venerdì 28 giugno 2013

Contro la deriva della Cgil. Intervista a Sergio Bellavita (FIOM)


In vista dell'assemblea della Rete28Aprile-Opposizione Cgil che si svolgerà sabato 28 giugno a Roma, abbiamo intervistato Sergio Bellavita, dirigente nazionale della Fiom.

E' stato firmato l'accordo sulla rappresentanza e democrazia tra Confindustria Cgil Cisl e Uil, successivamente sottoscritto anche dall'Ugl. Il gruppo dirigente Fiom non solo non si è opposto ma ne ha dato un giudizio sostanzialmente positivo. La valutazione della Rete 28 Aprile è invece molto negativa, ci puoi argomentare i principali punti di disaccordo tra voi e la maggioranza Fiom?


E' riduttivo parlare di accordo negativo, con quell'intesa si instaura un vero e proprio regime sindacale. Un regime riservato esclusivamente al sindacalismo complice , destinato cioè, a praticare la contrattazione di restituzione, di riduzione di salari e diritti. In continuità peraltro con quanto previsto dall'accordo del 28 giugno 2011 e dall'articolo 8 di Sacconi, le deroghe cioè al Contratto ed alla legge. In sostanza serve ad applicare sul terreno sociale le politiche d'austerità. Sin da subito abbiamo parlato del giudizio positivo di Landini come della firma tecnica sul modello Marchionne, la stessa per capirci che la Cgil e settori Fiom proponevano di apporre nel 2010 a Pomigliano di fronte all'intesa separata che cancellava la Fiom dagli stabilimenti. L'accordo su rappresentanza e democrazia è appunto la piena affermazione del modello Marchionne su scala generale. Lo stesso modello autoritario e sanzionatorio che contempla solo il sindacalismo complice. E' sufficiente vedere cosa è previsto sul terreno della rappresentanza: solo le organizzazioni sindacali firmatarie e/o che piegano la testa accettando di non confliggere con l'impresa in rispetto degli accordi vigenti, hanno il diritto a presentarsi alle elezioni rsu. Così si cancella il diritto dei lavoratori ad opporsi agli accordi, a lottare cioè per migliorare le proprie condizioni. Si cancella il sindacalismo conflittuale.
Se quest'accordo fosse stato sottoscritto prima del 2010, la Fiom avrebbe dovuto firmare gli accordi di Mirafiori e Pomigliano, dove, non dimentichiamolo, i lavoratori hanno votato. Hanno votato per cancellare la Fiom, per peggiorare le proprie condizioni, per uscire dal Contratto nazionale. Ecco perchè il voto dei lavoratori previsto nell'accordo e che tanto viene enfatizzato, altro non è che lo strumento per legittimare il ruolo di un sindacato che sottoscrive accordi peggiorativi, è l'istituzionalizzazione del referendum come strumento per imporre la contrattazione di restituzione. Quando nel 2010 decidemmo come Fiom di non firmare l'accordo di Pomigliano, decidemmo di lottare mettendo al centro i diritti dei lavoratori, non quelli d'organizzazione. Tutti ci invitavano al realismo, ci raccomandavano di stare dentro. E' evidente che c'è un radicale cambio di linea.


Il corteo della Fiom dello scorso 18 maggio, l'abbiamo potuto vedere tutti, non è stato particolarmente partecipato ed è passato senza produrre risultati per i lavoratori. Per domani, venerdì 28 giugno, è previsto lo sciopero del settore auto, con corteo nazionale a Roma . A tuo avviso può rappresentare un nuovo inizio e restituire un profilo conflittuale al sindacato dei metalmeccanici o invece è ancora insufficiente?


Certamente la manifestazione del 18 maggio non è stata delle più partecipate nella lunga storia dei metalmeccanici. Le ragioni sono molteplici, pesa sopratutto la profonda crisi di credibilità del sindacato nel nostro paese. La condizione di chi lavora precipita e più nessuno crede, non a torto, che siano le manifestazioni a Roma a poterla cambiare. In particolare tuttavia occorre sottolineare che da molti mesi la Fiom non ha più nessuna grande vertenza in campo, continua certamente a rappresentare un punto di vista importante, radicale sul terreno politico, ma un punto di vista che non è più, da molto tempo, conseguente sul piano dell'iniziativa concreta. E i lavoratori misurano un sindacato su quello che fa concretamente, non su quello che dice, per quanto importante. La stessa manifestazione su Fiat di venerdì 28 giugno ha questi limiti. Non c'è più in piedi una vertenza Fiat che vada oltre le sacrosante battaglie legali, oltre la denuncia dell'anomalia Marchionne.
Tutti sanno che nei prossimi anni Fiat metterà pesantemente le mani sull'occupazione. E' in gioco forse più di metà dell'occupazione e degli stabilimenti. La sovraccapacità produttiva rispetto al dato delle vendite è persino eclatante. Non risolveranno né nuovi modelli che pure sono necessari, né una nuova indispensabile strategia industriale . Tra le altre cose non va sottovalutato il fatto che per gli azionisti Fiat Marchionne è la gallina dalle uova d'oro per i profitti che ha portato loro con le diverse operazioni finanziarie ed industriali. Voglio dire che non c'è una proprietà arrabbiata per i dati disastrosi sulle vendite, se non qualche ricco e attempato sabaudo nostalgico della Fabbrica Italiana Automobili Torino. Cisl,Uil, la politica e le Istituzioni, a partire dal Governo sanno benissimo cosa succede e cosa si prepara. Non ci si può aspettare nulla visto che hanno legittimato e legalizzato il modello Marchionne. Per queste ragioni occorre costruire una pura vertenza sindacale. Senza una battaglia per la redistribuzione del lavoro su tutti gli stabilimenti e la difesa intransigente di ogni sito si rischia semplicemente di accompagnare la pesante ristrutturazione che verrà.
Ed è in quella chiave che la lotta contro il modello Marchionne va inserita.
La leva della battaglia è la difesa dell'occupazione. Diversi compagni che lavorano in Fiat da tempo propongono inascoltati di riprendere il terreno della lotta, pur consapevoli della difficilissima fase. A Pomigliano per esempio, è allucinante la contraddizione tra il ricorso al lavoro straordinario e la cassa integrazione. Per queste ragioni molti si aspettavano un blocco dei cancelli, qualcosa di più forte che la semplice denuncia.


Sabato a Roma avrà luogo l'assemblea nazionale della Rete28Aprile-Opposizione Cgil. Quale bilancio faresti dell'operato della vostra area programmatica dalla sua nascita ad oggi? Per quale ragione nonostante l'aggravarsi delle condizioni nel mondo del lavoro avete incontrato così tante difficoltà a costruire un'opposizione di massa alla linea maggioritaria della Cgil? Come mai siete ancora poco conosciuti in tanti luoghi di lavoro? Cosa vi proponete di fare per il futuro?


L'assemblea di sabato è un passaggio importante. Si tratta,per noi che abbiamo da tempo deciso di presentare un documento alternativo al congresso Cgil , di qualificare il come ma anche perchè continuare la battaglia in Cgil. Non ci misuriamo solo con la deriva inarrestabile di una Cgil che ha sostanzialmente aderito al modello Cisl consentendo così la totale destrutturazione del sistema dei diritti e delle tutele del mondo del lavoro.
Il quadro nel nostro paese, come peraltro nella maggior parte dell'area euro, è segnato dalla durezza del combinato disposto tra politiche d'austerità e crisi economica. Una si alimenta dell'altra e entrambe, nell'assenza totale di rappresentanza politica e sociale delle classi popolari, deflagrano creando impoverimento, disoccupazione ma anche, per ora, rassegnazione e passività. Tutte le vecchie forme della rappresentanza sono travolte, siano esse complici o antagoniste. E' lo spazio concreto dell'iniziativa sindacale rivendicativa che è praticamente scomparso e non solo per responsabilità del sindacalismo complice che c'è ed è enorme, non dobbiamo dimenticare che la crisi è crisi del capitale, della sua capacità di generare profitti, di garantire consenso e crescita. Ogni lotta sindacale in difesa dell'occupazione, per il salario, per i diritti diviene immediatamente lotta politica, immediatamente diviene sovversiva rispetto alle compatibilità date. Questa è la ragione di fondo che rende complicata la costruzione del conflitto. La condizione dei lavoratori è divenuta variabile dipendente dei margini del capitale nella sua competizione globale. L'accordo sulla rappresentanza e democrazia e le deroghe previste dal 28 giugno 2011 sono gli strumenti concreti per applicare nel concreto questa subordinazione. Se questo è il quadro, il punto centrale per la Rete 28 aprile è come essere parte della necessaria ricostruzione del conflitto sociale a partire dai luoghi di lavoro. Stare nelle lotte parziali, agire per una nuova coscienza di classe, stare nella contraddizione che nei diversi soggetti si pare e che è sempre più esplosiva. La Rete, sin dalla sua nascita nel 2005, ha cercato in ogni modo di contrastare la deriva della Cgil, la sua progressiva cislizzazione. Sia nella battaglia interna, per una lunga fase insieme alla Fiom ed a altri pezzi della Cgil, sia nel tentativo di costruzione di un fronte sociale contro le politiche del padronato e del Governo. Siamo un punto di riferimento per larghissima parte dei militanti della sinistra antagonista nei luoghi di lavoro, ovviamente per tutti quelli che continuano a lottare. Tanti compagni purtroppo sono semplicemente tornati nel privato senza che nessuna nuova generazione si sia affacciata sullo scenario sociale. Certamente si poteva fare di più, tuttavia la marginalità della nostra esperienza non è cercata, ma imposta dalle condizioni date. Il congresso da questo punto di vista è una straordinaria possibilità di farci conoscere, di consolidare e aggregare nuovi quadri, di ri-costruzione di una nuova esperienza collettiva interna alla Cgil.


Vi proponete di presentare un documento alternativo al congresso della Cgil. Nel precedente furono denunciate procedure quantomeno dubbie e risultati manipolati nonostante l'opposizione al gruppo dirigente di pezzi importanti della Cgil quali gli allora segretari di categoria dei metalmeccanici, funzione pubblica e bancari. Non hai timore che possano ripetersi simili pratiche? E soprattutto, pensi sia ancora possibile poter invertire la rotta del sindacato di Corso Italia in assenza di conflitti costruiti dal basso?


Chiediamo un congresso democratico, regole certe e trasparenti che garantiscano il diritto di ogni iscritto di conoscere le diverse posizioni e di decidere. Lo scorso congresso è stato devastante da questo punto di vista se si pensa che ancora oggi non conosciamo i dati del voto disaggregati per territorio e categorie... regioni del sud che hanno raddoppiato i voti di quelle industriali. Una cosa inaccettabile. In più, la stretta autoritaria che viviamo nell'organizzazione e che è direttamente figlia della crisi della forma sindacale, rischia di degenerare nel tentativo di cancellare politicamente e sostanzialmente il dissenso in Cgil. Le contraddizioni che apriamo sulle scelte dell'organizzazione sono vissute dai gruppi dirigenti come atti di lesa maestà, come aggressioni violente. Difenderemo con ogni mezzo, ripeto, con ogni mezzo, il diritto al dissenso. Il sindacato non è proprietà dei suoi dirigenti. No, senza un nuovo ciclo di lotte il sindacato, tutto, non cambierà mai.
E' illusorio pensare che sia la nostra battaglia congressuale a modificare un'organizzazione come la Cgil. Solo un nuovo protagonismo sociale può obbligare il sindacato a cambiare o ad adeguarsi.


Per rilanciare il conflitto sociale non si potrà certamente fare a meno di coinvolgere i milioni di disoccupati e precari. L'Usb a tal proposito ha iniziato a ragionare sulla costruzione del "sindacalismo metropolitano" e della "confederalità sociale". L'idea è che il sindacato si debba porre il problema della relazione con i settori sociali esclusi dai circuiti lavorativi tradizionali, dunque fuori dalla contrattazione ordinaria. Questi soggetti, che è difficile come nel caso dei precari se non impossibile come nel caso dei disoccupati organizzare nei luoghi di lavoro vanno organizzati sul territorio, affiancando alle lotte sindacali classiche quelle per le occupazioni di case, per la sanità, e per tutte le problematiche che riguardano la vita nei territori. Cosa ne pensi? Ti sembra un esperimento interessante?


Si, davvero molto interessante. La crisi che tutto travolge riduce nei fatti la stratificazione sociale e generalizza la condizione di massima delle classi popolari, cancellando anche vecchie divisioni. La questione salariale,la lotta contro il carovita ad esempio travalica da tempo le diverse appartenenze categoriali. Si impone la necessità di promuovere un'azione unificante interna ed esterna ai luoghi di lavoro, sia perché imposta dal processo di espulsione del sindacato da fabbriche e uffici, sia per effetto della crescente disoccupazione di massa. Non dimentichiamo che con la cancellazione dell'art.18 la Costituzione è uscita dai luoghi di lavoro riducendo molto la possibilità della tradizionale organizzazione interna ai luoghi di lavoro.
Stesso processo riguarda la contrattazione sindacale. Diviene quindi centrale il territorio che, guarda caso, è una dimensione altamente unificante per le classi popolari. La casa, il salario, i servizi, il lavoro. Senza dimenticare, ovviamente, un livello generale che riunificando il parziale,dia alle lotte una prospettiva progressiva e solidale impedendo che quella stessa dimensione che vogliamo indagare non diventi causa di nuove separazioni, egoismi, o peggio.



A. Lami - 27/06/2013
http://megachip.globalist.it
 

Pacchi e cacciaballe come sempre sul lavoro

A ben guardare sulla stampa,  le uniche soddisfazioni visibili per i provvedimenti del governo sul lavoro, a parte che da Letta stesso, vengono da Berlusconi e dai gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL.
Berlusconi è andato da Letta e poi dal Capo dello Stato, il quale evidentemente non ha problemi a ricevere frequentemente un pluricondannato per reati gravissimi, e ha espresso pieno sostegno al governo e al suo operato. Se evidentemente così il capo del PDL cerca di far dimenticare i devastanti guai con la giustizia, i gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL mostrano ancora una volta di aver dimenticato cosa deve dire e fare un sindacato in momenti come questi. In Portogallo oggi si sciopera contro l'austerità, qui da noi i leader dei grandi sindacati approvano misure ridicole che stanno alle politiche di austerità come una ciliegina vecchia su una torta andata a male. (...)
Il provvedimento del governo non riduce di una sola unità l'ammontare complessivo della disoccupazione, ma semplicemente la ridistribuisce in piccola quota.
Il ministro Giovannini, che come ex capo dell'ISTAT sa come far ballare i numeri davanti a mass media ottusi e bendisposti, ha detto che questa misura ridurrà del 2% la disoccupazione giovanile sotto i trent'anni e subito il suo annuncio è stato rilanciato come un fatto enorme.
Facciamo un piccolo conto.
Il governo ha annunciato che con i suoi provvedimenti ci saranno 200.000 assunzioni di giovani. Se questo fosse vero e, come dice Giovannini, corrispondesse ad un calo del 2% dell'ammontare complessivo della disoccupazione 
giovanile, vorrebbe dire che questa assomma a ben 10 milioni di persone, un numero  forse superiore a tutta la popolazione tra i 18 e i 30 anni.....
Evidentemente non è così e Giovannini ci dice tra le righe, dove i mass media di regime non guardano e non fanno guardare, che la riduzione della disoccupazione giovanile sarà molto inferiore alle assunzioni previste, diciamo a spanne attorno a un decimo.
Quindi la disoccupazione giovanile viene ridotta di 20.000 persone. E le altre 180.000? Ammesso che si verifichino tutte,  esse saranno chiaramente assunzioni di giovani che non riducono la disoccupazione perché le aziende avevano già programmato di farle.
Tito Boeri su La Repubblica afferma che le attuali assunzioni di giovani sono 120.000 al mese. Il programma del governo è scaglionato su 4 anni...
Quindi i soldi pubblici andranno soprattutto a quelle medie e grandi aziende che vanno meglio di altre e che avevano comunque bisogno di assumere.
Un puro regalo.
Ma i 20.000 di Giovannini? Bè temo che a quelli corrispondano altrettanti licenziamenti per lavoratrici e lavoratori di altre fasce di età.
Non bisogna mai dimenticare infatti che tutti gli indicatori economici dicono che la disoccupazione complessiva aumenterà. Quindi i posti di lavoro che si perdono sono di più di quelli che si creano e se si incentivano le assunzioni per una certa fascia di età, ovviamente altre generazioni  vengono licenziate di più.
In concreto avremo aziende che si libereranno delle e dei dipendenti con più di 50 anni per assumere giovani che pagano con un salario molto  basso e sui quali sono sgravate dai contributi. E siccome si va in pensione a 70 anni e ci sono già schiere di esodati, è chiaro che le aziende licenzieranno per assumere.
È la famosa staffetta generazionale, condannata da quella associazione sovversiva che è l'Organizzazione del lavoro delle Nazioni Unite.
Perché, afferma l'ILO, in realtà distrugge lavoro buono e reddito.
Quindi la sostanza è che le misure del governo daranno qualche piccolo risultato nella direzione voluta solo se verranno licenziati padri e madri per far posto ai figli.
In una condizione di crisi e recessione ci sono solo due modi per ridurre davvero la disoccupazione. Il primo e fare investimenti che creino lavoro aggiuntivo, il secondo è quello di ridurre l'orario tra gli occupati per redistribuire il lavoro tra più persone.
Il governo rifiuta entrambe queste vie nel nome dell'austerità europea, e dunque può solo tirare la coperta sempre più stretta da un lato o dall'altro, aumentando la precarietà e la disoccupazione complessiva.
Non è un caso che il piano giovani sia accompagnato dalla davvero notevole impresa di essere riusciti a peggiorare la legge Fornero, agevolando ancor di più le assunzioni a termine e senza controllo.
Le ricette sul lavoro del governo Letta sono dunque le solite misure liberiste che si adottano in tutta Europa, con fallimento progressivo. Il paese che da più  anni governa il mercato del lavoro con pacchetti di misure come quelle appena decise è la Spagna: l'unico grande stato europeo con una disoccupazione complessiva e giovanile superiore alla nostra.
Quindi queste misure falliranno e sprecheranno, come tutte le politiche del lavoro degli ultimi venti anni che ora sono ben sintetizzate da un governo che raccoglie il fallimento della destra e quello del centrosinistra.
Del resto questa sintesi fallimentare non si esprime solo sul lavoro. Su tutto il governo delle larghe intese o rinvia, o vende fumo, o fa il gioco delle tre carte.
Si rinvia l'IVA e intanto si aumentano le tasse qua e là. Si vota una pausa di riflessione parlamentare sugli F 35 e la si fa coincidere con una pausa dei lavori prevista dal contratto di acquisto degli aerei, che viene confermato.
Si rinvia, si confezionano pacchi mediatici, si cacciano balle con la faccia seria e rigorosa.
Forse la soddisfazione di Berlusconi è più di fondo: se lui è al  tramonto, la sua eredità culturale e politica si consolida nel regime delle larghe intese.
  
 
G.Cremaschi -  27/06/2013
Rete28aprile


mercoledì 26 giugno 2013

Quando vi parlano di spread ( e di spending review )

Mts, la fabbrica dello spread


Prima mossa: disabilitare la banca centrale, impedendole di continuare ad essere il “bancomat” del governo, a costo zero.
Seconda mossa: togliere al governo la facoltà di emettere moneta, obbligandolo ad “acquistare” dalle banche private la valuta un tempo sovrana, cioè gratuita.
Terza e ultima mossa: abolire anche l’ultima quota residua di sovranità politica, imponendo al governo una camicia di forza per limitare la spesa pubblica, vitale per i cittadini: sanità, scuola, assistenza.

Risultato ovvio: tracollo dell’economia e catastrofe sociale.
E’ l’Europa dell’euro, dove tutto sta precipitando. Tunnel senza uscita.
Un sistema feudale di sovrani invisibili e nuovi sudditi, governato da un potere occulto e micidiale, nascosto dietro un nome straniero: spread.
Il trucco: “privatizzare” il debito statale un tempo pubblico, mettendo all’asta la vita di milioni di cittadini.
Gli Stati sotto ricatto: il prezzo della sopravvivenza decretato da un pugno di oligarchi. Più gli Stati s’indebitano, più gli strozzini si arricchiscono.
La crisi è il loro affare d’oro, e ha un nome familiare: debito pubblico.
Film dell’orrore, made in Italy: ideato da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

Lo sostiene Glauco Benigni, che su “Globalist” svela l’origine del più opaco meccanismo di potere con il quale la tecno-finanza tiene in pugno i popoli dell’Eurozona, a cui nessuno spiega mai perché “le cose vanno male”. Congiunture internazionali e flessioni fisiologiche dell’economia?

A monte, l’origine finanziaria della recessione è determinata da una potentissima cabina di regia che, a tavolino, decreta la rovina di intere nazioni manovrando sul valore del “debito sovrano”, l’ex debito pubblico ora in mano ai “mercati”: più un paese affonda, più i “grandi compratori” lucrano sui titoli di Stato. E senza che nessuno intervenga: non la politica al guinzaglio degli usurai, né i loro media sordomuti. «L’argomento appare ammantato da fitte nebbie», protetto da un linguaggio inaccessibile e da «decisioni politiche spesso inspiegabili», premette Benigni. «Una questione da iniziati, veramente “esoterica”, nella quale pochissimi hanno messo e mettono le mani». Nessuno ne parla, ma gli esiti di questa piccola storia ignobile «generano pesanti ricadute sugli Stati (ex sovrani) e sulle famiglie che abitano in Europa», cioè su milioni di individui che sono diventati, inconsapevolmente, «i “prestatori di ultima istanza” del debito sovrano e quindi i garanti di quei “cambialoni”, detti Bot e Cct, che gli Stati danno alle banche in cambio di denaro».

Questa, rivela l’analisi del blogger, è la vera storia di “sua maestà” lo spread e del luogo virtuale dove i suoi valori oscillano incessantemente. Tutto nasce 25 anni fa. Protagonisti occulti, “i mercati”, grossolanamente evocati con una definizione che «assicura un’impermeabile anonimità». A pesare, in particolare, è uno di quei mercati, «il famigerato “secondario” di Londra, anche noto nei pub della City come Jack lo Squartatore». In un’intervista rilasciata a “Specchio Economico” nel 2007, il finanziere Gianluca Garbi, già consigliere del ministero del Tesoro, esperto finanziario con incarichi alla Bnp Paribas e alla Jp Morgan, nonché collaboratore di Mario Draghi, afferma: «Nel 1988, per assicurare una corretta gestione dei titoli del debito pubblico e per indicare anche in modo trasparente i prezzi, il ministero del Tesoro istituì un mercato all’ingrosso dei titoli di Stato basato su un circuito telematico». Testuale: mercato all’ingrosso dei titoli di Stato. Ora amministratore di Banca Sistema, Garbi conosce bene la questione: fu proprio Draghi, dieci anni dopo l’esordio di quello strano mercato, a nominarlo nel 1998 presidente del consiglio di gestione dell’Mts, la “Borsa del debito pubblico”, in cui ogni giorno venivano scambiati 110 miliardi di euro.

Mts: dunque Jack lo Squartatore ha un nome. Ma se si interroga Google, oggi si può solo rintracciare «una definizione diversa, ancorché sovrapponibile», ovvero: Mts Group. Dove il vecchio Mercato dei Titoli di Stato è diventato “Market of Treasury Security”, società con uffici a Londra, New York, Milano e Roma che, «grazie ad un elegante sito, ci racconta una storia aggrovigliata ma molto interessante: nonostante sia iniziata in Italia, la storia è narrata solo in inglese». È vero, conferma la brochure, «tutto comincia nel 1988» nel nostro paese, grazie a due uomini decisivi: l’allora ministro del Tesoro, Giuliano Amato, e il futuro presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore di Bankitalia. La loro “intuizione folgorante”: cominciamo a offrire titoli a reddito fisso emessi dallo Stato non più e non solo secondo le tradizioni, ma con le modalità offerte dalla contrattazione su reti digitali. In pratica un mercato che, probabilmente ispirato dal successo di Nasdaq, si collocava nel solco della “rivoluzione digitale” in corso. «Un modo di comprare e vendere che, da quel momento in poi, avrebbe travolto ogni precedente rituale di scambio dei titoli di Stato», osserva Benigni.

Bot, Cct e simili, i titoli dei nonni e delle zie, quelli che poi sarebbero stati definiti bond, diventavano “securities” trattabili e scambiabili a grandissime velocità in ambiente “digitale ubiquo”. Una parte degli scambi si continuava (e si continua) a farli “a voce”, ma la tendenza da accreditare era (ed è) quella di usare al massimo i sistemi online. «Fin qui tutto bene: l’Mts era stato “inventato” dagli italiani e restava di proprietà e sotto il controllo degli italiani». Per quattro anni si procede, per fasi progressive, alla sperimentazione-evoluzione del sistema. Nel 1992 l’Mts consolida l’uso di una sua piattaforma proprietaria che diventa il suo vero pezzo forte. Nel 1994 vengono introdotti sistemi di controllo ulteriori. Nel 1997 il sistema lancia il mercato elettronico delle “repo transactions”, i “pronti contro termine”. Il 1997 è anche l’anno della prima svolta, aggiunge Benigni, perché poi nel 1998 l’Mts viene privatizzato: ovvero trasformato in soggetto giuridico di diritto privato. Per l’esattezza una Spa, di proprietà di 52 istituti bancari, operante comunque sotto la supervisione della Banca d’Italia, del ministero del Tesoro e della Consob.

«È a questo punto che entra in scena Gianluca Garbi», spiega Benigni. «Sotto la sua guida l’Mts continua a svilupparsi e comincia a rappresentare un modello in diversi paesi d’Europa e nel mondo. Addirittura sostiene l’attivazione e assume partecipazioni in alcuni mercati locali simili, interfacciando 250 istituzioni finanziarie». Strano ma vero: «Alcuni italiani assumono la leadership in uno dei settori più strategici della contemporaneità, e tutto nell’assordante silenzio dei media». Intanto, il valore della società passa da 6 a 245 milioni di euro. «A partire dal 1999 – continua Garbi nella sua intervista – il modello Mts è stato esportato in tutti i paesi dell’area euro in seguito alla creazione di una piattaforma paneuropea, l’EuroMts». Nel 2001 l’Mts SpA si fonde con l’EuroMts. Nel 2003 viene lanciato l’indice EuroMts, «primo indice di titoli statali per l’area dell’euro – continua Garbi – calcolato in tempo reale e totalmente indipendente e trasparente». Vengono anche avviati il New EuroMts e l’EuroGlobal Mts, il primo per lo scambio di bond denominati in euro ed emessi dai governi entrati a far parte dell’Ue, e l’altro per lo scambio dei bond emessi da governi non Ue.

«Un’insalatona ricca, veramente appetitosa: tant’è che comincia a suscitare gli appetiti dei Moloch», rileva Glauco Benigni. Nel novembre 2005 – ricorda Garbi – Euronext N.V., che raggruppa le Borse di Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Lisbona, il Liffe e la Borsa Italiana, acquisisce la maggioranza della Mts SpA. «Sul tavolo sono arrivate ben 17 offerte d’acquisto e oggi l’azionista di maggioranza, attraverso la holding Mbe, è il gruppo formatosi tra la Borsa di New York e l’Euronext». E qui l’Mts smette di parlare e tenere conti in italiano. Comincia a sciogliersi nel grande mare della finanza globalizzata. Perché? «La fusione con Wall Street – dice Garbi – potrebbe portare ulteriori opportunità di crescita per tutto il gruppo». In effetti il 2006 è un anno record: i volumi di compravendita aumentano del 13,5%. La società registra un Ebit (guadagno prima delle tasse) di oltre 16,7 milioni di euro, mantiene la leadership nel mercato Interdealer e nel settore reddito fisso europeo, attira addirittura gli interessi della Borsa cinese e lancia Mts Israel, che in poche settimane raggiunge volumi di scambio superiori al miliardo di euro. «L’alchimia funziona – dicono i boss – vediamo come tramutare in oro i sogni e i bisogni della gente».

«Da quel momento – scrive Benigni – si crea infatti una specie di bacino virtuale, un lago digitale di bond, alimentato dalla esigenza degli Stati di ottenere denaro in una stagione in cui non possono più stampare moneta». Ecco la chiave: gli Stati dell’Eurozona, tagliati i rubinetti della moneta sovrana, devono ricorrere ai signori della finanza speculativa, che attraverso l’Mts li attendono al varco dettando le loro condizioni-capestro. «È qui, al mercato secondario Mts, che si rivolgono gli Stati che hanno adottato l’euro, più ogni Stato che sta per adottarlo (era il tempo della Slovenia), più Israele. È qui che si trattano le emissioni a reddito fisso. È qui che le banche manifestano il loro interesse ad acquistare». Per noi, è l’inizio della fine: il ricatto del debito incuberà il massacro sociale dell’austerity. E i signori dello spread si portano avanti col lavoro: già nel 2007, nonostante l’orgoglio e le aspettative di successo italiano sbandierate da Garbi, Borsa Italiana, che possedeva il 60,37% di Mts SpA, si fonde con il London Stock Exchange, Lse, e si crea il London Stock Exchange Group.

L’unico a lanciare l’allarme è un deputato napoletano di Forza Italia, Aldo Perrotta (*) : «Dopo la privatizzazione del 1997 la Mts ha conquistato la leadership mondiale tra i listini dedicati ai bond governativi; attualmente però il 54% delle azioni sono in mano ad una società estera; il controllo in mano straniera potrebbe portare a crisi come quella della Citigroup; l’Italia non deve abbandonare più “pezzi di competenza” di finanza». Dai media, silenzio assoluto. Anche quando i boss del London Stock Exchange Group strappano il timone dalle mani italiane e lo affidano a Jack Jeffery, già manager della Citigroup, grande esperto di digital brokerage e reduce dall’incarico di direttore generale di una società dal nome eloquente, SuperDerivatives. Dal settembre del 2009, Jeffery si siede al tavolo di comando della ex Mts, ora Market of Treasury Securities, il cui volume di scambi è arrivato a 2 trilioni di euro l’anno.

La nomina di Jeffery è voluta da Xavier Rolet, potente chief executive del London Stock Exchange. Missione: «Placare le grandi banche d’investimento che nel 2008 hanno protestato perché il mercato dei bond è stato aperto ad altri soggetti finanziari, tra cui i temuti hedge funds», scrive il “Financial News”. Ci siamo: Jeffery si frega le mani e dice che c’è tanto da lavorare «grazie al livello record di indebitamento dei governi in tutta l’Eurozona». Cioè: più si va verso il tracollo, più loro diventiamo ricchi. Dal 2010 al 2012, aggiunge Benigni, la nuova Mts elabora procedure sempre più complesse per la gestione online delle compravendite e acquisisce nuovi “clienti” come l’Ungheria e la Repubblica Ceca, portando così a 17 il numero totale degli Stati europei che chiedono denaro alle banche attraverso l’Mts. Ormai comanda la City, attraverso il London Stock Exchange, in sintonia col Nasdaq. Di chi è, oggi, l’Mts inventato da Amato e Ciampi? Alla voce “corporate”, il sito sciorina i maggiori azionisti, il gotha bancario dell’Occidente: Jp Morgan, Barclays, Deutsche Bank, Crédit Agricole, Royal Bank of Scotland, Bnp Paribas, Hsbc, Abn Amro, Citigroup, Natixis, Goldman Sachs, Societé Générale, Citibank, Ubs, Merrill Lynch, Commerzbank, Credit Suisse.

«E gli italiani? Dove sono finiti gli “inventori”, i nipotini di Amato, Ciampi, Draghi?». Eccoli: «In testa c’è Borsa Italiana SpA, seguita da Intesa San Paolo, Sella, Mediolanum, Cassa di Risparmio di Rimini, Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare di Bari, Unibanca, Corner Sim e Bcc di Roma». Al momento, aggiunge Benigni, non è nota la composizione azionaria, ma come mai trova posto un numero così grande di piccole banche italiane, a ridosso dei giganti mondiali? Qual è il loro ruolo nelle decisioni prese dal board e quali i vantaggi all’Italia che dovrebbero derivare dalla loro presenza? E chi opera, davvero, nel “lago digitale” dove ogni giorno si ammassano 90 miliardi di eurotonni-bonds? «Questo più o meno si sa. A grandi linee, un drappello di 6 maggiori istituti di credito – Barclays, Deutsche Bank, Rbs, Crédit Agricole, Jp Morgan e Societé Generale – siede al tavolo delle prime contrattazioni e valuta le offerte di bond dei 17 Stati». Ovvio che sono le super-banche a “fare il prezzo”, mettendo in fibrillazione lo Stato che mette all’asta i suoi titoli. Richieste, esitazioni, dubbi: «Ogni 5 minuti, ogni verifica richiesta dai compratori abbassa il prezzo e/o alza il tasso di interesse». Così, «i compratori hanno un’influenza indebita e spropositata sui governi e sui popoli che i governi rappresentano».
La contrattazione è complessa, con le economie locali in balia dei giochi della finanza globale, tra pressioni politiche e a volte anche militari. «Al dunque tutto si fonda su un concetto molto astratto: l’affidabilità di un governo. Un concetto che però diventa concreto quando “affidabilità” si traduce in “capacità di un governo di far pagare ai cittadini i debiti che hanno contratto i governi che lo hanno preceduto”». I grandi compratori, aggiunge Benigni, mettono a disposizione di un gruppo di altre 30 banche i titoli che si stanno trattando. A loro volta, le 30 banche mettono a disposizione di circa 1000 istituti di credito, disseminati sui territori, i bond che sono stati acquistati. «In quei lunghi momenti, il batticuore dei ministri delle Finanze e del Tesoro (teoricamente) aumenta a dismisura». E, grazie a velocissime contrattazioni online, alle quali hanno accesso solo gli istituti bancari, «si succedono sequenze di prezzi tali che, alla fine del processo, il titolo è disponibile agli sportelli delle banche medesime per essere offerto (in gran parte) a quegli stessi cittadini-risparmiatori, che sono in definitiva sia i produttori del Pil che i garanti del debito del loro Stato».

In quei momenti decisivi, i grandi compratori dirigono il traffico di flussi strategici e vitali per gli Stati, con piena facoltà di sostenere o mettere in difficoltà i governi. «E lo fanno inevitabilmente privilegiando i propri interessi, spesso chiedendo ricadute e privilegi su quei territori che hanno bisogno di accedere al credito: “Privatizza questa azienda, fammi comprare quest’altra, ostacola la produzione in questo settore, rallenta quella legge, accelera quest’altra”». Inutile girarci attorno. «Si chiama: perdita di sovranità e globalizzazione passiva. Ci siamo dentro fino al collo», tutti noi dell’Eurozona. Ed è proprio dal sistema Mts, tra l’altro, che si innesca la miccia dello spread: «Al variare del comportamento dei grandi compratori, questo valore-parametro oscilla su e giù». Lo spread si ottiene dal rapporto tra il tasso di interesse applicato ai bond di una nazione di Eurolandia e quello equivalente applicato alla Germania, che ha ottenuto lo status di “paese di riferimento” perché altrimenti non sarebbe entrata nell’euro. «La miccia dello spread è tremenda: quando il suo valore cresce, brucia velocemente, si avvicina pericolosamente alla bomba-bancarotta e giustifica rimozioni di primi ministri e membri dei governi, emergenze “tecniche”, perverse e frettolose manovre finanziarie, licenziamenti di massa, suicidi, proteste di piazza e conseguenti scontri con morti e feriti».

La scena è decisamente paradossale, conclude Glauco Benigni. Come si è giunti a tutto ciò? Ovvero: «Come si può pensare di sostituire la giusta esigenza di un popolo di sopravvivere dignitosamente, magari andando a deficit come fanno tutti quelli che ancora possono, con il gioco usuraio sul bisogno indotto?». E poi, «come si può pensare che un debito pubblico palesemente iniquo e gonfiato, accumulato in modo cinico, incauto e avido dai governi che si avvicendano, debba e possa essere ripagato con privazioni, lacrime e sangue dai cittadini?». Ancora: «Come si può giustificare che tale debito pubblico sia raddoppiato nella sola Italia, dal 1994 ad oggi, passando da 1000 a 2000 miliardi di euro? Come si può sopportare che le sorti dei popoli, sottratte ai Parlamenti, siano finite nelle mani di mercanti anonimi, diabolici alchimisti che tramutano le nostre vite in oro per le loro casse?».
 

E’ utile srotolare la pellicola del film.
Prima la disabilitazione di Bankitalia come “prestatore di ultima istanza”, con lo Stato costretto a rivolgersi ai mercati finanziari privati.
Pietra tombale: l’adesione all’euro e la rinuncia, senza contropartite, alla sovranità monetaria. Che oggi si traduce in fine della sovranità nazionale, politica, economica, sociale.
E’ il Fiscal Compact a stabilire quanto Roma può spendere per gli italiani, il governo si limita a ratificare. Intanto il paese crolla.
E gli avvoltoi dell’Mts fanno miliardi sulla nostra pelle.



Giorgio Cattaneo - 25/06/2013


fonte : qui


(*) onore al merito...


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capito, insielino/a ?

martedì 18 giugno 2013

Le mani (loro) in tasca (nostra)






Sciolta l'area 'la CGIL che vogliamo'

Nella riunione di coordinamento nazionale della scorsa settimana è stato deciso lo scioglimento dell'area 'la CGIL che vogliamo'.
L'area di minoranza congressuale da tempo era totalmente inattiva e la Rete 28 aprile si era ricostituita proprio per reagire a questa situazione... 
Ora la decisione di sciogliere formalmente la minoranza è coerente con la scelta di sostenere il terribile accordo sulla rappresentanza a del 31 maggio e di concordare con Susanna Camusso di fare il congresso sulla stessa posizione.. 
Decisiva per queste scelte è stata la progressiva involuzione delle posizioni del gruppo dirigente Fiom, oramai in totale sintonia con quelle del gruppo dirigente CGIL e totalmente rientrate nel contesto politico del centrosinistra. A questo punto la nuova maggioranza  che governa la CGIL è la maggioranza Camusso - Landini, alla quale intendiamo opporci con rigore e coerenza....
    
Redazione Rete28Aprile
17/06/2013
 

sabato 15 giugno 2013

Il protocollo anti-FIOM

L’accordo tanto atteso e temuto sulla rappresentanza sindacale, è stato infine siglato da Cgil-Cisl-Uil e Confindustria, Venerdì 31 Maggio 2013.
Data storica ha sentenziato la stampa padronale. Storico accordo le han fatto eco Governo e vertici confederali. Un trionfo per tutti insomma, ma come l’esperienza insegna, quando tutti sorridono, a piangere saranno solo i lavoratori. Infatti, storicamente, non abbiamo mai fatto il benché minimo passo in avanti senza lotta e mobilitazione. Perciò, senza alcun mandato dei lavoratori a trattare, senza uno straccio di sciopero per conquistarlo, l’accordo sulla rappresentanza è inequivocabilmente fuori dalla nostra Storia, perché entra di diritto nelle pagine memorabili di quella dei padroni.


Se la firma di Angeletti, Bonanni e Camusso era ampiamente prevedibile, la sorpresa è stata il giudizio positivo e la sostanziale approvazione della Fiom di Landini che in questi anni, pur tra mille contraddizioni, è stata la sola forza di un certo peso ad opporsi all’attacco padronale. Eppure, a ben guardare e solo per menzionare le ambiguità più vistose, la Fiom è passata dalla bocciatura dell’accordo del 28 Giugno 2011 alla sua accettazione, dall’abolizione del patto di solidarietà con Fim e Uilm alla sua riproposizione, dalla presentazione della Piattaforma per il rinnovo al suo accantonamento per un accordo ponte. È, dunque, in questa linea altalenante, nei suoi continui zig-zag che si trova la logica conseguenza del rientro nell’ordine di Landini.

Il Protocollo d’intesa – questa la dizione ufficiale – è basato sull’accordo del 28 Giugno 2011 che apriva al resto d’Italia il modello Marchionne con le deroghe ai contratti e le sanzioni contro gli scioperi. Ed è così in effetti che la Fiom rientra al tavolo delle trattative, non cacciando da Mirafiori e Pomigliano il contratto di Fim e Uilm, il quale resterà in vigore esattamente come prima visto che Fiat è ormai fuori da Confindustria, ma facendo entrare anche nel resto del Paese il modello Fabbrica Italia, alias modello Cisl e Uil, dove se non sei d’accordo preventivamente con le condizioni poste dal protocollo, non hai diritto a trattare. Dalla battaglia perché fossero i lavoratori a poter scegliere liberamente chi dovesse rappresentarli ai tavoli, la Fiom di Landini, con una completa giravolta, è passata infine ad accettare che siano sindacati confederali e Confindustria, a stabilire preliminarmente quali siano le condizioni coercitive per aver diritto a trattare. Un sindacato dovrà rappresentare almeno il 5% dei lavoratori, ma anche qualora rappresenti il 10% o più, se non avrà sottoscritto il protocollo non potrà sedere al tavolo.


È così che verrà eliminato tutto l’arcipelago dei Cobas e dei sindacati di base. A quel punto, la quota di un terzo per le RSU che prima veniva assegnata d’ufficio ai firmatari di contratti nazionali, non servirà più. È questo che viene chiamato superamento della quota 1/3 con elezione interamente proporzionale della RSU. In realtà si passa da un 33% di rappresentanza nominata dall’alto, a una rappresentanza eletta formalmente dal basso, ma controllata al 100% dai vertici sindacali. Infatti, i delegati che durante il mandato cambieranno tessera sindacale, decadranno e saranno sostituiti dai primi non eletti in lista. Non è chiaro se questo varrà anche per chi toglierà semplicemente la tessera o per chi verrà espulso dalla sua organizzazione, ma è evidente che la pressione sui delegati scomodi o contrari ad accordi al ribasso salirà vertiginosamente.

Confermato e rafforzato il monopolio confederale sulla rappresentanza, potrà cominciare la certificazione del peso di ogni organizzazione, che sarà stabilita da una media tra gli iscritti e il numero di rappresentanti. Per validare piattaforme e accordi sarà necessario aver il 50%+1 dei consensi. Ma anche col 50% + 1 della rappresentanza, non è affatto detto che la Fiom riesca a scongiurare accordi separati. Infatti, l’accordo dice che in caso di divergenze e di piattaforme separate, i padroni non saranno obbligati a trattare con la piattaforma che ha il sostegno maggiore, ma dovranno semplicemente limitarsi a “favorirla” diciamo così per buon senso. Ma non sarà facile convincere la loro testa a favorire una richiesta di 200 euro di aumento (quella contenuta nella scorsa piattaforma per il rinnovo della Fiom), quando il loro portafogli avrà tutto l’interesse a favorirne una più modesta che s’accontenta di 135. Nessuno pagherebbe 70 euro circa in più per una merce che può avere a un prezzo decisamente più basso. Alla stessa maniera, Federmeccanica non sborserà 200 euro per comprare i metalmeccanici rappresentati dalla Fiom, per la stessa merce forza-lavoro che Fim e Uilm svendono a 135.

Inoltre, nella migliore delle ipotesi, la piattaforma promossa dalla Fiom col favore di Federmeccanica, dovrà ancora misurarsi col voto dei lavoratori. Il protocollo però, non solo non certifica il voto tramite un referendum – che è l’unico modo per certificarlo davvero – ma demanda le regole alle categorie stesse, lasciando così la Fiom già in partenza in minoranza. Non ci vorrà molto a Fim e Uilm per imporre regole assurde come la necessità, per l’approvazione, della maggioranza degli iscritti in tutte e tre le organizzazioni, oppure semplicemente il voto per impalpabile alzata di mano che prontamente sconfesseranno al momento di verbalizzarlo.

Se questa è l’ipotesi migliore, quella più realistica è che col rientro della Fiom, per abbassarne il suo peso, cominceranno la caccia al tesseramento interessato e la proliferazione dei sindacati di comodo. Frotte di lavoratori saranno minacciati e costretti a iscriversi ai sindacati gialli promossi dalle aziende o più semplicemente a Fim e Uilm, loro complici naturali. Nel giro di poco, la Fiom vedrà quel 50% +1 con cui è convinta di vincere la partita, passare al 50%-1 con cui i padroni le infliggeranno una delle sue più sonore batoste.

Ma cosa succederà qualora, la Fiom riesca lo stesso a ottenere di trattare sulla sua piattaforma e di farla approvare dal 50%+1 dei lavoratori? Quello che la stessa Fiom aveva già preventivato ai tempi dell’accordo del 28 Giugno 2011 e che ora sembra dimenticare. Nella minuziosa analisi critica di ben 8 pagine dell’accordo del 28 Giugno, la Fiom, attraverso quella sua versione allargata che è La Cgil che vogliamo, scriveva infatti: «accordi come questo, ed anche molto, ma molto, più precisi e vincolanti, sono stati sottoscritti nel passato, come quello presente nel Terziario e nel lavoro pubblico. Non sono mai serviti a nulla, di fronte a divergenze CISL e UIL non li hanno rispettati e sono divenuti carta straccia alla prima divergenza; come nel caso dei due contratti separati del 2008 e del 2010 del settore Terziario e commercio. Analogamente è accaduto con la firma separata per l’ultimo contratto pubblico dei ministeri».

L’unica cosa certa che la Fiom otterrà da questo protocollo, sono le sanzioni contro lo sciopero e lo scollamento dai lavoratori. Gli accordi infatti, come recita il testo del 28 Giugno, saranno vincolanti ed esigibili solo «per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali firmatarie del presente accordo […] e non per i singoli lavoratori». È dietro questo cavillo che i vertici sindacali si nascondono per negare di aver limitato il diritto più sacro, facendo finta di non sapere che tra forme di raffreddamento e altre mille pratiche burocratiche, 99 scioperi su 100 son destinati a perdersi prima ancora di cominciare. Peggio ancora, quello che partirà lo stesso, lo farà da solo, senza i delegati che dovranno rimanere a guardare, e saranno sempre più visti dai lavoratori, non come loro rappresentanti, ma come gli ultimi, estremi guardiani al servizio dei padroni.

Ecco, questo è lo scenario che si va prospettando. Ma si va prospettando sulla carta. E tra il pezzo di carta e la realtà ci passa la lotta di classe. L’accordo è destinato a fallire o perché con l’inasprimento della crisi ai padroni non basterà più, o perché la Fiom si accorgerà ben presto di non aver fatto alcun passo avanti, o infine perché i lavoratori lo faranno saltare con la mobilitazione. È a questa eventualità che noi dobbiamo lavorare con determinazione e pieni di fiducia.
 
Lorenzo Mortara - 13/06/2013
Rsu Fiom-Cgil Rete28Aprile
 
 

lunedì 10 giugno 2013

Intervista a Liberazione di Giorgio Cremaschi

Cremaschi: «Sanzioni per chi sciopera. E la Fiom è d'accordo». 
Il leader di Rete 28 Aprile spara a zero sull'accordo sulla rappresentanza sindacale nel settore privato.

Giorgio Cremaschi, leader di Rete 28 Aprile (minoranza Cgil). L'accordo sulla rappresentanza sindacale nel settore privato firmato da Cgil Cisl Uil con Confindustria è stato definito “storico” perché colma - bene o male, a seconda dei punti di vista - quel vuoto di regole che negli anni recenti ha consentito alle imprese di scegliersi i propri interlocutori. Sei d'accordo?
 (...)

E' un accordo “storico”, ma in senso negativo. Questo accordo infatti risolve alla radice il problema per i padroni di scegliere con chi trattare, perché, con le regole firmate, Cgil Cisl e Uil accettano la limitazione e l'attacco al diritto di sciopero, in pratica il modello Fiat viene esteso a tutti i lavoratori. Faccio un esempio. Tutta questa fase non sarebbe avvenuta se nel giugno del 2010 la Fiom avesse firmato l'accordo con Fiat, dopo avere perso i referendum, e si fosse impegnata a non scioperare e a non fare cause legali perché la maggioranza dei lavoratori e delle Rsu aveva approvato quell'intesa. Se allora la Fiom avesse firmato, oggi non sarebbe fuori dal tavolo perché la Fiat avrebbe accettato la sua presenza come sindacato di minoranza dentro il sistema. La selezione degli interlocutori c'è, ma viene fatta in via preliminare: chi accetta di limitare il diritto di sciopero è dentro, chi non lo accetta è fuori. In questo modo i lavoratori non hanno più diritto a una rappresentanza libera ma possono avere solo una rappresentanza vincolata alla limitazione del diritto di sciopero.

Hai parlato di modello Fiat esteso a tutti i lavoratori. In realtà, se c'è un limite che tutti riconoscono di questo accordo è proprio il fatto che non vale per la Fiat, perché non è più iscritta a Confindustria. E comunque sia, se non vale per la Fiat,  l'accordo non dovrebbe valere nemmeno per gli iscritti a tutte le organizzazioni sindacali che non fanno parte di Cgil Cisl e Uil. 


Certo che non vale, però chi non accetta questo accordo non ha i diritti sindacali. Quindi è vero che sei libero, ma sei clandestino. Nessun può partecipare alle elezioni delle Rsu e alle trattative se non accetta le limitazioni al diritto di sciopero. In più, si istituisce un sistema di controllo poliziesco dall'alto sui lavoratori. Mi riferisco in particolare a quella clausola mostruosa - che mi ha fatto dire che siamo di fronte a un vero e proprio “porcellum” sindacale - per cui se un delegato Rsu “dissidente” cambia organizzazione o viene mandato via dall'organizzazione nelle cui liste è stato eletto, viene destituito e non è più delegato. Quindi di fatto si toglie ai lavoratori il diritto di scegliersi i propri delegati. Una volta firmato un accordo, c'è un sistema “a cascata” per cui Cgil Cisl Uil controllano le federazioni nazionali di categoria, queste ultime controllano i territori e i territori a loro volta controllano i delegati.

Per la verità, l'accordo demanda alle categorie la definizione delle procedure di raffreddamento, non c'è alcun accenno a forme di centralizzazione disciplinare e sistemi di controllo “a cascata”…


Non è così, il testo dell'accordo è chiarissimo e chi dice il contrario mente sapendo di mentire. Nell'accordo sulla rappresentanza, c'è la parola “dovranno”. Infatti c'è scritto che, alla firma dei contratti, le categorie “dovranno” decidere le clausole di raffreddamento - cioè che non si sciopera, per essere chiari - e “dovranno” decidere le conseguenze se si sciopera, cioè le sanzioni.

La parola “sciopero” però non è nemmeno nominata nell'accordo, almeno questo lo ammetti…


Infatti si va oltre lo sciopero, si parla di tregue e clausole di raffreddamento, il che è peggio perché include anche le cause legali e altre forme di protesta. Se in Fiat fosse in vigore questo accordo, la Fiom dovrebbe ritirare tutte le cause fin qui intentate. Quindi, ripeto, chi dice che non ci sono limitazioni al diritto di sciopero e che non sono previste sanzioni per chi sciopera mente sapendo di mentire. Il problema di fondo è che la propaganda a favore di questo accordo, come è sempre avvenuto per gli accordi più negativi per i lavoratori, non ricalca il testo dell'accordo. Per cui invito tutti a leggersi il testo dell'accordo e a non basarsi sulle dichiarazioni dei sindacalisti.

E tuttavia sono costretto a farti notare che ci sono altre interpretazioni, diverse dalla tua, di quello che c'è scritto nell'accordo. Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, ad esempio, in una intervista all'Unità ha spiegato che «procedura di raffreddamento significa che, se c'è un problema, ci si confronta con l'azienda per risolverlo» e non che si accetta una limitazione del diritto di sciopero.


Allora ti rispondo con la dichiarazione formale che Landini fece all'indomani dell'accordo del 28 giugno 2011. Quando disse, testuali parole, che «le clausole di tregua previste dal 28 giugno», che sono le stesse ora trasferite sull'accordo sulla rappresentanza, «sono inaccettabili e sono un cedimento della Cgil rispetto ai suoi principi». Landini dice una cosa falsa, lui sa perfettamente che il sistema che si sta istituendo non è un altro sistema, tanto è vero che il testo dell'accordo è il testo Fiat. Quindi è Landini che ha cambiato radicalmente posizione.

Questo accordo sulla rappresentanza prevede che un accordo, per essere valido, debba essere sottoscritto dal 50% più uno delle organizzazioni sindacali e approvato, con consultazione certificata, dalla maggioranza semplice dei lavoratori. La Fiom ha sempre detto che avrebbe accettato intese non condivise, purché votate dalla maggioranza dei lavoratori. Così ha fatto alla Piaggio di Pontedera. Dove starebbe adesso la contraddizione?


Anche questo fa parte di una campagna di mistificazione. Alla Piaggio in questi giorni sono in corso scioperi contro quell'accordo. Proprio perché quell'accordo - che la Fiom, è vero, ha accettato dopo il referendum - non prevede limitazioni del diritto di sciopero. Se fosse stato in vigore questo accordo confederale, il sì della Fiom all'accordo Piaggio avrebbe voluto anche dire che la Fiom non poteva più proclamare scioperi. E' chiaro che la maggioranza dei lavoratori ha diritto di decidere un accordo. Ripeto, però, che la Fiom a Pomigliano si è rifiutata di firmare l'accordo del 2010 anche se la maggioranza delle Rsu di Pomigliano e dei lavoratori di quello stabilimento votarono sì. Oggi questo la Fiom non lo potrebbe più fare. E chi dice il contrario, mente sapendo di mentire.

Però chi non è iscritto a Cgil Cisl Uil - lo Slai Cobas a Pomigliano, tanto per fare un esempio - potrebbe proclamare scioperi senza incorrere in sanzioni. Giusto?


Questo è sicuro, però lo Slai Cobas se non accetta le nuove regole non potrà più partecipare alle elezioni delle Rsu. E se per caso a un delegato Rsu Cgil venisse in mente di proclamare uno sciopero, ad esempio sui sabati, in presenza di un accordo siglato dal suo sindacato di appartenenza, verrebbe dimesso da delegato e lo sciopero ritirato. Io invito tutti a leggersi il testo dell'accordo. Voglio sottolineare in conclusione che la Cgil ha violato il suo statuto perché ha firmato questo accordo senza la consultazione dei lavoratori e degli iscritti come invece tassativamente prevede lo statuto.


Roberto Farneti
07/06/2013
da www.rete28aprile.it


martedì 4 giugno 2013

Sull'accordo sulla rappresentanza


Lettera aperta a Maurizio Landini


Caro Landini, hai commentato l’accordo interconfederale del 31 maggio sulla rappresentanza dal sito della tua organizzazione (e poi ribadito nell’intervista rilasciata sabato al Manifesto) giudicandolo “positivo e importante… un passo avanti in materia … di democrazia nei luoghi di lavoro” che riconosce “il valore delle nostre lotte” e che “parla alla politica perché risolve…quella che è una crisi generale della rappresentanza”. Ed invece - interrogato sui “problemi che restano aperti” - l’unico limite che hai identificato è che il patto “non risolve il problema della Fiat”, ed è “proprio per questo necessario arrivare comunque ad una legge” che evidentemente speri possa ricalcare i medesimi contenuti dell’accordo. (...)
Ed allora vediamo quali sono questi contenuti. Nell’accordo del 31 maggio si poggia la rappresentatività sindacale su due gambe: le “iscrizioni certificate” e “il dato elettorale” nelle elezioni per le Rsu. Le “iscrizioni certificate” sono le “deleghe” ovverosia le trattenute sindacali operate dai datori di lavoro, di cui - dopo gli sciagurati referendum del 1995 - solo i sindacati firmatari di contratto (sostanzialmente Cgil Cisl e Uil) hanno diritto. E davvero non credo che proprio tu possa ritenere che l’esclusione dalla possibilità di rappresentare i lavoratori dei sindacati che non hanno firmato il contratto nazionale sia “un passo avanti in materia… di democrazia nei luoghi di lavoro”. Ma ancora più rilevante è l’analisi della seconda gamba, ovverosia “il dato elettorale” nelle elezioni per le Rsu . Ed infatti in base all’accordo del 31 maggio nei posti di lavoro (di certo prevalenti) ove i lavoratori già oggi non votano per eleggere i propri rappresentanti si potrà procedere al “passaggio alle elezioni delle Rsu ….solo se definito unitariamente dalle federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie il presente accordo” con pesantissimo arretramento rispetto al protocollo del 1993 che prevedeva il potere di impulso a qualsiasi sindacato raccogliesse il 5% delle firme dei lavoratori e aderisse alle procedure elettorali di cui al protocollo stesso. Con il patto del 31 maggio il diritto di scelta dei propri rappresentati non è più neppure formalmente dei lavoratori ma diviene una facoltà di Cgil, Cisl e Uil azionabile discrezionalmente a seconda delle convenienze azienda per azienda. Insomma, quand’anche la Fiat rientrasse in Confindustria, comunque senza il consenso di Fim e Uilm e Federmeccanica i lavoratori non potrebbero votare. Ma addirittura stupefacente è la successiva previsione contenuta nell’accordo del 31 maggio per cui comunque - laddove le elezioni delle Rsu invece si terranno - “ai fini della misurazione del voto espresso da lavoratrici e lavoratori nella elezione della Rappresentanza Sindacale Unitaria varranno esclusivamente i voti assoluti espressi per ogni Organizzazione Sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa”. 
Insomma - dato che tu stesso additi le regole dell’accordo di venerdì scorso “alla politica” come strumento per “risolve(re)…quella che è una crisi generale della rappresentanza” - è come se consigliassi all’omologo governo di larghe intese di fare una riforma elettorale che dica che il cittadino può scegliere il partito che vuole ma poi, per la distribuzione dei seggi in Parlamento, varranno esclusivamente le tessere e i voti espressi per i soli partiti aderenti alla maggioranza che sostiene il Governo Letta-Alfano, realizzando un sistema quanto meno”protetto” cioè autoritario. 
Ed ancora più stupefacente è che, alla domanda sui limiti dell’accordo, tu abbia del tutto omesso di riferire come per te (e per la tua organizzazione) sia almeno un “problema” il fatto che l’accordo del 31 maggio non solo prevede “l’impegno... a non promuovere iniziative di contrasto agli accordi” ma che ad esso si aggiunge il rinvio ai contratti di categoria per identificare “le conseguenze di eventuali inadempimenti”. E così il patto del 31 maggio ha fatto cadere persino la davvero minimale clausola di garanzia contenuta nell’accordo del 28 giugno 2011 che quanto meno imponeva che le sanzioni riguardassero “non i singoli lavoratori” avendo invece da oggi i contratti nazionali facoltà di colpirli qualora vogliano mettere in campo “iniziative di contrasto” (come subito rilevato dal vicepresidente di Confindustria Dolcetta sul Sole 24 ore del 2 giugno). Insomma forse per qualche giorno la tua personale credibilità e quella della tua organizzazione potranno impedire ai più di comprendere appieno i contenuti dell’accordo e quindi prendere per buona la tua affermazione per cui l’accordo del 3 maggio “riconosce il valore delle nostre lotte”. Ma il punto è che quando dici “nostre” non puoi fare riferimento solo al gruppo dirigente nazionale che ti sostiene e neppure alla sola Fiom ma lo devi fare al ben più ampio movimento di cittadini, studiosi, personalità pubbliche, associazioni, partiti e altri sindacati che con te si sono attivati e battuti. Ti ricordo allora che le “nostre” lotte non erano per sostituire la regola dell’art. 19 dello Statuto per cui può rappresentare i lavoratori solo chi firma il contratto con la nuova regola del 31 maggio per cui possono rappresentare i lavoratori solo Cgil Cisl e Uil. Le “nostre” lotte non erano solo per ottenere il doverosissimo reingresso della Fiom ai tavoli della contrattazione e nella pienezza dell’agibilità sindacale (trattenute, diritto di assemblea eccetera) in cambio della rinunzia al conflitto sindacale e giudiziario. Le “nostre” lotte erano per l’esatto contrario: un nuovo protagonismo conflittuale e democratico dei cittadini al lavoro. E già da sabato e domenica sono iniziate sia a Roma che a Milano contestazioni spontanee che presumibilmente non tarderanno molto ad estendersi via via che si sarà compreso il contenuto del patto del 31 maggio. Credo quindi tu abbia oggi tre scelte davanti a te da prendere molto rapidamente. La prima è dire che il tuo giudizio positivo atteneva alla scelta di contare voti e tessere ma che non approverai mai nessun accordo e nessuna legge che non prevederanno il diritto universale dei lavoratori di votare e il corrispondente dovere di contare voti e tessere di tutti i lavoratori senza alcuno scambio con il diritto al conflitto, continuando così ad essere uno dei protagonisti assoluti della battaglia per la democrazia sul posto di lavoro. La seconda scelta è dire la verità sui disastrosi contenuti dell’accordo del 31 maggio e provare a spiegare la tua posizione per tentare di tenere unito un filo di confronto con i moltissimi che hanno guardato alla Fiom e a te personalmente con speranza e fiducia e che ora si sentono abbandonati e delusi. La terza scelta è continuare a sostenere che l’accordo del 31 maggio sia “positivo e importante… un passo avanti in materia …di democrazia nei luoghi di lavoro” da generalizzare per legge, diventando così tu di fatto un vero e proprio ostacolo (forse il maggiore) sulla strada della democrazia del lavoro in questo paese. Nella sincera speranza tu voglia scegliere la prima strada, ti invio un cordiale saluto 
Roma, 3.6.2013 
Carlo Guglielmi, Presidente del Forum Diritti Lavoro
fonte : Rete 28 Aprile

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Comitato esecutivo R28A

Lotta a fondo contro l'accordo antidemocratico sulla rappresentanza. (...)


L' accordo sulla rappresentanza viola la Costituzione e lo Statuto
della CGIL, come abbiamo detto e votato nel direttivo nazionale. 
Questo accordo è stato approvato senza rispettare l'obbligo statutario
della consultazione dei lavoratori e degli iscritti, per questo lo consideriamo privo di legittimità formale e agiremo di conseguenza.
La Rete 28 aprile è impegnata a lottare contro questa intesa, per fare sì che essa fallisca e le lavoratrici ed i lavoratori conquistino finalmente il diritto alla rappresentanza e alla democrazia sindacale e venga fermato l'attacco al diritto di sciopero. 
La lotta conto l'accordo sarà parte della mobilitazione contro le politiche di austerità, che il patto impone nei luoghi di lavoro. Diremo no all'accordo per lottare contro la flessibilità e la precarietà, contro il taglio dei salari e i licenziamenti, contro l'aggressione alle condizioni di lavoro e ai diritti, contro lo sfruttamento.
L'accordo impone la esigibilità , cioè il modello Fiat, perché il padronato, che oggi canta vittoria, vuole contratti peggiorativi e lavoratori obbligati ad accettarli. 
La scelta della maggioranza della CGIL e della FIOM di firmare questa intesa contraddice tutta la lotta di questi anni e rappresenta una resa alle posizioni di CISL UIL e del grande padronato.
Per contrastare il patto la Rete 28 Aprile organizzerà una mobilitazione con tutte le sue forze, anche assieme al sindacalismo di base e a forze democratiche, al mondo dei giuristi e dell'impegno civile, ai movimenti sociali.
È necessaria una vasta campagna di informazione, visto che le lavoratrici e i lavoratori vengono tenuti all'oscuro dei reali contenuti della intesa.
Il 29 Giugno a Roma è convocata a Roma l'Assemblea nazionale della Rete, tutte tutti sono impegnati a partecipare per organizzare ed estendere la iniziativa contro l'accordo e costruire l'alternativa in vista del congresso.
L'esecutivo nazionale della Rete esprime solidarietà e pieno sostegno a tutte le compagne e i compagni sottoposti a provvedimenti disciplinari eamministrativi in CGIL. Questa stretta inaccettabile nella vita interna della organizzazione è anch'essa il segno della involuzione burocratica e autoritaria nella vita sindacale, che l'accordo sulla rappresentanza tenta di istituzionalizzare e rendere permanente.
Anche per questa ragione dobbiamo tutte e tutti mobilitarci

Esecutivo nazionale Rete 28 Aprile 
3 giugno 2013

VIDEO :

domenica 2 giugno 2013

La complicità sindacale e la controriforma della Costituzione

Quando ho cominciato a fare il sindacalista negli anni 70 del secolo scorso, dopo ogni accordo sindacale la prima cosa che chiedevano  i lavoratori in assemblea era: ma il padrone lo applicherà? Allora in genere si facevano accordi che miglioravano la condizione delle persone, e la prima preoccupazione era quella di non dover fare troppi scioperi anche per ottenere l'applicazione della intensa appena conquistata. Oggi la piena " esigibilità" degli accordi viene vantata dal presidente della Confindustria come il maggior pregio dell'accordo sulla rappresentanza appena sottoscritto con CGIL CISL UIL .(...)
 La ragione di questa inversione di ruoli è molto semplice, gli accordi che si fanno e si faranno servono a peggiorare il salario e le condizioni di lavoro e quindi è alle persone sottoposte ad essi che bisogna imporre l'ubbidienza. Questo significa la piena applicazione dell'accordo del 28 giugno 2011, con il suo via libera al regime delle deroghe ai contratti nazionali.

L'accordo serve a superare ciò che ancora resta della divisione tra lavoratori garantiti e non, naturalmente estendendo a tutti la condizione peggiore. Del resto la flessibilità dei salari e degli orari è ciò che ci chiede la Commissione Europea per proseguire la politica di rigore. 

L'accordo è la istituzionalizzazione della austerità nei luoghi di lavoro.

In pratica l'accordo istituisce il maggioritario sindacale con soglia di sbarramento.

Attenzione, lo sbarramento vero non è quel confuso 5% di rappresentatività che dovrebbe dare accesso al tavolo dei contratti, quello è un trucco per gonzi e giornalisti economici, perché la selezione avviene prima. Infatti fruiscono del diritto alla rappresentanza solo le organizzazioni che sottoscrivono l'accordo impegnandosi al rispetto di tutte le sue parti. 

Per capirci è come se la nuova legge elettorale stabilisse che possono candidarsi al Parlamento solo le forze politiche che sottoscrivono la politica di austerità, il fiscal compact e quanto altro serva. In fondo la proposta Finocchiaro ci è andata vicino...

Escluso così preventivamente tutto il mondo sindacale che non si riconosce in CGIL, CISL UIL e ancor di più esclusa ogni nuova rappresentanza del mondo del lavoro, affermato il principio  che chi siede al tavolo oggi occupa tutti i posti presenti e futuri, il maggioritario serve a disciplinare ciò che resta di diversità conflittuale, per capirci la FIOM e quelle RSU che ancora organizzano scioperi.

Il maggioritario sindacale stabilisce che una volta scremata preventivamente tra buoni e  cattivi la presenza al tavolo, tra i rimasti la maggioranza decide e la minoranza si adegua.

Bisogna dare atto al senatore Pietro Ichino di essere stato il primo a proporre un sistema di questo genere. 

Tra i sindacati firmatari, accedono al tavolo quelli che rappresentano più del 5% tra iscritti e voti per la elezioni delle Rappresentanze Sindacali Unitarie. Dove i lavoratori non votano per eleggere chi li rappresenta, ma il sindacato nomina propri fiduciari con le RSA, si continuerà a non votare e conterà per la misura della rappresentanza solo il numero degli iscritti.

Fatti tutti questi conteggi, i sindacati che assieme raggiungono il 50% più uno della rappresentanza decidono. 

Sulla piattaforma decidono le organizzazioni senza consultazione dei lavoratori e le aziende trattano solo con la maggioranza,  la minoranza sta al tavolo e guarda. 

Sugli accordi decide la stessa maggioranza e  consulta i lavoratori, in modalità certificate da definire. Cioè non necessariamente con il referendum, ma  anche con il voto palese registrato in assemblea. Sotto questo aspetto l'accordo è più arretrato del modello Marchionne, che è stato instaurato con il referendum.

Una volta deciso si esegue, anche se l'accordo non ti piace.

C'è stata la consueta ipocrisia da parte dei dirigenti sindacali in questi giorni. Noi non accetteremo le sanzioni contro gli scioperi, hanno proclamato. Ma l'intesa confederale ovviamente non ha questo compito, essa definisce un accordo quadro che verrà formalizzato nei contratti e negli accordi aziendali, questi ultimi con le nuove rappresentanze aziendali, appositamente selezionate nelle nuove elezioni e nomine previste nei prossimi sei mesi.

Il testo in ogni caso non si presta ad equivoci. I firmatari si impegnano a definire nei contratti "clausole di raffreddamento", cioè inibizione  dello sciopero e  delle azioni legali.  E non esiste clausola di raffreddamento che non preveda sanzioni per chi non la rispetta. 

Per capirci, se questa intesa fosse stata operativa quando la Fiat impose l'accordo capestro a Pomigliano, la FIOM avrebbe dovuto accettare l'intesa e in cambio sarebbe rimasta al tavolo e avrebbe continuato a godere dei diritti sindacali. Ora la CGIL firma quell'accordo e lo estende a tutto il mondo del lavoro anche per conto della FIOM.

Questo accordo pretende di cancellare dai luoghi di lavoro la stessa idea del conflitto sociale, vuole prevenire le lotte e le rivolte che si preparano. Se esso fosse stato siglato negli anni 50 non avremmo oggi lo Statuto dei lavoratori e quanto ancora resta dei diritti del lavoro e dello stato sociale. Esso definisce il regime della complicità sindacale, secondo la definizione del libro bianco dell'allora ministro Sacconi, ed è il primo atto di una più vasta controriforma della Costituzione repubblicana, sulla quale si stanno accingendo i partiti di governo che esultano ed i poteri economici che festeggiano ancora di più.

Per la CGIL è una resa rispetto ai propri  principi fondativi.

Cosa allora  farà Landini, cancellerà per il classico piatto di lenticchie tutto quello che ha significato in Italia il suo no alla Fiat, oppure manifesterà e organizzerà il dissenso a questa intesa liberticida?  

Speriamo, in ogni caso la lotta alle larghe intese politiche e sindacali avrà un nuovo avvio proprio dalla lotta a questo accordo. Qui bisogna subito costruire l'unità dei tanti che non ci stanno. La  ripresa sociale e politica, l' alternativa alle politiche di austerità passa oggi anche dal rigetto del patto sulla rappresentanza.
 
 
G.Cremaschi - 01/06/2013
Rete 28 Aprile