lunedì 30 novembre 2009

Accordo separato. Fiom: “Fim e Uilm danno i numeri di una consultazione truffa”

“Secondo Fim e Uilm il 96% dei loro iscritti avrebbe votato ed il 94% avrebbe approvato l’accordo separato.”

“Un risultato da fare invidia ai regimi più disinvolti sul piano elettorale, seppur in assenza degli osservatori dell’Onu.”

“La credibilità dei dati si commenta da sola.”

“Lo sanno bene le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici, anche quelli iscritti a Fim e a Uilm che, laddove è stato permesso loro di esprimersi, hanno respinto l’accordo separato e sonoramente contestato le due Organizzazioni Sindacali.”

“Non a caso Fim e Uilm si sono rifiutate di realizzare un certificato e regolare referendum tra tutti i dipendenti metalmeccanici e si sono sistematicamente sottratte ad un confronto democratico e unitario nelle assemblee.”

“La realizzazione poi di una conferenza stampa congiunta tra Fim Uilm, Federmeccanica e Assistal è un nuovo atto di arroganza e un insulto alla categoria dei metalmeccanici.”

“Il fatto stesso che Fim e Uilm suggellino la “loro consultazione” con le controparti spiega meglio di ogni altra cosa che il risultato è stato esattamente quello che avevano deciso dovesse essere.”

“L’accordo separato è illegittimo, non validato dalle lavoratrici e dai lavoratori e, pertanto, la vertenza per il rinnovo del biennio economico è per noi ancora aperta.”

“Inoltre questa vicenda conferma che non è più rinviabile una legge sulla democrazia e sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro, che vincoli gli accordi al voto referendario della maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori interessati.”

“Per la Fiom la mobilitazione continua.”

giovedì 19 novembre 2009

Cgil, se vale tutto e il suo contrario

Ma davvero è indifferente per i lavoratori se il salario dei contratti nazionali ha una decorrenza di due oppure di tre anni? Davvero siamo arrivati a questa superficialità e insensibilità sulle retribuzioni dei lavoratori? E’ bene ricordare che il contratto nazionale una volta effettivamente durava tre anni. C’era però una piccola differenza, assieme al contratto nazionale c’era la scala mobile. Per cui anche se il contratto nazionale durava più a lungo o non garantiva il salario dagli improvvisi aumenti dei prezzi, c’era un meccanismo automatico di tutela delle retribuzioni. Che fu abolito il 31 luglio del 1992.
Proprio a compensazione di quel disastroso accordo l’anno successivo, nel luglio del ’93, fu sottoscritta un’intesa che stabiliva un nuovo regime contrattuale, dove la durata dei contratti veniva accorciata a due anni per la parte salariale. Il ragionamento fatto da noti salarialisti, come l’allora presidente del Consiglio Ciampi, era che se si toglieva la garanzia automatica dei salari rispetto all’inflazione, la durata dei contratti doveva essere più breve di prima proprio per evitare che tutto il rischio salariale si scaricasse sui lavoratori.
Quel sistema ha comunque compresso i salari perché li ha vincolati per lungo tempo all’inflazione programmata a livello nazionale e alla flessibilità a livello aziendale. Tuttavia l’accordo separato di quest’anno tra Confindustria, Governo, Cisl e Uil, è riuscito persino a peggiorare l’intesa del ‘93 perché ha semplicemente allungato i tempi del contratto senza aggiungere alcuna garanzia. Fin qui tutto chiaro, in questo giudizio sta una delle motivazioni del no della Cgil all’accordo sottoscritto dagli altri.
Tuttavia a questo punto stiamo assistendo a una serie di eventi che contraddicono proprio questo giudizio. Tutte le categorie della Cgil, esclusa la Fiom, hanno sinora presentato piattaforme su tre anni e, quelle che hanno sottoscritto accordi, non hanno inserito nel testo alcuna garanzia di recupero automatico dei salari come compensazione del contratto più lungo. Nella sostanza hanno accettato l’impostazione salariale della Confindustria, di Cisl e Uil. Da ultima la Fillea-Cgil, nel settore industriale del legno, si prepara addirittura da sola a disdettare il contratto normativo che dura due anni e che scade nel marzo del 2012, per passare al sistema salariale e normativo di tre, quello che nei metalmeccanici hanno fatto Fim e Uilm.
Inoltre, non c’è una sola categoria, a parte la Fiom, che nei contratti in corso rivendichi e pratichi il referendum tra le lavoratrici e i lavoratori. Questo sia quando le piattaforme sono unitarie, sia quando sono separate.
Naturalmente nelle sedi ufficiali della Cgil la cosa non suscita particolare discussione, hanno ragione i meccanici che lottano contro l’accordo separato e difendono i due anni, e anche quelle altre categorie che fanno accordi e piattaforme che già entrano nel nuovo sistema. Ha ragione la Fiom che considera discriminante nei rapporti unitari la democrazia sindacale, ma anche tutti coloro che invece la considerano meno importante dell’unità. Hanno ragione tutti quelli che fanno il contrario di tutti, viva la libertà.
Sarebbe questa un’intelligente tattica di depistaggio della Confindustria e del governo, se non corresse il rischio di mettere in confusione proprio le lavoratrici e i lavoratori più esposti sul fronte della lotta e dei contratti. Le poche volte che vanno in assemblea, i rappresentanti della Fim e della Uilm usano un solo argomento per contrastare la Fiom, visto che tutti gli altri sono indigeribili dai lavoratori: la Fiom fa una cosa e la Cgil e tutte le altre categorie un’altra. La Fiom è antiunitaria, mentre le altre categorie della Cgil no.
Mi si chiederà, ma c’è stata una discussione in Cgil su che linea affrontare per i contratti, come comportarsi, che strategie assumere? No. Una vera discussione, di quelle che si facevano una volta, nelle quali magari si aveva il coraggio di scontrarsi su posizioni contrattuali diverse, tutto questo non c’è stato. Eppure non stiamo parlando di accordi a sé stanti, ma di sistema contrattuale. Non stiamo parlando di un solo contratto, ma di come dovrebbero o dovranno essere i contratti nei prossimi dieci anni. E’ chiaro che su questo piano le scelte degli uni inevitabilmente riguardano, aiutano, o danneggiano tutti gli altri.
E’ per questo che, meglio tardi che mai, è necessario usare il congresso per fare un’operazione che dovrebbe essere scontata e che invece da tempo non si fa. Discutere della contrattazione sindacale, delle sue linee guida e delle scelte da compiere, delle regole effettive di democrazia sindacale che si vogliono adottare. Definire dei punti e delle pratiche comuni per misurarsi con le controparti e anche con gli altri sindacati, adottare tutti lo stesso atteggiamento di fronte all’accordo separato. Questa è confederalità. Quella che manca oggi alla Cgil.
Giorgio Cremaschi

venerdì 13 novembre 2009

Seconda convocazione RSU: deserta!



Grazie a Prodi, Dini e Berlusconi da gennaio diminuiscono le pensioni

Si potrebbe chiamare "tassa sulla speranza di vita". Il fatto che gli italiani vivano più a lungo rispetto a quindici anni fa nasconde una contropartita che in pochi conoscono: la pensione sarà più bassa. Con buona pace di chi annuncia che il sistema previdenziale non sarà toccato. Tutto nasce da un semplice problema: vivere di più significa, a parità di condizioni, ricevere la pensione per un numero maggiore di anni, con un costo che lo Stato ritiene fin d'ora insostenibile. La soluzione trovata è aritmeticamente ineccepibile: l'assegno mensile non potrà più essere quello di prima, ma necessariamente più leggero.

Lo Stato, invece di pagare poniamo 1.000 euro al mese per 19 anni (era la speranza di vita dei maschi ultrasessantenni una quindicina di anni fa), darà 905 euro al mese per 21 anni (speranza di vita attuale). E non è finita qui, perché ogni ulteriore aumento della vita media in futuro farà scattare di tre anni in tre anni un taglio della pensione. Insomma, campare di più non è un regalo ma ha un prezzo da pagare alla collettività. Non stiamo ovviamente parlando di quanti vanno in pensione adesso o ci stanno per andare: per loro l'assegno più o meno resta quello previsto. Stiamo parlando di tutti gli altri: i cinquantenni cui manca ancora una decina di anni, e soprattutto i giovani appena assunti o destinati ad esserlo. Che si porranno subito una domanda: scegliendo di andare in pensione più tardi, si eviterà la decurtazione dell'assegno? Per i cinquantenni la risposta è "sì", almeno in parte. Per i giovani "no".

Tutto questo non è un progetto, è già deciso e scatterà dal primo gennaio 2010. Lo ha disposto la riforma Dini del '95, lo ha tradotto in cifre una legge del 2007, lo ha confermato l'attuale governo. Dunque, decisione assolutamente bipartisan. Il fatto che non se ne parli tanto è almeno in parte dovuto all'astruso titolo di questa norma, incomprensibile per i non addetti ai lavori: "Revisione dei coefficienti di trasformazione". Si tratta di quei numeretti che moltiplicati per la totalità dei contributi versati danno come risultato la pensione dovuta a ciascun lavoratore. Ogni tre anni questi numeri andranno rivisti al ribasso man mano che crescerà la speranza di vita. Primo taglio a gennaio, dopo un lungo rimpallo tra i governi succedutisi dopo Dini.

Ma lasciamo parlare i dati, cominciando dalla situazione del lavoratore dipendente cinquantenne (diciamo 52), assunto nel 1985. Immaginiamo che voglia andare in pensione nel 2020 all'età minima consentita: 62 anni e 35 di contributi. Se non fosse introdotta la nuova "tassa sulla speranza di vita", prenderebbe il 62 per cento dello stipendio. Con la penalizzazione avrà invece il 58,5%. Per continuare a prendere il 62%, dovrà aspettare tre anni, fino al sessantacinquesimo anno di età. Se invece il lavoratore aveva deciso in ogni caso di andare in pensione a 65 anni, perderà quattro punti percentuali del proprio stipendio: circa 80 euro al mese su uno stipendio di 2.000 euro.

Prendiamo ora un giovane ventisettenne che dopo un lungo precariato sta finalmente per essere assunto all'inizio del prossimo anno. Nel 2045 avrà 62 anni e 35 anni di contributi (di più non è riuscito ad accumularne). Lasciando il lavoro a quell'età, se non venisse introdotta la nuova "tassa sulla speranza di vita", avrebbe un assegno pari al 60 per cento del proprio stipendio. Con la tassa, otterrà solo poco più del 52%. Se invece decidesse di rinviare il pensionamento fino al sessantacinquesimo compleanno, otterrebbe il 57 per cento, ossia recupererebbe qualcosa ma perderebbe comunque tre punti percentuali del proprio stipendio. Una stangata anche maggiore subirebbe chi avesse fin dall'inizio progettato di andare in pensione a 65 anni: perdita secca di nove punti, che per uno stipendio di 2.000 euro equivale a quasi 200 euro al mese in meno.

Tutto chiaro. Ma resta un dubbio, anzi due. Finora ci hanno ripetuto fino alla nausea che per salvare il sistema previdenziale è necessario innalzare l'età pensionistica, anche più di quanto già previsto. E ora scopriamo che per tutti i giovani lavoratori e i futuri assunti, rinviare l'addio al lavoro non servirà affatto a evitare un taglio dell'assegno. Ci si aspetterebbe che il sacrificio richiesto andasse in una sola direzione, e invece non solo si dovrà andare in pensione più tardi, ma si riceveranno meno soldi.

Un doppio onere che per molti critici del nuovo sistema non sembra avere alcuna logica. Secondo dubbio: il taglio dei coefficienti si applica a tutta la massa dei contributi versati nel corso della propria vita lavorativa e non - come sarebbe più giusto per evitare la retroattività - solo a quelli successivi all'introduzione del nuovo sacrificio.

Alla fine, tirate le somme, il baratro che divide giovani e meno giovani non fa che allargarsi ulteriormente, con i primi costretti a pagare, oltre alle conseguenze della propria precarietà lavorativa, anche quelle della crescente speranza di vita. Su cui sta per abbattersi, silenziosa e implacabile, la nuova tassa occulta.


La "tassa" sulla speranza di vita che ridurrà la pensione dei giovani
di MARCO RUFFOLO

Epifani sbaglia ad aspettare Cisl e Uil per lo sciopero generale

La manifestazione del 14 della Cgil deve essere il punto di partenza per arrivare rapidamente allo sciopero generale. In questo momento incertezze o messaggi confusi sono lussi che non ci si può permettere. E’ gravissimo il comportamento del governo, che minimizza la crisi o addirittura la nega, quando per milioni di lavoratori e pensionati sta per arrivare il periodo più nero. Le misure del governo sono o insufficienti o sbagliate o ingiuste, ed è importante contro di esse manifestare. Ma non ci si può fermare qui, soprattutto non si può lasciar fuori dallo scontro la Confindustria. Per questo ci vuole lo sciopero generale, uno sciopero che deve essere tale da bloccare il paese, coinvolgendo tutto il sistema delle imprese. E’ la Confindustria, infatti, che guida una critica al governo che è da destra, cioè a favore di misure ancor più pesanti a danno del mondo del lavoro. E’ la Confindustria che con l’accordo separato nel contratto dei metalmeccanici ha deciso di usare la crisi per smantellare progressivamente il contratto nazionale, a favore del salario flessibile e dell’autoritarismo aziendale. E’ la Confindustria che programma tagli dell’occupazione e rifiuta il blocco dei licenziamenti. E’ la Confindustria che rinvedica tagli fiscali ad esclusivo beneficio delle imprese e, quindi, ai danni del mondo del lavoro che è l’unico vero creditore fiscale dello stato. E’ necessario lo sciopero generale ed è necessaria una piattaforma chiara per esso. Per questo non è pensabile uno sciopero assieme a Cisl e Uil, a meno che queste organizzazioni non cambino profondamente linea. Scioperare assieme a chi ha fatto degli accordi separati, e della minaccia di essi, la propria filosofia sindacale, significa solo produrre confusione nel mondo del lavoro e indebolire le stesse piattaforme per cui si lotta. Per questo sbaglia Guglielmo Epifani quando rinvia a data da destinarsi lo sciopero generale, in attesa di un ritorno unitario con Cisl e Uil. In questo modo fa un doppio errore. Il primo è quello di non mettere in calendario una scadenza di lotta per la quale oggi c’è una domanda forte da parte di tutte e tutti coloro che oggi lottano per la difesa del lavoro e dei propri diritti. In secondo luogo Epifani sbaglia perché ridimensiona la gravità della scelta di Cisl e Uil di concordare regole e contratti violando le più elementari norme di democrazia e, tra i metalmeccanici, addirittura pretendendo come sindacati di minoranza di decidere per tutti. Difesa dell’occupazione, difesa del contratto nazionale, diritto alla democrazia, non possono essere separati. Vanno sostenuti assieme, perché il disegno della Confindustria e del governo li colpisce e li mette in discussione assieme. Per questo la manifestazione del 14 novembre richiede una scelta decisa da parte della Cgil a favore dell’estensione del conflitto sociale.

Giorgio Cremaschi