizione». 
Sia nel piano anti-crisi buttato lì dal presidente Berlusconi, sia nelle proposte delle parti sociali a lui presentate per rilanciare la ripresa, si avverte nel fondo un´idea scriteriata: che la spesa pubblica sia una passività che bisogna assolutamente ridurre allo scopo di far crescere l´economia. È un´idea che le due parti paiono condividere con la destra repubblicana in Usa, quella che ha appena voluto tagliare l´assistenza ai poveri ma non le tasse ai super-ricchi, perché così, osa sostenere, si crea occupazione. Che l´idea non stia in piedi lo dice perfino l´Onu, in un recente rapporto sulla situazione economica mondiale: «Molti governi, in specie nei paesi sviluppati, stanno orientandosi verso l´austerità di bilancio. Ciò inciderà negativamente sulla crescita economica globale durante il 2011 e il 2012». 
Ma nei due documenti in parola, oltre alle idee sballate, spiccano quelle che mancano. Non c´è in essi, ad esempio, una parola sul fatto che l´Italia non cresce perché i suoi investimenti in ricerca e sviluppo sono al fondo delle classifiche Ocse. E qui le imprese non possono puntare il dito contro lo stato, perché se è vero che questo ha contribuito alla povertà della R&S, sono esse che hanno chiuso o malamente ridimensionato i grandi centri di ricerca che l´industria italiana vantava negli anni 60 e 70, nel settore della chimica, della metallurgia, delle telcomunicazioni. Per tacere infine di un´assenza macroscopica, nei due documenti, del problema alla base della bassa crescita: la redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto avvenuta negli ultimi decenni. Almeno 8-10 punti di Pil sono migrati in Italia (ma anche in altri paesi Ue) dai salari ai profitti e alle rendite. Se non si interviene su questo snodo fondamentale, cominciando almeno con il discuterne, di ripresa se ne riparlerà nel 22mo secolo.
Articolo pubblicato su La Repubblica, 5 agosto 2011

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