Da anni sui quotidiani e organi vari di
discussione politico-economica si fa riferimento allo straordinario
potenziale artistico dell’Italia colpevolmente non sfruttato, nonché
all’export quale strumento principale su cui l’economia italiana
dovrebbe puntare per stimolare la crescita. Una discussione
apparentemente innocente o di buon senso, ma che in realtà nasconde
obiettivi assolutamente pragmatici e in linea con la nuova
specializzazione produttiva interna all’Unione Europea. La struttura
produttiva italiana sta cambiando da anni. Lo smantellamento progressivo
dell’industria manifatturiera – e più in generale di ogni suo mezzo di
produzione effettivo – non è un caso della storia, e neanche una
necessità data dalla competizione mondiale, ma un preciso obiettivo
perseguito dalla struttura economica europea. Per capire questo
passaggio è utile guardare agli Stati Uniti.
Nessun singolo Stato degli USA ragiona in termini di autosufficienza
economica, ma tutti hanno adattato con il tempo la propria economia alle
necessità della struttura produttiva generale. Così abbiamo Stati in
cui si ritrova una concentrazione manifatturiera, altri in cui è
centrale la specializzazione tecnologica, altri ancora destinati al
turismo, soprattutto interno. Ogni singolo Stato degli Stati Uniti non
durerebbe un giorno senza l’integrazione economica derivante dai
rapporti con il resto dell’Unione. Quello che sta avvenendo in Europa è
un processo simile.
Non è più pensabile un’autosufficienza
economico-produttiva dei vari paesi, ma tutti devono specializzarsi in
un settore economico preciso stabilito dal livello di integrazione e
compenetrazione economica continentale. Non c’è alcuna ragione per cui
esistano due grandi Stati manifatturieri, la Germania e l’Italia, in un
unico contesto economico. Meglio sfruttare le economie di scala e la
produttività tedesca, smantellando quella italiana riconvertendola in
quei settori in cui risulta più competitiva della Germania. Il problema
di questo processo è la sua ricaduta politica. Trasformando i vari Stati
europei in soggetti economici specializzati e legati indissolubilmente
al resto della struttura economica, diventerà sempre più impossibile lo
sganciamento di qualcuno di questi dal resto della struttura. Proprio
come è impossibile immaginare una fuoriuscita, ad esempio, dell’Oregon
dal resto degli USA, pena l’immediato fallimento economico dello Stato
per mancanza di produzione autosufficiente, così sarà impossibile per un
singolo Stato della UE immaginare una propria fuoriuscita, pena
l’impossibilità economica di fare fronte alle proprie necessità interne.
Chiaramente questa integrazione non è ancora a livello USA, ma la
tendenza è quella di adeguarsi velocemente a quel paradigma.
Questo strumento di controllo economico
è, per l’Italia, ancora più dannoso, perché all’interno della struttura
produttiva europea il nostro paese ha assunto il ruolo di buen ritiro delle
classi dominanti. Per continuare il parallelo con gli USA, l’Italia sta
rapidamente diventando la Florida dell’Unione Europea, paese destinato a
una desertificazione industriale riconvertita in enorme struttura
d’accoglienza turistica. Per di più, di un turismo d’elite, benestante,
tendenzialmente anziano. Il problema è che questa riconversione
renderebbe il paese assolutamente dipendente dal resto dell’Unione
Europea per ciò che riguarda le proprie necessità economiche.
Esattamente come la Florida, tolto il turismo il paese vedrebbe
un’assenza di qualsiasi effettiva capacità produttiva, spostata altrove.
Rendendo impraticabile anche il solo immaginare una possibile
fuoriuscita del paese dalla UE. Se infatti in questo processo di
specializzazione alla Germania continuano a rimanere le industrie,
questa potrà sempre prevedere una propria fuoriuscita perché
continuerebbe a mantenere una struttura produttiva indipendente, che le
garantirebbe la sopravvivenza nella fase di transizione.
La trasformazione economica in atto è un
processo d’asservimento dal quale poi non sarà più possibile immaginare
una via d’uscita. Se l’Inghilterra è la piazza finanziaria, la Germania
quella produttiva e la Francia il nodo logistico, per l’Italia e i
paesi del sud non rimane che diventare immensi resort esclusivi del
turismo estero. E’ dunque questo a cui mira la retorica del “paese più
bello del mondo”, il paese del sole e del turismo, delle bellezze
artistiche non sfruttate, e via dicendo.
In questo scenario appena tratteggiato
si inserisce perfettamente anche l’ideologia dell’export. Anche qui, ci
troviamo apparentemente davanti a un discorso di buon senso. Se la
domanda interna ristagna, puntiamo ad esportare di più per far ripartire
la nostra economia. Chi potrebbe affermare il contrario senza passare
per matto o per menagramo, ostile a prescindere alle sorti economiche
del “bel paese”, ideologicamente avverso all’economia di mercato? Noi,
ad esempio. Perché la retorica dell’export maschera quel processo di
specializzazione produttiva visto sopra. Infatti l’export non è una
scelta, ma la necessità del sistema economico che convive con una
domanda interna stagnante o in regressione. Puntando tutto sulle
esportazioni, non è più necessario per i sistemi economici stimolare la
domanda interna, dunque diventa ininfluente immaginare aumenti
salariali, sistema di diritti sul posto di lavoro, redistribuzione
economica, leva fiscale, eccetera. Al contrario, visto che esportare
significa essere economicamente competitivi con le economie emergenti,
le condizioni di lavoro dei paesi a capitalismo matura dovranno
adattarsi a quelle dei suddetti paesi emergenti, pena l’esclusione dal
mercato. Per di più, un economia basata sull’export avvantaggia i
profitti del padronato, ma questi non hanno ricadute sui lavoratori
autoctoni, proprio perché la domanda di beni non proviene da parte di
questi lavoratori, ma nei mercati esteri in cui viene posta in vendita
la merce prodotta.
Emblema dell’economia dell’export è la
Germania. La crescita costante di questo decennio è stata prodotta
proprio dalla capacità competitiva del paese di esportare ai quattro
angoli del mondo. Ma tale capacità competitiva è stata raggiunta
attraverso le riforme Harz, dai mini-jobs da 400 euro al mese,
dall’enorme messa a lavoro di un proletariato migrante che produce in
condizioni peggiori addirittura di quelle italiane o del sud Europa. Non
a caso, nonostante questa crescita economica stupefacente in anni di
crisi, la domanda interna tedesca è in regressione da un decennio. Il
fatto è che questa regressione non interessa al padronato, che
estrae i propri profitti non più dal mercato interno ma dall’export.
Questo fatto rende ininfluente, per le classi dominanti, il mantenimento
di una domanda interna adeguata, quindi di condizioni salariali tali da
assorbire una quota rilevante della produzione interna. E rende ogni
paese basato sull’export subalterno alla volatilità dei mercati esteri.
Modellando il sistema giapponese toyotista alle condizioni
europee, agli Stati del centro economico della UE basta salvaguardare
una percentuale di know how basato su una ristretta elite operaia, con
livelli salariali adeguati e sistema efficiente di welfare, dislocando
la produzione effettiva sulla grande massa precaria sorta attorno
all’azienda. Se è vero, ad esempio, che gli stipendi della Volkswagen
sono elevati, questi però sono espressione di una piccolissima parte
della costruzione concreta dell’autovettura, ridottasi ormai al mero
assemblaggio, che di fatto viene prodotto quasi esclusivamente
dall’indotto, che nel frattempo ha sostituito la casa madre nella
costruzione della macchina. E se quindi le condizioni di lavoro degli
“operai Volkswagen” sono accettabili, le condizioni lavorative
dell’indotto controllato dalla casa madre, che nei fatti produce la
merce, sono precarizzate oltre ogni confine. E su questo che si basa la
competitività dell’economia tedesca, talmente competitiva che vede una
dislocazione al contrario della produzione: numerose aziende dell’est
europeo dislocano la propria produzione in Germania perché più
conveniente del proprio paese!
Questa dinamica contribuisce a spiegare
il disinteresse, per le classi dominanti, del processo di integrazione
di quote di lavoratori nel contesto della rappresentanza politica
ufficiale. Le condizioni dei lavoratori autoctoni dei paesi europei non
hanno più alcun rilievo perché economicamente ininfluenti. Non serve
stimolare alcuna domanda interna, dunque non è più necessaria alcuna
mediazione sociale, men che meno quindi politica. Il processo di
valorizzazione capitalistica procede anche senza mercato interno di
sbocco, e questo fatto determina l’inutilità di qualsiasi discorso sulla
salute e le capacità economiche del mercato interno. L’economia
dell’export è dunque lo strumento con cui il Capitale spezza la retorica
del “patto fra produttori” che aveva retto le sorti del “capitalismo
renano” europeo dalla Seconda Guerra Mondiale agli anni Novanta. Questo
determina allora l’irrilevanza delle posizioni sindacali delle
rappresentanze del mondo del lavoro, prive di qualsiasi potere
contrattuale da far valere nella lotta per strappare condizioni
economiche migliori. Una situazione di cui tener conto, soprattutto
riguardo alle vicende delle lotte sociali presenti oggi in Europa.
Collettivo Militant - 16/06/2014
http://www.militant-blog.org
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