lunedì 24 settembre 2012

La Fiom e l'opposizione al governo Monti

Sergio Bellavita: «c’è bisogno di un sindacato che lanci parole d’ordine»

Grazie alle battaglie di Pomigliano e Mirafiori contro il modello Marchionne, la Fiom era ritornata ad essere il punto di riferimento per tanti lavoratori e per una potenziale opposizione sociale. Oggi, pur essendo ancora in prima linea in tutte le principali vertenze dall’Ilva all’Alcoa, sembra attraversare un momento di impasse. Di questo, così come dei problemi nel mondo del lavoro e delle difficoltà del sindacato abbiamo discusso con Sergio Bellavita, Segretario nazionale Fiom-Cgil. (a.l.)

 Quando Sergio Marchionne arrivò in Fiat, buona parte del mondo politico e sindacale italiano ne elogiò le grandi doti manageriali. Da Bonanni a Fassino passando per Bersani, soddisfazione e aspettative positive erano generali. Abbiamo visto in questi anni a cosa ha condotto la strategia dell’Ad di Fiat. Domani i ministri Passera e Fornero, assieme al Premier Mario Monti, lo incontreranno per ulteriori delucidazioni in merito alle politiche aziendali del gruppo in Italia. Pensi che ci si possa ancora aspettare qualcosa di positivo dal manager Fiat?
La strategia di Marchionne in Italia è stata essenzialmente quella di utilizzare il progetto Fabbrica Italia che era finto, evidentemente fasullo già dall’inizio, perché non era immaginabile triplicare la produzione in una fase di conclamata crisi come quella in cui ci trovavamo già nel 2009.
Tale progetto è stato utilizzato come leva sul terreno contrattuale e sociale per l’affermazione di un modello diverso, in cui venivano cancellati tutti i diritti conquistati negli anni 70; si è trattato di una vendetta sociale da parte del padronato, ed oggi è chiaro a tutti che sul terreno dei prodotti, del rilancio e difesa degli stabilimenti non c’è nulla. Il progetto di Marchionne è finanziario, ed è più legato all’operazione degli Stati Uniti, alla Chrysler, ai fondi ricevuti da Obama, non certo al carattere industriale di Fiat in Italia. Domani i ministri Fornero, Passera ed il premier Monti dovrebbero piuttosto comunicargli che lo stato italiano si farà carico di salvaguardare l’occupazione e gli stabilimenti in Italia e si prenderà direttamente Fiat.
Landini ha dichiarato che è necessario riprendere le assemblee ed impegnarsi affinché non vengano più sottoscritti accordi separati.
Che non vengano più firmati accordi separati è un auspicio, sarebbe utile ai lavoratori. Ma il punto è che quel che resta di Fabbrica Italia è il sistema schiavistico introdotto da Marchionne con la complicità di Fim e Uilm, e questo sistema va cancellato. Se Fim e Uilm capiscono che tutto quello che hanno fatto non solo non ha prodotto risultati ma ha ridotto l’occupazione, e fa lavorare peggio quei pochi rimasti, allora va bene, altrimenti bisogna lottare contro quel modello anche da soli.
Il 16 ottobre 2010 una grande manifestazione della Fiom diede l’impressione di essere l’inizio di una promettente mobilitazione in tutto il mondo del lavoro, sembrò un risveglio di combattività che poteva coinvolgere l’intero paese. In questi anni invece abbiamo assistito ad un regresso, ad una progressiva ritirata della Fiom. Cosa è successo?
Il 16 ottobre 2010 come Fiom abbiamo avuto una occasione straordinaria, c’era una richiesta incredibile di Fiom non solo da parte dei metalmeccanici ma di tutto il lavoro dipendente che si è riconosciuto nel no di Pomigliano e di Mirafiori, come un atto di resistenza ma anche come possibilità concreta di ripartire nella lotta. La Fiom invece non ha risposto a questa domanda, è mancata alla necessità di affermare un polo alternativo anche rispetto alle scelte della segreteria Cgil. Avrebbe dovuto fare un atto di rottura rispetto alle scelte della Confederazione, in vista della costruzione sociale del conflitto ma è venuta meno a questo compito.
Nonostante pesanti sconfitte, quali quelle sulla riforma delle pensioni e sull’art.18, la linea di Susanna Camusso continua ad essere ultramaggioritaria tra gli organismi dirigenti della Cgil. Pensi che le posizioni di Camusso siano effettivamente rappresentative delle richieste e dei bisogni della base?
Nel 2001-2002 quando Cofferati dichiarò guerra al tentativo di Berlusconi di sterilizzare l’art. 18 , tentativo più lieve di quanto ha poi fatto il governo Monti, la Cgil dall’alto decise di fare una mobilitazione straordinaria e sconfisse Berlusconi, salvando l’art.18. Questa volta la Cgil dall’alto ha deciso di non mobilitarsi nonostante la disponibilità della base a lottare ed a mobilitarsi ci fosse assolutamente. E’ evidente che il governo di larga coalizione con il Pd ha pesato su questa scelta, e siamo arrivati al punto più basse dell’autonomia della Cgil dal Pd. Il gruppo dirigente non offre nemmeno più possibilità di verifica perché le assemblee nei luoghi di lavoro si fanno sempre più sporadicamente.
L’opposizione alla Camusso dentro la Confederazione, “La Cgil che vogliamo”, non è mai arrivata ad essere conosciuta dai lavoratori, tantissimi ne ignoravano persino l’esistenza. Come mai questo vostro progetto è chiaramente fallito?
Il progetto è fallito senza mai aver davvero preso piede. Il congresso è andato decisivamente male, prima di tutto per i furti dei voti, non è stato democratico e quindi il documento di “La Cgil che vogliamo” ha avuto penalizzazioni forti, non ha avuto pari dignità, pari diritti, pari riconoscimento: dove nel congresso c’erano i rappresentanti di entrambi i documenti, magari vinceva anche la maggioranza, ma con voti risicati, ed una bassa partecipazione soprattutto. Dove c’era il solo documento di maggioranza a volte si verificava addirittura il 115% di partecipazione rispetto agli aventi diritto. Qualche dubbio più che legittimo rispetto a quella che è stata la conduzione del congresso quindi c’è. “La Cgil che vogliamo” avrebbe dovuto, come avrebbe dovuto la Fiom, decidere di costruire davvero l’opposizione interna con un atto di rottura forte, ma non l’ha fatto. Dopo aver perso sull’accordo del 28 giugno, ha perso completamente qualsiasi ruolo e funzione. Ormai fa seminari e dibattiti, anche interessanti, ma nei luoghi di lavoro non la conosce nessuno per colpa della “Cgil che vogliamo” stessa. A Bologna, una città importante industrialmente e sindacalmente, tra gli attivi quelli di “La Cgil che vogliamo” erano la maggioranza assoluta, e potevano avere un ruolo molto forte, mentre invece è rimasto tutto tra gli apparati e nel direttivo nazionale, dove era evidente perdere.
La Fiom si è sempre battuta per la democrazia nei luoghi di lavoro ed all’interno della Confederazione stessa. Adesso all’ultimo comitato centrale abbiamo visto le dimissioni di Spezia ed Airaudo finalizzate ad escluderti dalla segreteria e a silenziare la sinistra interna. Cosa succede?
Succede che purtroppo la sconfitta sindacale che c’è ed è pesante sull’ art. 18, nonostante Landini ed Airaudo non la vogliano riconoscere, produce anche autoritarismo, proprio perché non si vuole affrontare una condizione così complicata e difficile. Ma se non la si affronta, non si riesce neanche a cambiare la linea perché evidentemente qualcosa non ha funzionato, se coloro che vogliamo rappresentare oggi sono più deboli e meno tutelati di prima. La contraddizione è esplosiva nel rapporto con i lavoratori e si pretende di avere un sindacato che come un solo uomo, una sola voce, per coprire questa contraddizione. Il sindacato oggi non ha più una linea in grado di affermare una risposta adeguata ai bisogni. Dall’Alcoa a Fiat ad altre aziende non c’è più una linea sindacale che riesca a dire davvero con forza che siamo contrari al Fiscal Compact, che siamo contro le politiche del governo Monti, che l’ Europa e l’euro così come sono ammazzano il lavoro e non potranno mai cambiare perché porteranno ad un peggioramento costante della condizione dei lavoratori. Dovremmo dire che c’è bisogno di un intervento pubblico, anche all’Ilva, dovremmo chiederne la nazionalizzazione, dovremmo chiedere che ai Riva venga fatto pagare il costo del risanamento. Ci vuole quindi un sindacato di rottura, un sindacato sovversivo rispetto a tutto quello che succede. O fai così, o sei la Cisl.
Servirebbero nuove parole d’ordine, anche di nazionalizzazione quindi.
Assolutamente. Guardiamo ad Alcoa: era un’azienda con partecipazione statale prima delle grandi privatizzazioni italiane che hanno portato alla distruzione del patrimonio industriale. L’intervento pubblico è indispensabile, perché solo lo stato può davvero farsi carico di iniziative di risanamento ambientale , facendo pagare ai Riva i danni. In altri paesi esiste ancora la partecipazione pubblica. Alcoa rischia di chiudere perché non ha alcun interesse a che quello stabilimento vada avanti. Ma non chiude a livello globale, chiude in Italia, e quindi c’è bisogno di un sindacato che lanci parole d’ordine che siano in grado di mettere in campo la prospettiva di un intervento pubblico.

 Anna Lami - 21/09/2012 - Megachip.info

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