lunedì 24 settembre 2012

La Fiom e l'opposizione al governo Monti

Sergio Bellavita: «c’è bisogno di un sindacato che lanci parole d’ordine»

Grazie alle battaglie di Pomigliano e Mirafiori contro il modello Marchionne, la Fiom era ritornata ad essere il punto di riferimento per tanti lavoratori e per una potenziale opposizione sociale. Oggi, pur essendo ancora in prima linea in tutte le principali vertenze dall’Ilva all’Alcoa, sembra attraversare un momento di impasse. Di questo, così come dei problemi nel mondo del lavoro e delle difficoltà del sindacato abbiamo discusso con Sergio Bellavita, Segretario nazionale Fiom-Cgil. (a.l.)

 Quando Sergio Marchionne arrivò in Fiat, buona parte del mondo politico e sindacale italiano ne elogiò le grandi doti manageriali. Da Bonanni a Fassino passando per Bersani, soddisfazione e aspettative positive erano generali. Abbiamo visto in questi anni a cosa ha condotto la strategia dell’Ad di Fiat. Domani i ministri Passera e Fornero, assieme al Premier Mario Monti, lo incontreranno per ulteriori delucidazioni in merito alle politiche aziendali del gruppo in Italia. Pensi che ci si possa ancora aspettare qualcosa di positivo dal manager Fiat?
La strategia di Marchionne in Italia è stata essenzialmente quella di utilizzare il progetto Fabbrica Italia che era finto, evidentemente fasullo già dall’inizio, perché non era immaginabile triplicare la produzione in una fase di conclamata crisi come quella in cui ci trovavamo già nel 2009.
Tale progetto è stato utilizzato come leva sul terreno contrattuale e sociale per l’affermazione di un modello diverso, in cui venivano cancellati tutti i diritti conquistati negli anni 70; si è trattato di una vendetta sociale da parte del padronato, ed oggi è chiaro a tutti che sul terreno dei prodotti, del rilancio e difesa degli stabilimenti non c’è nulla. Il progetto di Marchionne è finanziario, ed è più legato all’operazione degli Stati Uniti, alla Chrysler, ai fondi ricevuti da Obama, non certo al carattere industriale di Fiat in Italia. Domani i ministri Fornero, Passera ed il premier Monti dovrebbero piuttosto comunicargli che lo stato italiano si farà carico di salvaguardare l’occupazione e gli stabilimenti in Italia e si prenderà direttamente Fiat.
Landini ha dichiarato che è necessario riprendere le assemblee ed impegnarsi affinché non vengano più sottoscritti accordi separati.
Che non vengano più firmati accordi separati è un auspicio, sarebbe utile ai lavoratori. Ma il punto è che quel che resta di Fabbrica Italia è il sistema schiavistico introdotto da Marchionne con la complicità di Fim e Uilm, e questo sistema va cancellato. Se Fim e Uilm capiscono che tutto quello che hanno fatto non solo non ha prodotto risultati ma ha ridotto l’occupazione, e fa lavorare peggio quei pochi rimasti, allora va bene, altrimenti bisogna lottare contro quel modello anche da soli.
Il 16 ottobre 2010 una grande manifestazione della Fiom diede l’impressione di essere l’inizio di una promettente mobilitazione in tutto il mondo del lavoro, sembrò un risveglio di combattività che poteva coinvolgere l’intero paese. In questi anni invece abbiamo assistito ad un regresso, ad una progressiva ritirata della Fiom. Cosa è successo?
Il 16 ottobre 2010 come Fiom abbiamo avuto una occasione straordinaria, c’era una richiesta incredibile di Fiom non solo da parte dei metalmeccanici ma di tutto il lavoro dipendente che si è riconosciuto nel no di Pomigliano e di Mirafiori, come un atto di resistenza ma anche come possibilità concreta di ripartire nella lotta. La Fiom invece non ha risposto a questa domanda, è mancata alla necessità di affermare un polo alternativo anche rispetto alle scelte della segreteria Cgil. Avrebbe dovuto fare un atto di rottura rispetto alle scelte della Confederazione, in vista della costruzione sociale del conflitto ma è venuta meno a questo compito.
Nonostante pesanti sconfitte, quali quelle sulla riforma delle pensioni e sull’art.18, la linea di Susanna Camusso continua ad essere ultramaggioritaria tra gli organismi dirigenti della Cgil. Pensi che le posizioni di Camusso siano effettivamente rappresentative delle richieste e dei bisogni della base?
Nel 2001-2002 quando Cofferati dichiarò guerra al tentativo di Berlusconi di sterilizzare l’art. 18 , tentativo più lieve di quanto ha poi fatto il governo Monti, la Cgil dall’alto decise di fare una mobilitazione straordinaria e sconfisse Berlusconi, salvando l’art.18. Questa volta la Cgil dall’alto ha deciso di non mobilitarsi nonostante la disponibilità della base a lottare ed a mobilitarsi ci fosse assolutamente. E’ evidente che il governo di larga coalizione con il Pd ha pesato su questa scelta, e siamo arrivati al punto più basse dell’autonomia della Cgil dal Pd. Il gruppo dirigente non offre nemmeno più possibilità di verifica perché le assemblee nei luoghi di lavoro si fanno sempre più sporadicamente.
L’opposizione alla Camusso dentro la Confederazione, “La Cgil che vogliamo”, non è mai arrivata ad essere conosciuta dai lavoratori, tantissimi ne ignoravano persino l’esistenza. Come mai questo vostro progetto è chiaramente fallito?
Il progetto è fallito senza mai aver davvero preso piede. Il congresso è andato decisivamente male, prima di tutto per i furti dei voti, non è stato democratico e quindi il documento di “La Cgil che vogliamo” ha avuto penalizzazioni forti, non ha avuto pari dignità, pari diritti, pari riconoscimento: dove nel congresso c’erano i rappresentanti di entrambi i documenti, magari vinceva anche la maggioranza, ma con voti risicati, ed una bassa partecipazione soprattutto. Dove c’era il solo documento di maggioranza a volte si verificava addirittura il 115% di partecipazione rispetto agli aventi diritto. Qualche dubbio più che legittimo rispetto a quella che è stata la conduzione del congresso quindi c’è. “La Cgil che vogliamo” avrebbe dovuto, come avrebbe dovuto la Fiom, decidere di costruire davvero l’opposizione interna con un atto di rottura forte, ma non l’ha fatto. Dopo aver perso sull’accordo del 28 giugno, ha perso completamente qualsiasi ruolo e funzione. Ormai fa seminari e dibattiti, anche interessanti, ma nei luoghi di lavoro non la conosce nessuno per colpa della “Cgil che vogliamo” stessa. A Bologna, una città importante industrialmente e sindacalmente, tra gli attivi quelli di “La Cgil che vogliamo” erano la maggioranza assoluta, e potevano avere un ruolo molto forte, mentre invece è rimasto tutto tra gli apparati e nel direttivo nazionale, dove era evidente perdere.
La Fiom si è sempre battuta per la democrazia nei luoghi di lavoro ed all’interno della Confederazione stessa. Adesso all’ultimo comitato centrale abbiamo visto le dimissioni di Spezia ed Airaudo finalizzate ad escluderti dalla segreteria e a silenziare la sinistra interna. Cosa succede?
Succede che purtroppo la sconfitta sindacale che c’è ed è pesante sull’ art. 18, nonostante Landini ed Airaudo non la vogliano riconoscere, produce anche autoritarismo, proprio perché non si vuole affrontare una condizione così complicata e difficile. Ma se non la si affronta, non si riesce neanche a cambiare la linea perché evidentemente qualcosa non ha funzionato, se coloro che vogliamo rappresentare oggi sono più deboli e meno tutelati di prima. La contraddizione è esplosiva nel rapporto con i lavoratori e si pretende di avere un sindacato che come un solo uomo, una sola voce, per coprire questa contraddizione. Il sindacato oggi non ha più una linea in grado di affermare una risposta adeguata ai bisogni. Dall’Alcoa a Fiat ad altre aziende non c’è più una linea sindacale che riesca a dire davvero con forza che siamo contrari al Fiscal Compact, che siamo contro le politiche del governo Monti, che l’ Europa e l’euro così come sono ammazzano il lavoro e non potranno mai cambiare perché porteranno ad un peggioramento costante della condizione dei lavoratori. Dovremmo dire che c’è bisogno di un intervento pubblico, anche all’Ilva, dovremmo chiederne la nazionalizzazione, dovremmo chiedere che ai Riva venga fatto pagare il costo del risanamento. Ci vuole quindi un sindacato di rottura, un sindacato sovversivo rispetto a tutto quello che succede. O fai così, o sei la Cisl.
Servirebbero nuove parole d’ordine, anche di nazionalizzazione quindi.
Assolutamente. Guardiamo ad Alcoa: era un’azienda con partecipazione statale prima delle grandi privatizzazioni italiane che hanno portato alla distruzione del patrimonio industriale. L’intervento pubblico è indispensabile, perché solo lo stato può davvero farsi carico di iniziative di risanamento ambientale , facendo pagare ai Riva i danni. In altri paesi esiste ancora la partecipazione pubblica. Alcoa rischia di chiudere perché non ha alcun interesse a che quello stabilimento vada avanti. Ma non chiude a livello globale, chiude in Italia, e quindi c’è bisogno di un sindacato che lanci parole d’ordine che siano in grado di mettere in campo la prospettiva di un intervento pubblico.

 Anna Lami - 21/09/2012 - Megachip.info

mercoledì 19 settembre 2012

Uomini e no

Non è un problema tecnico. Non c'era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all'esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d'investimenti in Italia (i due terzi dell'intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio d'indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.
Non è nemmeno un problema politico. O meglio, non è solo un problema politico. I pochi - pochissimi! - che annusarono il bluff e lo dissero o lo scrissero, non lo fecero perché «ideologicamente» ostili alla Fiat, o all'«impresa», o al «capitale». Se gli uomini della Fiom, unica organizzazione nell'intero panorama sindacale, capirono al volo che quel patto leonino proposto da Sergio Marchionne - sacrifici operai subito in cambio di una chimera lontana - era una trappola mortale, non lo fecero perché politicamente schierati contro. Lo fecero perché, appunto, erano «uomini», non marionette. Ben radicati nella realtà di fabbrica, spalla a spalla con altri uomini e donne con cui condividevano difficoltà, sentimenti e interessi.
Forse sta tutta qui la soluzione dell'arcano del «caso Marchionne». In una questione di «antropologia»: nella materialità di una condizione umana e di un sistema di relazioni su cui è passata come un rullo compressore una drammatica «apocalisse culturale». È sicuramente il prodotto di un'apocalisse culturale l'anti-eroe eponimo della vicenda, l'AD Sergio Marchionne, svizzero fiscalmente, americano aziendalmente, apolide moralmente. Così come lo sono i variopinti eredi della famiglia Agnelli - i «furbetti cosmopoliti» di cui parla Della Valle - figure ormai abissalmente distanti dal tipo umano dell'imprenditore del primo e anche del secondo capitalismo. Feroce, certo, spregiudicato e «creativamente distruttore», calcolatore e cinico, ma non incorporeo, sradicato e irresponsabile. Non avulso da ogni terra e da ogni luogo come sono i nuovi manager globali e la nuova proprietà finanziarizzata, la cui parola vale l'éspace d'un matin, e la cui appartenenza è sconosciuta («Siamo qui. Anzi io sono a Detroit, ma sto proprio partendo per l'Italia», ha detto l'a.d. Fiat a Ezio Mauro nell'intervista pubblicata proprio ieri da Repubblica, erettasi per l'occasione a informale tramite tra Impresa e Governo). Marchionne non è un imprenditore in senso stretto. Non sa «fare macchine» - macchine le fanno ancora i tedeschi, come la Volkswagen che ne produce 8 milioni all'anno e veleggia verso i 10 milioni, e che investe in ricerca e sviluppo quasi 7 miliardi di euro, mentre lui va poco sopra i 2 per lo più finanziati dalle banche italiane e impegnati per trasferire oltre oceano la tecnologia Fiat.
Marchionne sa fare soldi: nel solo 2010, l'anno di Fabbrica Italia, ha provocato la più severa caduta sul mercato europeo mai registrata (la Fiat è scesa ad appena il 6,7%) ma in compenso ha portato il proprio gruppo a guidare la classifica della redditività per gli azionisti, «con un ritorno sul capitale del 33%»! CONTINUA|PAGINA3 Vale per lui quanto scritto da Richard Sennett sui manager globalizzati di ultima generazione nel suo ultimo volume su La cultura del nuovo capitalismo: gente che vive strutturalmente - in forza della distanza abissale, di reddito e di stile di vita, che li separa dai luoghi e dalle figure del lavoro - la divaricazione tra guida e responsabilità. Ambivalenti per ruolo e natura. Specializzati nel pensare per «tempi brevi», sul raggio della prossima trimestrale, e a muoversi per improvvisazioni più che per programmazione e pianificazione. Gente, diciamolo, di cui non fidarsi!
Ma prodotto di un'apocalisse culturale sono anche gli altri. Quelli che dovrebbero stare di fronte a Marchionne, e che invece gli stanno dietro (o sotto): i Bonanni, gli Angeletti, buona parte della politica, quasi tutta l'amministrazione. Che cosa ha portato il capo della Cisl Raffaele Bonanni, nell'aprile del 2010 a «brindare alla salute di Fabbrica Italia», definendola «una minirivoluzione che potrebbe riportare l'Italia ai vertici produttivi di un tempo»? E ancora l'anno successivo a dichiarare: «Sarà brusco, sarà crudo, ma Marchionne è stato una fortuna per gli azionisti e i lavoratori della Fiat. Grazie a Dio c'è un abruzzese come Marchionne». Che cosa ha spinto il segretario della Cisl torinese Nanni Tosco - che pure dovrebbe essere un po' più vicino ai luoghi della produzione - a sbilanciarsi definendo il piano di Marchionne «un'opportunità irripetibile per il sindacato e assolutamente da cogliere, evitando di infilarsi tra le ombre del 'piano B'»? E il futuro sindaco Fassino, alla vigilia del famigerato referendum sull'accordo a Mirafiori, a dichiarare senza esitazione che se fosse stato un operaio Fiat (sic) avrebbe votato sì? Ma è pressoché tutto il mondo politico ad aver assistito ai preparativi della fuga di Marchionne - come ha scritto Loris Campetti - «con il cappello in mano, spellandosi le mani ad applaudire le prodezze di un avventuriero». Perché?
Non erano così gli uomini di «prima». Non dico i Pugno (il leggendario segretario della Camera del lavoro di Torino venuto dagli anni duri), ma nemmeno i Cesare Delpiano, gli Adriano Serafino, i Pierre Carniti, i responsabili della Cisl piemontese e nazionale che guidarono la riscossa operaia. Gente che sapeva conoscere e valutare gli uomini che aveva di fronte, perché conosceva e rispettava gli uomini di cui aveva la responsabilità. E non erano così i Berlinguer, i Novelli, i Damico, ma nemmeno il democristiano Donat Cattin e persino il vecchio sindaco Giuseppe Grosso... In mezzo, tra questi due diversi «tipi umani» - tra queste opposte antropologie - è passata, come un vomere, la lama di una sconfitta storica del mondo del lavoro. Di un arretramento epocale nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle remunerazioni e dei salari dei lavoratori, e insieme nel ruolo stesso che il lavoro gioca nello spazio sociale, nella sua capacità di parola e di presenza.
Luciano Gallino, nel suo splendido La lotta di classe dopo la lotta di classe calcola che nel corso del ventennio a cavallo tra il Novecento e il nuovo secolo lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all'anno: l'equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. E' la misura della perdita di potere del lavoro, che è stata anche sua «privatizzazione». Espulsione del lavoro dalla sfera pubblica (quella in cui l'aveva riconosciuto anche formalmente l'art. 1 della nostra Costituzione), e suo confinamento nella dimensione privata, senza voce e senza forza, regolata da rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici. Di questa dimensione pubblica del lavoro sono orfani, di questa sua privatizzazione (a cui hanno assistito passivamente e collusivamente) sono figli, gli attuali politici maggioritari e i sindacalisti in ginocchio davanti al Marchionne di turno. L'insostenibile leggerezza del loro essere è il riflesso di una strutturale perdita di terreno. L'evaporare della politica e della rappresentanza in generale (istituzionale o sindacale) nella nuvola eterea dei sistematici luoghi comuni che avvolgono ormai la comunicazione pubblica come un involucro asfissiante (la «cattura cognitiva» di cui parla Gallino), riflette questa liquefazione.
Ora, se questa massa liquida cui si è ridotta la politica nazionale e buona parte dello schieramento sindacale viene chiamata a misurarsi, nelle forme ultimative che la crisi impone, con la dimensione gassosa della nuova imprenditoria globale - con il Marchionne di turno - il risultato è scontato: essa è destinata ad esserne dissolta e fagocitata irrimediabilmente, con la comune rovina di se stessa e di noi tutti. Dovrebbe farci pensare il fatto che gli unici a confrontarsi, con durezza, con Marchionne sono i «forti», altri «padroni» come lui, mentre ministri, politici e sindacalisti di regime emettono flebili vagiti e si rimettono, come dice Giorgio Airaudo, «alla clemenza della corte». Se una speranza è data vedere, se una possibilità di rinascita si può immaginare, essa consiste nei punti di resistenza di ciò che ha saputo restare «solido» nel generale processo di dissolvimento. Mantenere un rapporto col proprio suolo, culturale, sociale, produttivo. Per questo tanta ammirazione - anche al di fuori del campo ristretto delle tradizionali sinistre - avevano saputo suscitare quel 40% di «inattuali» che a Pomigliano avevano avuto il coraggio di dire NO, e quel quasi 50% di Mirafiori. Per senso di dignità, prima che per calcolo di utilità. Sapendo di giocare una partita disperata (perché il ricatto di Marchionne lasciava solo l'alternativa tra «arrendersi o perire»). Oggi sappiamo che vedevano più lontano degli altrettanto disperati operai che votarono Sì. Come vedeva lontano la Fiom, a cui andrebbe fatto un monumento per aver saputo mantenere aperto un varco, attraverso cui tentare di passare oltre. Di esistere ancora, nel mondo che verrà. 


Marco Revelli - il Manifesto 19/09/2012

martedì 18 settembre 2012

Bonanni vuol dire fiducia

All’indomani della comunicazione di Fiat su Fabbrica Italia (uno stringato comunicato che dice: “Marameo! Ahahah! Ci siete cascati!”), rendiamo omaggio a un’enorme figura del sindacalismo italiano attraverso le sue più geniali e storiche dichiarazioni.
Grazie, Raffaele Bonanni!
 

Bonanni e l’attentato di Sarajevo. “Solo chi vuole dividere il sindacato insiste con il più nero pessimismo. Domani non succederà nulla e il nostro amato arciduca Francesco Ferdinando attraverserà indenne Sarajevo tra ali di lavoratori festanti!” (27 giugno 1914).
 

Bonanni e Matteotti. “L’onorevole Matteotti si è soltanto preso una meritata vacanza e ricomparirà presto in piena salute. Demonizzare il governo ha senso solo per quelle componenti del sindacato ancora legate ad antiche ideologie rivendicative”. (11 giugno 1924)
 

Bonanni e la Grande Depressione. “La Borsa di Wall Street è solida e garantisce prosperità a tutti i lavoratori d’America, con buona pace di chi vuole dividere il sindacato!” (28 ottobre 1929).
 

Bonanni e Hiroshima. “I lavoratori di Hiroshima possono stare tranquilli, noi della Cisl li difenderemo come sempre alla faccia di chi semina pessimismo”. (5 agosto 1945).
 

Bonanni e Allende. “Pur nel suo massimalismo, che non condividiamo, siamo certi che il presidente Allende governerà ancora a lungo. Vagheggiare di potenze straniere che lo odiano è solo astio di componenti sindacali estremiste”. (10 settembre 1973)
 

Bonanni e la Fiat. “La cosa che mi fa stare così sereno e tranquillo e’ che la Fiat conferma la parola data. Imparino tutti gli altri che hanno ciarlato come le cicale a fare invece come hanno fatto le formiche, imparino che l’Italia di domani sarà un’Italia positiva se ciascuno si prende le sue responsabilità”. (23 giugno 2010).
 

Siamo certi che tanta cristallina lungimiranza verrà premiata, nella prossima legislatura, con una carica istituzionale di alto prestigio. E’ il minimo, per un così sincero impegno in difesa dei lavoratori. 

Grazie, Raffaele Bonanni!


A. Robecchi -  il Manifesto - 16/09/2012

lunedì 17 settembre 2012

Quanto lavoro senza diritti

Secondo il premier le tutele del lavoro sono controproducenti, anche se «benintenzionate».
E garantisce che in un mondo senza legge c'è più occupazione.
Il presidente del consiglio scivola nell'ideologia, irrita la Cgil, chiama la risposta dei giuslavoristi.

La provocazione di Mario Monti sullo Statuto dei lavoratori non poteva restare senza risposta e contestazioni di merito, anche perché stavolta è andato decisamente fuori del suo campo. Su più campi.
Sul piano politico-sindacale, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha sentito subito puzza di bruciato. «Non vorrei che qualcuno, siccome non c'è una idea su nulla, si reiventasse una logica contro i lavoratori. Mi pare che abbiamo fatto già abbastanza contro i lavoratori». Una logica che appartiene al «peggiore liberismo, quello che ha teorizzato che la diseguaglianza abbia fatto crescere il mondo mentre sono quattro anni che il mondo non sa uscire dalla crisi determinata proprio da quella logica lì». Una dimostrazione del fatto che «questo governo non ha idea su cosa fare per lo sviluppo e la crescita. È la ripetizione di un film già visto. Si continua a riproporre ricette che hanno già dimostrato la loro fallimentarietà oppure si butta la palla in un altro campo».

I diritti del lavoratoreI giuslavoristi, naturalmente, entrano nel merito e nella «filosofia» che Monti butta lì come un'ovvietà. Giovanni Naccari, una vita nella consulta giuridica della Cgil, lo Statuto dei lavoratori l'ha visto nascere. «Monti è sicuramente un bravo economista di scuola liberista ma quando esce dal suo campo dice cose che non hanno riscontro nella realtà; né sotto il profilo scientifico, né dei contesti storici». Soprattutto, non sta in piedi l'idea che esista una contraddizione tra «quantità dei diritti» e «quantità dei posti di lavoro». In fondo, si tratta del solito tentativo di far passare un lavoratore «protetto» dal diritto come un «fannullone» o un privilegiato, ammiccando esplicitamente alle sacche di clientelismo esistenti in alcuni settori. «Chi è che ha voluto decenni di regalie e clientele? La stessa classe dirigente che ha voluto Monti premier».

Sul piano scientifico, al contrario, «la compatibilità tra diritti e sviluppo è acclarata» (il «libro bianco» di Delors); e anche tra efficienza e proprietà statale (Massimo Severo Giannini). Naccari ricorda che «allora erano d'accordo tutti, anche le imprese e Gianni Agnelli; erano consapevoli di poter avere una tregua nel conflitto sociale, che avrebbe prodotto sviluppo economico». Del resto, non è mai stato vero che le imprese tendono a non assumere se sanno di non poter licenziare: «i licenziamenti collettivi» per stato di crisi sono sempre stati possibili, la Fiat, nel 1980, mandò via in un sol colpo 23.000 lavoratori.
La «stagione dei diritti» arrivò al culmine di un forte periodo di crescita (il «boom») e fu interpretata come un «doveroso scambio» con la lunga compressione imposta in precedenza («sia sotto la dittatura fascista che nel ventennio successivo»). Un «modello» che non ha caratterizzato soltanto l'Italia ma l'Europa intera, contemporaneamente; al punto che «oggi i cinesi stanno studiando il nostro sistema di welfare». Lo sfruttamento senza diritti, infatti, «funziona nel periodo di 'accumulazione originaria'», quando un paese passa a forza dalla dimensione agraria ad una industriale. Poi deve «sviluppare il mercato interno». L'espansione dei diritti, dunque, è figlia di una visione «lungimirante ed evoluta», «smorza tensioni che avrebbero ripercussioni economiche enegative». Oggi, dopo anni di «riforme pensionistiche» e del mercato del lavoro, «abbiamo lavoratori anziani licenziabili e giovani precari per sempre; è questa la società che hanno in mente?». Lo Statuto recepisce un principio costituzionale che nel lavoro cerca l'«emancipazione della persona», non solo l'agente economico. Certo, per chi vede il mercato secondo la vulgata protestante (il «successo come prova del favore divino»), tutti i diritti dello Statuto (studio, riunione, ecc) appaiono un intollerabile «spreco».

Casa, affitti, equo canoneCon l'esempio sulle case Monti cade platealmente nella demagogia. «Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso più difficile la disponibilità di alloggi a favore di coloro che si volevano tutelare». Ma le «norme», da sole, non fanno il mercato. L'economia reale conta un po' di più. E là dove non c'è - come in Italia negli ultimi 30 anni - una «politica della casa», ecco restringersi improvvisamente «l'offerta» di abitazioni, che facilita la salita dei prezzi (sia dell'acquisto che degli affitti).

Una prova? Guardiamo i dati (del 2004, ma la situazione è anche peggiorata dopo le «cartolarizzazioni» di Tremonti). In Italia le case popolari costituiscono solo il 4% del totale delle abitazioni occupate. In Francia la percentuale sale al 17%, nell'iperliberista Gran Bretagna al 18, tra i «rigoristi» del nord Europa si arriva al 20% della Svezia, al 25 dell'Austria e addirittura al 35% dell'Olanda. Anche alla Bocconi dovrebbero sapere che il rapporto domanda/offerta pesa più delle «norme», bene o malintenzionate che siano.

F.Piccioni - il Manifesto 14/09/2012
  

venerdì 7 settembre 2012

Fiom. Rottura nella maggioranza

Documenti contrapposti all'ultima riunione del Comitato Centrale dei metalmeccanici. Fuori la sinistra di Cremaschi e Bellavita dalla nuova segreteria.

Al termine della riunione del comitato centrale della Fiom della Cgil, si é prodotta una rottura nella maggioranza dopo mesi di tensioni con l'area rappresentata da Sergio Bellavita (vicina alle posizioni di Giorgio Cremaschi). Bellavita, ha infatti presentato un documento alternativo a quello del segretario generale, Maurizio Landini, che aveva proposto un accordo straordinario per il lavoro in risposta agli accordi separati, giudicandolo troppo moderato. Un altro documento è stato presentato anche dalla minoranza “camussiana”, ma con motivazioni esattamente opposte.
Nelle votazioni sui tre documenti contrapposti, quello di maggioranza presentato da Landini é stato approvato con 92 voti (pari al 68%), quello di Bellavita ha ottenuto 13 voti (il 10%), quello di minoranza presentato da Gianni Venturi, Fabrizio Potetti e Augustin Breda ha raccolto 30 voti (il 22%), in due si sono astenuti.
Due esponenti della segreteria Giorgio Airaudo e Laura Spezia (quest'ultima perchè ormai alla vigilia del pensionamento), hanno rimesso il mandato nelle mani di Landini, con l'obiettivo di aprire un chiarimento interno. Landini nei prossimi giorni riunirà il comitato centrale per avviare una verifica interna ed eleggere una nuova segreteria che rispecchi i nuovi equilibri interni nella Fiom.

Sergio Bellavita in una dichiarazione ha commentato: “Ritengo grave quanto accaduto in conclusione del comitato centrale di oggi. Le dimissioni di due componenti della segreteria nazionale in virtu' della differenziazione che si e' prodotta sui documenti conclusivi hanno l'esclusivo obbiettivo di escludere la sinistra dalla maggioranza Fiom. La segreteria nazionale e' sempre stata plurale, sempre nei comitati centrali ci si e' misurati con posizioni diverse. Ma mai e' stato messo in discussione il singolo componente della segreteria rispetto al dissenso espresso. Sarebbe gravissimo se la nostra contrarieta' assoluta alla svolta Fiom con la proposta di un patto su crisi e lavoro alle imprese determinasse la ridefinizione di una segreteria senza la sinistra.” Il documento conclusivo approvato a maggioranza dal Comitato centrale della Fiom ritiene “necessario che il Direttivo della Cgil fissi la data e proclami lo sciopero generale di tutte le lavoratrici e lavoratori pubblici e privati e dei pensionati”. Della proposta discuterà la direzione della Cgil convocata lunedì e martedì prossimo.
E' stato inoltre approvato un ordine del giorno su "L'unità della Fiom" nel quale è scritto che "In questa situazione così difficile inedita e straordinaria, l’unità della Fiom nell’esercizio della propria azione nel rapporto con le controparti e con le lavoratrici ed i lavoratori, del suo gruppo dirigente ad ogni livello è la condizione per poter produrre un risultato nelle condizioni di vita e di lavoro delle persone che rappresentiamo. Tale obiettivo è realizzabile a partire da un alto livello di solidarietà, lealtà, collegialità e senso comune di appartenenza di tutto il gruppo dirigente ad ogni livello".  L'ordine del giorno è stato approvato con 104 voti a favore e 23 astenuti.

I tre documenti presentati: http://www.fiom.cgil.it/cc/default.htm