Grazie alle battaglie di Pomigliano e Mirafiori contro il modello Marchionne, la Fiom era ritornata ad essere il punto di riferimento per tanti lavoratori e per una potenziale opposizione sociale. Oggi, pur essendo ancora in prima linea in tutte le principali vertenze dall’Ilva all’Alcoa, sembra attraversare un momento di impasse. Di questo, così come dei problemi nel mondo del lavoro e delle difficoltà del sindacato abbiamo discusso con Sergio Bellavita, Segretario nazionale Fiom-Cgil. (a.l.)
Quando
Sergio Marchionne arrivò in Fiat, buona parte del mondo politico e
sindacale italiano ne elogiò le grandi doti manageriali. Da Bonanni a
Fassino passando per Bersani, soddisfazione e aspettative positive erano
generali. Abbiamo visto in questi anni a cosa ha condotto la strategia
dell’Ad di Fiat. Domani i ministri Passera e Fornero, assieme al Premier
Mario Monti, lo incontreranno per ulteriori delucidazioni in merito
alle politiche aziendali del gruppo in Italia. Pensi che ci si possa
ancora aspettare qualcosa di positivo dal manager Fiat?
La
strategia di Marchionne in Italia è stata essenzialmente quella di
utilizzare il progetto Fabbrica Italia che era finto, evidentemente
fasullo già dall’inizio, perché non era immaginabile triplicare la
produzione in una fase di conclamata crisi come quella in cui ci
trovavamo già nel 2009.
Tale
progetto è stato utilizzato come leva sul terreno contrattuale e
sociale per l’affermazione di un modello diverso, in cui venivano
cancellati tutti i diritti conquistati negli anni 70; si è trattato di
una vendetta sociale da parte del padronato, ed oggi è chiaro a tutti
che sul terreno dei prodotti, del rilancio e difesa degli stabilimenti
non c’è nulla. Il progetto di Marchionne è finanziario, ed è più legato
all’operazione degli Stati Uniti, alla Chrysler, ai fondi ricevuti da
Obama, non certo al carattere industriale di Fiat in Italia. Domani i
ministri Fornero, Passera ed il premier Monti dovrebbero piuttosto
comunicargli che lo stato italiano si farà carico di salvaguardare
l’occupazione e gli stabilimenti in Italia e si prenderà direttamente
Fiat.
Landini
ha dichiarato che è necessario riprendere le assemblee ed impegnarsi
affinché non vengano più sottoscritti accordi separati.
Che
non vengano più firmati accordi separati è un auspicio, sarebbe utile
ai lavoratori. Ma il punto è che quel che resta di Fabbrica Italia è il
sistema schiavistico introdotto da Marchionne con la complicità di Fim e
Uilm, e questo sistema va cancellato. Se Fim e Uilm capiscono che tutto
quello che hanno fatto non solo non ha prodotto risultati ma ha ridotto
l’occupazione, e fa lavorare peggio quei pochi rimasti, allora va bene,
altrimenti bisogna lottare contro quel modello anche da soli.
Il
16 ottobre 2010 una grande manifestazione della Fiom diede
l’impressione di essere l’inizio di una promettente mobilitazione in
tutto il mondo del lavoro, sembrò un risveglio di combattività che
poteva coinvolgere l’intero paese. In questi anni invece abbiamo
assistito ad un regresso, ad una progressiva ritirata della Fiom. Cosa è
successo?
Il
16 ottobre 2010 come Fiom abbiamo avuto una occasione straordinaria,
c’era una richiesta incredibile di Fiom non solo da parte dei
metalmeccanici ma di tutto il lavoro dipendente che si è riconosciuto
nel no di Pomigliano e di Mirafiori, come un atto di resistenza ma anche
come possibilità concreta di ripartire nella lotta. La Fiom invece non
ha risposto a questa domanda, è mancata alla necessità di affermare un
polo alternativo anche rispetto alle scelte della segreteria Cgil.
Avrebbe dovuto fare un atto di rottura rispetto alle scelte della
Confederazione, in vista della costruzione sociale del conflitto ma è
venuta meno a questo compito.
Nonostante
pesanti sconfitte, quali quelle sulla riforma delle pensioni e
sull’art.18, la linea di Susanna Camusso continua ad essere
ultramaggioritaria tra gli organismi dirigenti della Cgil. Pensi che le
posizioni di Camusso siano effettivamente rappresentative delle
richieste e dei bisogni della base?
Nel
2001-2002 quando Cofferati dichiarò guerra al tentativo di Berlusconi
di sterilizzare l’art. 18 , tentativo più lieve di quanto ha poi fatto
il governo Monti, la Cgil dall’alto decise di fare una mobilitazione
straordinaria e sconfisse Berlusconi, salvando l’art.18. Questa volta la
Cgil dall’alto ha deciso di non mobilitarsi nonostante la disponibilità
della base a lottare ed a mobilitarsi ci fosse assolutamente. E’
evidente che il governo di larga coalizione con il Pd ha pesato su
questa scelta, e siamo arrivati al punto più basse dell’autonomia della
Cgil dal Pd. Il gruppo dirigente non offre nemmeno più possibilità di
verifica perché le assemblee nei luoghi di lavoro si fanno sempre più
sporadicamente.
L’opposizione
alla Camusso dentro la Confederazione, “La Cgil che vogliamo”, non è
mai arrivata ad essere conosciuta dai lavoratori, tantissimi ne
ignoravano persino l’esistenza. Come mai questo vostro progetto è
chiaramente fallito?
Il
progetto è fallito senza mai aver davvero preso piede. Il congresso è
andato decisivamente male, prima di tutto per i furti dei voti, non è
stato democratico e quindi il documento di “La Cgil che vogliamo” ha
avuto penalizzazioni forti, non ha avuto pari dignità, pari diritti,
pari riconoscimento: dove nel congresso c’erano i rappresentanti di
entrambi i documenti, magari vinceva anche la maggioranza, ma con voti
risicati, ed una bassa partecipazione soprattutto. Dove c’era il solo
documento di maggioranza a volte si verificava addirittura il 115% di
partecipazione rispetto agli aventi diritto. Qualche dubbio più che
legittimo rispetto a quella che è stata la conduzione del congresso
quindi c’è. “La Cgil che vogliamo” avrebbe dovuto, come avrebbe dovuto
la Fiom, decidere di costruire davvero l’opposizione interna con un atto
di rottura forte, ma non l’ha fatto. Dopo aver perso sull’accordo del
28 giugno, ha perso completamente qualsiasi ruolo e funzione. Ormai fa
seminari e dibattiti, anche interessanti, ma nei luoghi di lavoro non la
conosce nessuno per colpa della “Cgil che vogliamo” stessa. A Bologna,
una città importante industrialmente e sindacalmente, tra gli attivi
quelli di “La Cgil che vogliamo” erano la maggioranza assoluta, e
potevano avere un ruolo molto forte, mentre invece è rimasto tutto tra
gli apparati e nel direttivo nazionale, dove era evidente perdere.
La
Fiom si è sempre battuta per la democrazia nei luoghi di lavoro ed
all’interno della Confederazione stessa. Adesso all’ultimo comitato
centrale abbiamo visto le dimissioni di Spezia ed Airaudo finalizzate ad
escluderti dalla segreteria e a silenziare la sinistra interna. Cosa
succede?
Succede
che purtroppo la sconfitta sindacale che c’è ed è pesante sull’ art.
18, nonostante Landini ed Airaudo non la vogliano riconoscere, produce
anche autoritarismo, proprio perché non si vuole affrontare una
condizione così complicata e difficile. Ma se non la si affronta, non si
riesce neanche a cambiare la linea perché evidentemente qualcosa non ha
funzionato, se coloro che vogliamo rappresentare oggi sono più deboli e
meno tutelati di prima. La contraddizione è esplosiva nel rapporto con i
lavoratori e si pretende di avere un sindacato che come un solo uomo,
una sola voce, per coprire questa contraddizione. Il sindacato oggi non
ha più una linea in grado di affermare una risposta adeguata ai bisogni.
Dall’Alcoa a Fiat ad altre aziende non c’è più una linea sindacale che
riesca a dire davvero con forza che siamo contrari al Fiscal Compact,
che siamo contro le politiche del governo Monti, che l’ Europa e l’euro
così come sono ammazzano il lavoro e non potranno mai cambiare perché
porteranno ad un peggioramento costante della condizione dei lavoratori.
Dovremmo dire che c’è bisogno di un intervento pubblico, anche
all’Ilva, dovremmo chiederne la nazionalizzazione, dovremmo chiedere che
ai Riva venga fatto pagare il costo del risanamento. Ci vuole quindi un
sindacato di rottura, un sindacato sovversivo rispetto a tutto quello
che succede. O fai così, o sei la Cisl.
Servirebbero nuove parole d’ordine, anche di nazionalizzazione quindi.
Assolutamente.
Guardiamo ad Alcoa: era un’azienda con partecipazione statale prima
delle grandi privatizzazioni italiane che hanno portato alla distruzione
del patrimonio industriale. L’intervento pubblico è indispensabile,
perché solo lo stato può davvero farsi carico di iniziative di
risanamento ambientale , facendo pagare ai Riva i danni. In altri paesi
esiste ancora la partecipazione pubblica. Alcoa rischia di chiudere
perché non ha alcun interesse a che quello stabilimento vada avanti. Ma
non chiude a livello globale, chiude in Italia, e quindi c’è bisogno di
un sindacato che lanci parole d’ordine che siano in grado di mettere in
campo la prospettiva di un intervento pubblico.
Anna Lami - 21/09/2012 - Megachip.info