mercoledì 30 maggio 2012

A lezione di politica dalla Fiom


Viviamo in un paese in cui il capo del governo viene scelto dalla troika europea, incoronato dal presidente della repubblica e sostenuto da un arco di forze che occupano l'85% del parlamento. Alla prima verifica popolare, le elezioni in molte città italiane, i partiti governativi prendono una sberla senza precedenti e persino chi «vince» perde voti. Soprattutto, va a votare soltanto la metà dell'elettorato, addirittura il 39% a Genova, mentre Grillo sbanca a Parma e conquista più sindaci della Lega.
Non si vede nel paese un'alternativa credibile allo stato di cose esistente e dunque la si cerca altrove dai luoghi e dai soggetti canonici, o si smette di cercarla. Contemporaneamente, il consenso di Monti accolto solo pochi mesi fa come il salvatore della patria si è dimezzato.

C'entreranno qualcosa le sue politiche liberiste, la ghigliottina sulle pensioni, l'abbandono a se stessi dei giovani senza futuro, l'assalto ai diritti dei lavoratori dipendenti pubblici e privati? E avrà qualcosa a che fare l'abbandono delle urne con la debacle di una politica sempre più distante dai ceti sociali che finge di rappresentare?
In molti dovrebbero porsi queste domande, ma è sicuro che c'è almeno un luogo in cui esse sono al centro della riflessione collettiva: questo luogo è la Fiom, impegnata nella difesa della rappresentanza sociale minata da accordi separati e modifiche legislative che stanno riportando i rapporti tra capitale e lavoro agli anni Cinquanta.
È ovvio che la Fiom si interroghi anche e di conseguenza sulla crisi della rappresentanza politica che ha espulso il lavoro dalla sua agenda, contribuendo ad approfondire il fossato che la separa dai ceti sociali devastati dalla crisi e dalle risposte classiste del governo, sostenute da Pdl, Udc e Pd e non osteggiate con la necessaria forza dai sindacati confederali.

La mancata inversione di tendenza sulla precarizzazione del lavoro, l'attacco all'articolo 18, allo Statuto dei lavoratori e all'intero impianto delle relazioni sociali costruite in decenni di lotte operaie e sindacali, la svalorizzazione dei salari e delle pensioni, i tagli al welfare e quelli minacciati agli ammortizzatori sociali, fanno da pendant a una politica basata sui tagli e sull'ideologia del pareggio di bilancio. Nessun intervento serio di politica economica, nessuna scelta anticrisi, nessun invesimento per rilanciare uno sviluppo e un lavoro socialmente e ambientalmente compatibili.
Di questo si parla in Fiom, nei gruppi dirigenti come tra i delegati e gli iscritti dove cresce l'idea che questo modello di sviluppo e le ricette liberiste siano incompatibili con la stessa democrazia. Ma siccome i metalmeccanici della Cgil non sono abituarsi alle lamentele sterili, non si limitano a interrogarsi e condannare, al contrario mettono in campo tutta la loro forza e si aprono ai soggetti più deboli della società italiana, giovani, precari, disoccupati, movimenti sociali e territoriali con cui stanno intessendo rapporti positivi per rimandare al mittente il tentativo di dividere per colpire meglio, una alla volta, le vittime designate di una politica nemica.
Resta però il nodo della politica. Quando si parla di politica e di partiti, in casa Fiom si pensa innanzitutto alle sinistre. Non esistono, e da tempo immemorabile, partiti di riferimento e tanto meno governi amici per i metalmeccanici «rossi», che però rossi (e anche esperti) sono e restano. E si chiedono come dei partiti che traggono la loro sia pur lontana origine dalla storia del movimento operaio non ritengano giunto il tempo di fermarsi e guardare al presente, con un occhio al passato e l'altro a un futuro oggi coperto da nuvoloni neri. O c'è ancora chi pensa, nonostante l'evidenza, che il voto dei lavoratori dipendenti, dei giovani, dei pensionati sia conservato in un silos immarcescibile, perché tanto alla fine la truppa segue? Che ruolo hanno il lavoro e i diritti di chi lavora nella formazione della volontà politica di chi dice di proporsi come alternativa alle destre e alla disaffezione?
Oggi, a un anno dalle elezioni politiche, al centro del dibattito parlamentare c'è la riforma del marcato del lavoro, per la Fiom una controriforma. Per questo, per evitare nuove mattanze e nuove disaffezioni, il sindacato guidato da Maurizio Landini ha invitato Bersani, Di Pietro, Vendola e Ferrero a un confronto pubblico con il gruppo dirigente della Fiom e una platea di delegati metalmeccanici. Tutti hanno risposto positivamente ed è probabile che altre figure importanti della società italiana partecipino portando il punto di vista di studenti, precari, associazioni come il gruppo Abele, lo stesso Grillo se vorrà, la neonata Alba attraverso qualche suo promotore. A tutti gli ospiti saranno poste domande impegnative: sul lavoro, sulla rappresentanza (a proposito, quanti sono gli operai in parlamento?), sulla democrazia, sul modello sociale, economico e politico che si vuole costruire.
La domanda è scontata: la Fiom si mette a fare politica? La Fiom non cerca posti in parlamento e vuole continuare a fare quello che ha sempre fatto: il sindacato. Sarebbe straordinario se la sinistra facesse politica, e dicesse chiaramente con quali programmi, quali alleanze sociali prima ancora che politiche, vuol farla. L'appuntamento promosso dalla Fiom, e deciso all'assemblea nazionale dei delegati che si è tenuta questo mese a Montesilvano, è per sabato 9 giugno a Roma. In tempo per lanciare qualche segnale e fare delle scelte prima che sia troppo tardi.

L.Campetti - 29/05/2012
il Manifesto

lunedì 28 maggio 2012

Senza che si senta un belato

L’assemblea nazionale autoconvocata da delegati Rsu, attivisti sindacali e semplici lavoratori svoltasi al teatro Ambra Jovinelli per tentare di mettere in campo mobilitazione adeguate a contrastare l’attacco gravissimo all’art.18 e, più in generale, a tutte le politiche antisociali del governo Monti-Napolitano, è stata un buon inizio.
Tanti lavoratori appartenenti alla Fiom, alla Cgil e ai sindacati di base, Usb in primis, superando le rispettive sigle sindacali si sono confrontati e hanno discusso di come sia possibile rilanciare, insieme, il conflitto sociale: tutti gli interventi che si sono susseguiti miravano a capire come costruire iniziative realmente includenti e fornire una risposta “complessiva e duratura”, alle “cure anti-crisi” imposte dalla Bce e attuate dal governo “tecnico”. Significativamente la platea era sovrastata da un grande striscione: “via il governo Monti!”.
Tanta la rabbia tra i lavoratori presenti, ma anche la convinzione che se si torna a lottare con determinazione tutti insieme si può aprire uno spiraglio di speranza. Unanime il desiderio di superare sia la subalternità dell’attuale segreteria Cgil al PD e alle pratiche sindacali “complici” di Cisl, Uil e Ugl, sia la debolezza e la frammentazione del sindacalismo di base
Tra i primi a prendere la parola Dante De Angelis, rappresentante dei ferrovieri per la sicurezza, reintegrato per ben due volte sul posto di lavoro proprio grazie all’articolo 18. La sua storia testimonia in modo inequivocabile l’importanza delle tutele contro i licenziamenti discriminatori. Tutele conquistate dopo anni di lotte culminate nell’autunno caldo del 1969 e sancite dallo statuto dei lavoratori del 1970 e che sono messe pesantemente in discussione dalla controriforma del ministro Fornero.
Francesco Staccioli, cassintegrato e responsabile assistenti di volo Usb, porta l’esempio della sua esperienza in Alitalia, azienda paradigmatica di quanti non hanno potuto usufruire delle tutele previste dall’art. 18: in cinquemila hanno subito un’ingiustizia che ha fatto da apripista alla libertà totale delle aziende di prendersi tutto “senza che si senta un belato”.
Pierpaolo Pollini, Rsu-Fiom Cgil della Fincantieri di Ancona, prima di intervenire è già sul palco ed è arrabbiato. Manifesta assoluta distanza dal moderatismo del linguaggio sindacale comune, delle cose dette e non dette. A suo avviso, buona parte delle colpe della fine di ogni tutela e diritto risiede anche tra quelle burocrazie sindacali che sostengono che gli scioperi generali non servano a nulla: la Grecia invece sta lì a dimostrare che se fatti con la dovuta convinzione e radicalità gli scioperi generali servono, “là ne hanno fatti tanti ed a qualcosa hanno portato: abbiamo visto i risultati delle recenti elezioni”.
Poi senza mezzi termini accusa di corruzione tutte quelle forze che sostengono questo governo in parlamento, ed invita gli altri delegati a farsi promotori di lotte ad oltranza: “alla Fincantieri siamo stati lasciati soli, in tanti ci hanno detto che non c’era alternativa, ma noi abbiamo risposto che non era vero che non potevamo fare nulla, che avremmo deciso noi. Quando ci hanno detto che non ci avrebbero dato lavoro, che non ci avrebbero dato la fabbrica, noi ce la siamo presa, l’abbiamo occupata. Non è vero che non possiamo fare niente.” E finisce il suo intervento, applauditissimo, con un invito che è già un programma: “ora non è più tempo di suicidi ma di ribellione”.
Paolo di Vetta, responsabile AS.I.A. Usb, da sempre in prima fila nelle lotte del movimento per la casa, sostiene che “il vero bene comune è la rivolta, e si tratta del terreno da costruire in sinergia tra i conflitti nel mondo del lavoro e quelli che riguardano il territorio.”
Sergio Bellavita, della segreteria nazionale Fiom, sostiene che la Cgil, per non aver dichiarato battaglia in difesa dei lavoratori, porta con sé una responsabilità enorme: il sindacato è attraversato da una grossa crisi perché i lavoratori capiscono che non basta uno sciopero di 4 ore, né uno di 8, così come lo sciopero generale non sarà di per sé sufficiente. Ma per aprire qualunque prospettiva, “l’elemento decisivo è non rassegnarsi e dare battaglia”.
Secondo Giorgio Cremaschi “c’è un palazzo politico, ed uno sindacale, che è quello che farà l’inutile manifestazione del 2 giugno, e poi ci siamo noi, che non siamo un palazzo, siamo il sindacato vero.” Ascoltando le dichiarazioni di Monti nella trasmissione Piazza Pulita abbiamo avuto esempio del politichese bocconiano, per Cremaschi, in cui tra tante “formulette” e frasi fatte, l’unico punto chiaro era quello sulla Grecia: Monti infatti ha detto che alle prossime elezioni si augura non vincano i partiti “estremi”, perché se così dovesse essere potrebbe verificarsi un contagio alla Spagna, al Portogallo. Non ha citato l’Italia.
“Ma noi la lotta di liberazione del popolo greco dobbiamo trasportarla qui. Dobbiamo dirci che sull’art.18 il movimento c’è stato ma si è fermato perché non è stato fatto proprio dalla dirigenza della Cgil”, la quale ha dimostrato “un coraggio politico inferiore a quello di Cofferati” capace di mantenere una difesa intransigente dello Statuto dei lavoratori. Oggi, invece, la classe dirigente del principale sindacato italiano, rinunciando a qualunque iniziativa efficace si è coperta di “una macchia indelebile”.
Pertanto la convinzione di Cremaschi è che “se anche non dovessimo riuscire a fermarli, dovremo almeno far loro pagare il prezzo più alto. Diamo pure la colpa a Cgil, Cisl e Uil per tutto quello che gli spetta, ma assumiamoci la responsabilità di fare, di spenderci.” Questa è una assemblea di rottura.” Nel rivendicare il suo diritto all’unità trasversale con chi lotta, Cremaschi ha denunciato “pressioni sui compagni della Cgil per non farli venire in questa assemblea”.
Riprendendo lo stesso concetto Paolo Leonardi, coordinatore Usb, sostiene che “bisogna rompere con l’apartheid sindacale per cui le lotte si fanno fuori dalla Cgil o al suo interno”, è tempo dell’unità di tutto il sindacalismo conflittuale. A suo avviso, si tratta di una fase difficile perché è forte la rassegnazione, infatti anche tra i lavoratori sta passando il messaggio che non è possibile fare nulla per fermare l’attacco feroce del padronato e del governo Monti. Pertanto “oggi non dobbiamo vivere nell’autoreferenzialità di quanto costruito sino ad oggi. Se fino a ieri si marciava divisi per colpire uniti, oggi bisogna anche saper marciare uniti per colpire uniti”.
Luigi Sorge, operaio Fiat di Cassino, critica la strategia di Landini, a suo avviso sbagliata perché inadeguata alla portata dello scontro attuale. “ Dobbiamo costruire uno sciopero generale vero che porti la Grecia in Italia”, è l’invito di Luigi, perché “il nostro obiettivo è cacciare Monti, ma non per avere un Governo Bersani   magari supportato da Ferrero ma per aprire la strada ad una autentica prospettiva anticapitalista.”
Dopo di lui, prende la parola un delegato Fiom di Filippi srl, azienda in provincia di Padova che produce elettrodomestici ma ha deciso di chiudere lasciando a casa 234 dipendenti: “o alziamo il livello dello scontro o non ne veniamo fuori: la Fiom, senz’altro sindacato conflittuale, può essere un cimitero di buone intenzioni se la lotta nelle singole fabbriche non si coordina e non si generalizza a tutto il mondo del lavoro”.
L’assemblea è terminata con una mozione conclusiva che, “tenendo conto dei diversi equilibri” tra le varie forze presenti, ha fissato per l’8 giugno, sotto Montecitorio, durante la discussione della controriforma del lavoro alla camera, una manifestazione per “assediare” il parlamento in contemporanea agli scioperi del settore dei trasporti e del pubblico impiego. In prospettiva l’obiettivo è quello di costruire nella lotta “un progetto sindacale complessivo per di difendere il mondo del lavoro ed elaborare una piattaforma unificante in grado di ricomporre le lotte dei lavoratori con le lotte per i beni comuni”.

Anna Lami - 27/05/2012
www.megachip.info

venerdì 25 maggio 2012

Il patto fiscale condanna l'Europa del sud alla crisi economica

Sta per arrivare una seconda ondata depressiva. Questa volta però la responsabilità è chiara: il patto fiscale europeo che vuole costringere tutti i paesi all'equilibrio di bilancio è formalmente inapplicabile.
  
Una seconda ondata depressiva è ormai in vista ad occhio nudo. I prezzi delle materie prime, greggio compreso, hanno smesso di oscillare e stanno subendo un drastico calo trascinandosi dietro sia i valori azionari delle società minerarie che le monete dei paesi produttori in fase di svalutazione rispetto al dollaro. Le 'commodities' sono un'ottima spia della situazione economica. Nell'autunno del 2008 furono i loro prezzi e i tassi di cambio delle relative monete, a segnalare il passaggio della crisi da finanziaria a «reale» quando molti esperti ancora ne negavano l'esistenza. In questo contesto la crisi europea ed il rallentamento cinese si sommano.

La dinamica di Pechino, anche per effetto della situazione europea, sta scendendo sotto la soglia dell'8% di crescita annua che, dati i ritmi di produttività, è considerata come il livello minimo per impedire un'impennata della disoccupazione e l'aggravarsi delle già alte tensioni sociali rendendo così più problematica la traiettoria della già complessa transizione politica in atto. Ma il fulcro principale della nuova ondata depressiva è pursempre l'Europa dell' euro.

Dalla firma del patto fiscale agli inizi dell'anno siamo stati testimoni dell'aggravamento della posizione debitoria della Grecia malgrado i drastici tagli alla spesa pubblica ed il miglioramento del deficit di bilancio. Il Fondo Monetario Internazionale stima che per il 2013 il rapporto debito pil raggiungerà il 160%. Anche in Spagna la percentuale del debito pubblico sul pil, tuttora inferiore a quello della Germania, è aumentato dopo le drastiche decurtazioni alla spesa pubblica.

E' proprio la Spagna ad evidenziare la dimensione usuraia dell'attuale modello europeo. L'insolvenza delle banche spagnole è stata alleggerita dai prestiti concessi dalla Bce ad un saggio dell'1%. Parte di questi soldi viene poi prestata allo Stato, ad un tasso molto superiore. E malgrado l'usura le banche continuano a fallire per via delle cartacce tossiche in loro possesso e della crisi reale che attanaglia il paese. Infine abbiamo visto la Francia aggiungersi ai paesi 'meridionali'.

Ancora recentemente i banchieri centrali più intelligenti, come Ignazio Visco, riconoscevano che l'austerità avrebbe portato alla recessione. Veniva però mantenuta la fiducia che i sacrifici fossero necessari per sanare i conti pubblici. Ora, grazie al Financial Times, emerge la validità di ciò che ho scritto sin dal 2010. L'austerità non solo produce recessione ma aggrava l'indebitamento ed aumenta la probabilità di un default selvaggio con effetti a catena. Nessuno dei paesi summenzionati può mantenere il regime di austerità. Dovranno, come ha appena fatto Madrid con Bankia, effettuare gigantesche operazioni di salvataggio per tamponare le crisi aggravate dalle politiche in atto.

A rendere la situazione completamente ingovernabile è il patto fiscale europeo la cui insostenibilità non viene resa pubblica. Il patto obbliga i paesi contraenti all'equilibrio di bilancio. Ma ciò è possibile solo se la differenza tra risparmi ed investimenti è uguale alla differenza tra esportazioni ed importazioni. E' formalmente impossibile che tutti i paesi europei possano realizzare quest'obiettivo. Imporne l'impossibile raggiungimento significa condannare la Francia ed il resto dell'Europa meridionale all'implosione economica che si trasformerà in depressione europea e in un'ulteriore crisi mondiale.
   
 
J. Halevi - 21/05/2012
il Manifesto

mercoledì 23 maggio 2012

La legalità prima di tutto (? !!!)

10 operai con bandiera Fiom?
E’ un corteo non autorizzato 

Da Fiom Milano

E’ cominciata malissimo la giornata delle lavoratrici e dei lavoratori di Nokia Siemens Networks e di Jabil che hanno raggiunto Roma per partecipare alla manifestazione indetta davanti al ministero dello sviluppo economico in occasione dell’incontro in cui si discuterà del loro futuro.
All’arrivo nella capitale, infatti,  sono stati accolti dalle forze dell’ordine che hanno disperso il gruppo, sequestrato le bandiere e identificato, senza alcuna ragione, alcuni lavoratori e sindacalisti.
La motivazione è folle: il “corteo” dalla fermata della metropolitana al ministero non è autorizzato.
Certo, sono più di dieci (da Milano, in pullman o in treno, sono partiti circa 150 lavoratori) e manca solo che li accusino di adunata sediziosa.

23/05/2012
http://www.glialtrionline.it

no comment (N>)

domenica 20 maggio 2012

venerdì 18 maggio 2012

Anche nella mitizzata Germania va in scena l'attacco al lavoro ed ai lavoratori

Germania: Lavoratori Opel sotto ricatto.
GM sceglie l’opzione divide et impera



Tira un brutto vento nella stabilimento Opel di Rüsselsheim, nel ricco Land dell’Assia, dove 3.200 operai producono i modelli Astra e Insignia. Un vento di paura per il posto di lavoro e per il futuro. E la preoccupazione è talmente forte che gli operai sono disposti a farsi decurtare gli stipendi.
General Motors vuole dislocare la produzione della Opel Astra dalla Germania. I dipendenti invece vogliono mantenerla nello stabilimento di Rüsselheim e per questo hanno fatto sapere di essere pronti ad accettare stipendi più bassi per un importo complessivo di 35 milioni di euro.
È il timore per la chiusura dello stabilimento, più volte minacciata da General Motors e poi rimangiata tramite accordi sindacali sulla carta validi almeno sino al 2014, senza però mai convincere del tutto sulle reali intenzioni della casa madre, a portare il consiglio di fabbrica che rappresenta i lavoratori di Rüsselheim a proporre la riduzione degli stipendi. Solo qualche giorno fa il Betriebsrat, il consiglio di fabbrica, aveva categoricamente respinto l’ipotesi di un taglio agli stipendi.
Qualcosa di importante è successo nel frattempo. Secondo informazioni diffuse dal quotidiano di Francoforte “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, la General Motors pianifica di trasferire la produzione della prossima generazione del modello Astra nello stabilimento inglese di Ellesmere Port e in quello polacco di Gliwice per pore fine alle annose perdite finanziarie.
General Motors denuncia perdite notevoli a causa della Opel, ma la casa madre di Detroit dimentica di menzionare il peso di alcuni errori strategici denunciati più volte qui in Germania e fatti ad hoc a favore della vendita dell’americana Chevrolet. GM infatti impedisce alla Opel, con un blocco del numero delle esportazioni, di vendere più auto nei paesi emergenti.
Ma c’è di più. Gli operai in Inghilterra e in Polonia sono meno cari e più flessibili e a Rüsselheim pagati troppo. Per questo a Detroit pensano all’outsourcing.
La strategia scelta dal management della Opel è quella di mettere uno stabilimento contro l’altro, operai contro operai, Bochum contro Rüsselheim. In gioco c’è la presenza Opel in Germania. Ed è un gioco che si fa duro e sporco. 
Perché è da mesi che si fanno insistenti le voci di una chisura degli stabilimenti. In un primo tempo si pensava che la scelta fosse caduta su Bochum e Ellesmere Port, ora invece il consiglio d’amministrazione della Opel deciderà entro maggio in quali stabilimenti produrre la nuova Astra dopo aver concluso le consultazioni con le rappresentanze sindacali.
È lo Spiegel online a scrivere che il management della Opel pare aver scelto la strategia del “divide et impera”, aizzando le maestranze le une contro le altre e alimentando la concorrenza tra stabilimenti per piegare le resistenze contro i propositi di rinconversione.
Il general manager della Opel, Karl-Friedrich Stracke, non si sbilancia e pone l’accento sul fatto che a Rüsselheim rimarrebbe la produzione della Insignia. Ma consiglio di fabbrica e operai sanno bene che questo significherebbe la chiusura dello stabilimento Opel più moderno perché sottosfruttato.
A meno che, tornando alla strategia del “divide et impera”, l’obiettivo non sia lo stabilimento di Bochum la cui produzione potrebbe essere spostata con facilità a Rüsselheim dove verrebbe prodotta la Zafira.
L’IG Metall ha fatto sapere “che non si farà ricattare dal consiglio d’amministrazione”, riporta lo Spiegel, e richiede un piano economico per la salvaguardia dei quattro stabilimenti Opel della Germania. In caso contrario, il sindacato minaccia di non sostenere il management nei piani di riconversione e di miglioramento dell’efficienza. Un segnale tuttavia opposto a quello appena lanciato di riduzione degli stipendi.
Il grande problema della Opel è che in Europa le sue auto non si vendono rispetto a quelle della concorrenza, in particolare rispetto alla Golf concorrente della Astra. L’anno scorso la Opel ha venduto circa 330.000 Astra, cifre lontane da quelle della Volkswagen. Sindacato, consigli di fabbrica e maestanze sono però convinti che se GM desse il via libera a maggiori esportazioni la Opel potrebbe salvarsi.
 

di Massimo Demontis (Berlino) - 09/05/2012
http://cambiailmondo.org/

sabato 12 maggio 2012

Giorgio Cremaschi - VADO IN PENSIONE DALLA FIOM

Non si può essere dirigente all'infinito, ma militante a vita sì

«La mancata difesa da parte della Cgil dell'articolo 18 rappresenta uno stravolgimento del modo d'essere del sindacato».

Un cavallo pazzo? Un estremista? No, un pezzo importante di storia della Fiom degli ultimi quarant'anni. Giorgio Cremaschi va in pensione, lascia la carica di presidente del Comitato centrale della Fiom e inizia una nuova vita. Ma chi pensa che Giorgio stia togliendo il disturbo sta prendendo una cantonata: «La condizione di dirigente è a termine, militanti si resta per tutta la vita». Ieri Cremaschi ha salutato la sua organizzazione, i compagni e le compagne di una vita, in un clima di sincera commozione collettiva. Si possono avere anche idee diverse, si può litigare, ma l'appartenenza alla Fiom va al di là delle differenze. C'è una cultura comune, un rispetto reciproco, un metodo che avrebbe molto da insegnare a chi fa politica a sinistra, a chi fa sindacato e anche a chi tenta di costruire un soggetto politico nuovo.


Come è iniziata la tua burrascosa avventura in Fiom? Nel '74 sono stato chiamato da Claudio Sabattini. Ero lavoratore-studente e militavo nella sezione universitaria della Fgci di Bologna, l'unica sezione ingraiana e un po' manifestina. In occasione della radiazione del manifesto dal Pci facemmo una discussione molto accalorata, io ero contrario ma accettai la decisione diversa sostenuta da Claudio. Nel Pci sono rimasto fino al suo scioglimento. Dunque, nel '74 sono stato mandato a Brescia a seguire i corsi delle 150 ore, un'esperienza straordinaria. Arrivai subito dopo la strage di piazza della Loggia, ricordo una città in mano ai consigli di fabbrica per alcuni mesi.

Difficile immaginarlo oggi...C'è una bella differenza con il presente. La classe operaia era al massimo della sua forza, autonoma e indipendente. Oggi, quando vado per il fine settimana a Brescia o anche a Torino, incontro compagni pensionati pieni di rabbia che vedono cancellate giorno dopo giorno le conquiste operaie strappate con grandi lotte. Questi compagni dicono le cose sostenute da Antonio Pizzinato in una recente intervista al manifesto: siamo tornati più indietro degli anni Cinquanta, il diritto alla mensa era stato conquistato con gli scioperi del '44 e ora la Fiat lo abolisce in nome del mercato. L'indignazione di quei compagni oggi pensionati è la mia indignazione. La cancellazione dell'art. 18 è l'attacco a un simbolo, è il volto della restaurazione. La sua mancata difesa da parte della Cgil rappresenta un cedimento strutturale, uno stravolgimento del modo d'essere del sindacato. Con tutte le polemiche che ho avuto con Sergio Cofferati, ti ricordi?, adesso non posso non dire «onore al compagno Cofferati».

Il 2 giugno Cgil, Cisl e Uil saranno in piazza a Roma insieme per festeggiare la repubblica fondata sul lavoro mentre la Fiom, espulsa dalla Fiat con il consenso subalterno di Fim e Uilm dalle fabbriche, viene lasciata sola. E mentre si sbaracca lo Statuto dei lavoratori. Per questa ragione io il 2 giugno praticherò l'obiezione di coscienza e non sarò in una piazza dove andrà in scena la crisi del sindacalismo italiano. Sarebbe, è necessario un conflitto sociale aspro per fermare un processo devastante. Non solo in Italia, certo, ma negli altri paesi europei i sindacati scioperano contro le politiche liberiste. Non è un caso che Sarkozy abbia attaccato i sindacati francesi accusandoli di non comportarsi come quelli italiani. L'assenza di un'iniziativa sindacale all'altezza dello scontro in atto è tra le cause dell'esito confuso delle elezioni italiane, molto più confuso che in Francia o in Grecia.

Che cosa ti hanno insegnato 38 anni di Fiom? La Fiom mi ha insegnato tutto, il modo di vedere il mondo e la mia vita. Non c'è altro luogo politico o sindacale in cui uno come me avrebbe potuto esprimere in piena libertà anche il dissenso. Senza la mediazione della Fiom e la sua cultura operaia questa libertà non me la sarei potuto prendere. La Fiom non è sempre stata la sinistra nella Cgil, ha avuto anche una svolta riformista che però è fallita. Penso all'inizio degli anni Novanta, ai tempi di Vigevani e Damiano. Io fui mandato in Piemonte per punizione e tu scrivesti sul manifesto che il Piemonte era diventato la Sardegna del sindacalismo, e ti chiedesti se alla fine mi avrebbero piallato oppure no. Non mi hanno piallato, nel '94 è tornato in Fiom Claudio Sabattini ed è iniziata la stagione dell'indipendenza sindacale oggi minacciata.

Cosa provi a lasciare la Fiom? Mi dispiace molto, per motivi politici e umani e anche perché il mio sindacato è di fronte a una sfida terribile: riuscirà a sopravvivere solo se si riuscirà a ricostruire, a cambiare i rapporti di forza . Oggi il binomio Monti-Marchionne non prevede l'esistenza della Fiom.

Che farai da grande? Non si può essere dirigente all'infinito, ma militante a vita sì. Non mi perderò una lotta e lavorerò nel movimento No-debito che è dentro una dimensione e una prospettiva europee. Poi, in qualche modo, farò opposizione nella Cgil. Inutile dirti che farò parte della neonata associazione degli «Amici della Fiom».

L. Campetti - 11/05/2012
il Manifesto

mercoledì 9 maggio 2012

2 giugno: obiezione di coscienza

A Pontedera i dirigenti della Cgil di Pisa hanno impedito che il corteo dello sciopero di 4 ore fosse aperto dallo striscione “L’Articolo 18 non si tocca!”. Prima di tutto esprimiamo solidarietà ai lavoratori e ai militanti sindacali che hanno deciso di manifestare lo stesso dietro quello striscione, ma certo questo episodio non è casuale. La dura verità è che la lotta per l’articolo 18 non fa più parte dell’agenda della Cgil. Questo mentre ogni giorno che passa sono più chiari i contenuti reali della controriforma Fornero, e mentre il Senato si prepara a peggiorarla ancora. Flessibilità selvaggia e libertà di licenziamento, in un momento di crisi, passano con il silenzio, la complicità, il consenso di Cgil, Cisl e Uil. Per questo a Pontedera non si vuole quello striscione e per questo le segreterie di Cgil Cisl e Uil hanno deciso di manifestare il 2 giugno sul fisco e sul lavoro.
Qui siamo al ridicolo. Nelle interviste di questi giorni i segretari confederali spiegano che con il governo siamo vicini al punto di rottura. Cioè non ci siamo ancora, evidentemente quello che accade non basta. E così, dopo aver lasciato passare la più feroce controriforma delle pensioni, Cgil Cisl e Uil si apprestano a lasciar passare anche la controriforma del lavoro.
Anche la scelta della data è segno di una perdita totale di distacco dalla realtà. Perché si manifesta il 2 giugno, dopo la parata? Cosa si vuole esprimere? Solidarietà a Napolitano, che sparla di suo? Cosa si vuol dire, che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, e che però purtroppo il lavoro non siamo in grado di difenderlo? La manifestazione del 2 giugno è il segno della caduta totale di combattività e anche di senso della rappresentanza da parte di Cgil Cisl e Uil. E, visto che è meglio essere precisi, è soprattutto un venir meno del gruppo dirigente della Cgil ai suoi doveri, visto che Cisl e Uil in questi ultimi anni di consenso a Marchionne, Berlusconi e Monti, ci hanno abituato a tutto. 
Così si capisce anche perché in Italia la crisi politica non ha gli sbocchi di altri paesi. Il Presidente Sarkozy, prima di perdere le elezioni si è lamentato del fatto che in Francia non ha potuto portare l’età pensionabile a 62 anni per l’opposizione dei sindacati, che invece, ha sottolineato, in Italia hanno lasciato passare la pensione dopo i 67. In Grecia in governo della banche è stato travolto non solo dal voto dei cittadini, ma da due anni di lotte e scioperi generali. 
In Italia Cgil Cisl e Uil si confermano i migliori alleati e sostenitori di questo governo. E di questo adesso devono essere chiamati a rispondere. Per questo il 2 giugno intendo fare per la prima volta obiezione di coscienza alla manifestazione Cgil Cisl e Uil, così come ho sempre condiviso quella per la parata militare del mattino. Adesso basta. Per difendere i lavoratori dal massacro che gli sta precipitando addosso bisogna organizzarci e auto-organizzarci e farci sentire sul serio contro il governo. Lo faremo, anche senza i gruppi dirigenti di Cgil Cisl e Uil.

di Giorgio Cremaschi

martedì 8 maggio 2012

Monti-Napolitano sconfitti in tutta Europa, ora tocca a noi

Come al solito il trasformismo politico italiano si scatena nell’appropriarsi del voto francese, persino di quello greco. Da Bersani a Ferrara, tutti a dire l’avevamo detto, in Europa bisogna cambiare, bene la Francia per non finire come la Grecia. Che ridicolo.
Il tradizionale mondo politico italiano, che marcia verso la sua rovina, ha finora fondato le sue fortune sulla sostanziale indifferenza programmatica. Così si può dire viva Hollande, ignorando che il nuovo presidente francese ha nel programma la pensione a 60 anni e il ritiro immediato dall’Afghanistan, una tassazione del 75% per i redditi sopra il milione e, ultimo ma non da ultimo, la rinegoziazione dell’accordo europeo sulla stabilità, cioè sui tagli distruttivi, chiamato fiscal compact.
In che cosa Bersani attuerebbe il programma di Hollande, continuando a sostenere Monti? A domanda specifica del Corriere della Sera il segretario del Partito democratico si lancia in una delle sue supercazzole e passa ad altro.
Ma se guardiamo il voto greco il segnale è ancora più brutale.
I partiti che sostengono l’austerità, esaltata dal Presidente della Repubblica italiana e fatta programma di governo da Monti e dalla sua maggioranza, assieme hanno ottenuto meno del 35%. Prima delle elezioni avevano il 78%, considerando le astensioni, meno di un terzo della Grecia è d’accordo con la  politica di austerità che ha travolto il governo Papademos, governo speculare a quello italiano.
Persino nel piccolo e impronunciabile Schleswig Holstein, l’elettorato tedesco ha detto no alla politica economica dell’austerità e del rigore, mandando all’opposizione il partito del capo di governo che incarna e detiene la guida suprema di questa politica, la signora Angela Merkel.
Insomma, tutta l’Europa si sta ribellando alle politiche di austerità di bilancio, rigore, competitività estrema e privatizzazioni, distruzione dei diritti sociali e contrattuali, che sono alla base del programma economico della Banca centrale europea e dei patti di stabilità imposti a tutti i principali governi.
Già due governi, quello francese e quello greco, sono saltati.
Tocca ora all’Italia.
Ma non sarà semplice se questa volta non ci liberiamo del trasformismo e della capacità di fingere della nostra casta politica.

Mentre in tutta Europa si discute di fiscal compact, il parlamento italiano con una grandissima maggioranza, comprendente anche la Lega Nord, ha approvato quella mostruosità che è il pareggio di bilancio in Costituzione. 

Mostruosità richiesta espressamente dal protocollo europeo e dal governo tedesco. Non c’è stata alcuna discussione al riguardo, nessun confronto politico, nessun talk show televisivo.

In pochi abbiamo manifestato e sollevato questa questione, conquistando il consenso alla fine di poche decine di parlamentari. Il 31 maggio invece in Irlanda saranno addirittura i cittadini, con un referendum, a decidere se accettare o no le clausole capestro che l’Europa delle banche e della finanza impone ai popoli.

Insomma, in tutta Europa si discute dell’Europa e la si mette in discussione nelle sue forme attuali. Solo in Italia il confronto politico avviene sul niente, anche per colpa di un sistema informativo che vive anch’esso, come i principali partiti, con la faccia rivolta al passato. Centrosinistra contro Berlusconi: ma che finzione è? Tutta l’Europa sta discutendo d’altro e su questo altro si costruiscono voti e schieramenti politici. Perché l’Italia rientri davvero in Europa è dunque necessario che il nostro paese si liberi di una casta politica con gli orologi fermi. Bisogna capire che il governo Monti-Napolitano è il passato e il disastro, e agire di conseguenza.

G.Cremaschi - 07/05/2012

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lunedì 7 maggio 2012

La vera sconfitta è l’Europa del rigore Qualcuno lo dica a Monti e al suo governo

L’Europa nella quale abbiamo vissuto negli ultimi 12 anni, arrivata a pieno e raggelante dispiegamento nell’ultimo triennio, non esiste più. Come le stelle morte continuerà ancora per un po’ a sembrare viva. Gli stessi dotti commentatori che hanno a lungo dissertato su come e qualmente in nome dell’Europa fosse sacrosanto accoppare gli europei saranno gli ultimi ad accorgersene e continueranno a pontificare come se nulla di irreparabile fosse successo. Invece il processo innescato dal voto in Francia e in Grecia è irreversibile. Un incendio alla fine del quale di quest’assetto dell’Europa resterà solo la cenere.
Due cose hanno detto gli elettori francesi e greci, ma l’avevano già detta pochi giorni prima quelli inglesi con le amministrative e lo diranno quelli italiani quando gli sarà infine permesso di votare: che non vogliono più vivere in un continente in cui la finanza è tutto e gli esseri umani niente; che non ne possono più di vedere cancellate senza chiedere neppure il permesso la sovranità nazionale e quella popolare, in una parola la democrazia.
Il punto interrogativo non è più se l’Europa della Bce e della Merkel, del rigore cieco e dei popoli spogliati di ogni sovranità ce la farà a resistere o no: la domanda riguarda solo come da quell’Europa si uscirà e cosa ne prenderà il posto. E’ la partita che si giocherà nel prossimo anno e per una volta definirla di importanza storica non è retorico. L’Europa ha di fronte a sé un’occasione unica per iniziare a costruirsi su basi diverse da quelle disastrose dell’ultimo decennio. Se non la coglierà, il suo tracollo finale sarà probabilmente inevitabile e certamente non indolore.
La decisione finale spetterà alla Germania, ma su quella decisione avranno incidenza determinante le scelte degli altri Paesi e la pressione dei popoli europei che oggi ha solo iniziato a farsi finalmente sentire.
L’Europa è di fronte a un bivio e l’Italia a un bivio nel bivio. Monti, sempre che riesca a tenersi aggrappato alla sella sulla quale traballa, può cogliere l’occasione per aggiungere il peso dell’Italia a quello degli altri paesi che cercheranno di spingere la Germania e la Ue ad abbandonare la strada del rigore cieco. Oppure può cercare di incunearsi nel vuoto lasciato dalla Francia sostituendo Sarkozy come puntello del rigorismo e nuovo alleato privilegiato della Germania.
La seconda ipotesi sarebbe non solo una sciagura ma un crimine politico propriamente detto.

A. Colombo - 06/05/2012
gli Altri online

domenica 6 maggio 2012

Stiglitz e l'austerità suicida

Ascoltare il dibattito tra Monti e Stiglitz è stato emozionante.

Potenti le cannonate dell'economista americano, che lasciano basita una platea abituata allo slang triste europeo. Al termine del suo discorso si sente lo spavento che pervade la sala, paura per una crisi che forse non passerà se non si faranno le cose giuste. Il linguaggio è stato come quello di un marziano. Tant'è che la migliore difesa che il premier ha potuto montare è stata quella di differenziare l'America dall'Europa in termini di obiettivi. Non ha funzionato. L'Europa non deve solo crescere economicamente, come gli Stati Uniti, ma far crescere anche le sue istituzioni e questo può andare anche a scapito della crescita economica. Mi sono detto che non è così, che forse per uno o due o anche tre anni può essere così, ma nessuna nazione può tenersi in piedi, coesa socialmente, senza che le sue istituzioni siano dedicate solamente alla crescita del benessere dei suoi cittadini.
Un linguaggio che effettivamente non si sente più nel nostro Paese. Non è solo questione di diversa enfasi, no, ascoltare Stiglitz era rendersi conto che esiste là fuori una strada alternativa di cui in Europa è vietato parlare. Un nuovo «dibattito proibito», per riprendere il titolo di un felice libro di Jean-Paul Fitoussi che uscì qualche anno fa. Era anche dare nuova linfa alle parole, come se queste fossero rose innaffiate dopo lunga aridità.
Prendete la parola più menzionata in Italia questi giorni. La parola spreco. Anche Stiglitz ne ha parlato. Di sprechi. Ma non parla di Bondi. No, parla del più grande spreco, quello vero, quello reale, dice Stiglitz: lo spreco immenso, trilioni di dollari, di tutte quelle risorse, naturali, materiali ed umane, uguali a quelle che avevamo nel 2008 e che da allora però non utilizziamo più a causa di questa crisi. «Ed è l'austerità che tiene vivi questi sprechi». Tutti quei giovani, che oggi non lavorano, che diventeranno alienati dal resto della società, che se e quando, tra tanti anni - se continuiamo con la stupida austerità - troveranno forse un lavoro, ma a salari più bassi perché avranno disimparato a fare e avranno perso l'orgoglio e la voglia di affermarsi. Ecco lo spreco, dice il Premio Nobel. Ecco, è questo l'unico vero, grande intollerabile spreco di questa maledetta crisi che non vogliamo combattere.
Perché si può combattere. Con un nuovo approccio di politica economica. Nessuna grande economia mondiale, mai, è uscita da una crisi di questo tipo con l'austerità, dice Stiglitz che diventa subito un fiume in piena che abbatte le nostre magre argomentazioni europee affaticate dal fallimento. «L'austerità non funziona, basta guardare ai dati: essa smonta anche i rientri dei bilanci pubblici verso il pareggio». Le riforme? Le riforme che servono anche nel breve periodo sono quelle che migliorano la situazione dell'accesso al credito per le piccole imprese e quelle che aumentano il sostegno alle università. Le riforme sono utili, ma hanno bisogno di tempo e, nel frattempo a volte riducono la domanda nel sistema, che già manca. Il mercato del lavoro americano è certamente flessibile eppure ciò non ha impedito che si raggiungesse una disoccupazione del 10%. In questa crisi non si creano posti di lavoro senza maggiore domanda aggregata. Bisogna fare politiche per il breve periodo. «E il breve periodo può durare a lungo se si mantiene l'austerità».
Tutto qui? No, finiamo con la ricetta proposta dall'economista americano.
Primo, politica fiscale espansiva in Germania, anche con ampi deficit pubblici. Concordiamo. Secondo, in Italia, politica fiscale espansiva senza maggiori deficit pubblici. Il che significa più spesa pubblica con gli aumenti di tasse (già fatti) destinati a pagarci la spesa pubblica e non il debito pubblico. Oppure con i tagli agli sprechi che non devono generare maggiore austerità ma maggiore domanda da parte dell'unico attore che in questa crisi può domandare, lo Stato. Concordiamo. Senza toccare il deficit, il Pil sale, facendo anche scendere i rapporti deficit e debito su Pil. Grande ruolo per investimenti pubblici, spesa per l'istruzione e per la sanità. Terzo, tasse e spesa pubblica devono anche ridurre le disuguaglianze che specie in questa fase distruggono la crescita economica. Concordiamo.
Senza maggiore spesa pubblica anni ed anni davanti a noi di maggiore disoccupazione. Alle sue raccomandazioni aggiungiamo: vera spesa pubblicata, monitorata e la cui qualità sia assicurata da competenze e assenza di corruzione.
Monti ha detto alla fine del dibattito: «Sono desideroso di sapere come rispettare l'obbligo di bilancio in pareggio facendo diminuire il rapporto debito su Pil e soddisfacendo al contempo l'esigenza immediata di crescita». Forse non se ne è reso conto, forse sì, ma questo «come» glielo aveva spiegato pochi minuti prima Stiglitz, che ha aggiunto: «I terremoti accadono. Anche gli tsunami. Non è colpa nostra se accadono. Ma perché a queste tragedie dobbiamo aggiungere dei disastri causati da noi stessi? È criminale questa ignoranza di quanto è avvenuto nel passato, l'economia deve essere al servizio della gente, e non viceversa».

Gustavo Piga, economista
05/05/2012 - il Manifesto

giovedì 3 maggio 2012

Primo Maggio contro il governo


E’ stato un Primo Maggio diverso dalla solita stanca noiosa ritualità. 

Certo c’è stata la triste manifestazione unitaria di Rieti, dove i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil hanno manifestato tutta la loro colpevole impotenza di fronte alla politica economica devastante del governo, dimenticandosi di parlare dell’articolo 18. 
Certo, c’è stato il concertone che ha occupato la giornata radiotelevisiva. Bello come spettacolo e a volte anche intelligente, ma che non può rimpiazzare quel Primo Maggio di lotta che oggi è necessario. E questo ha cominciato a farsi sentire. Nelle manifestazioni, ove tanti lavoratori anziani venivano a parlarti per esprimere tutta la loro indignazione di fronte alla cancellazione progressiva e veloce di tutto ciò che avevano conquistato. La rabbia di chi, con gli scioperi e i sacrifici, ha conquistato lo Statuto dei lavoratori e oggi se lo vede sacrificare sull’altare dello spread, è oggi qualcosa di nuovo. Anche perché finora i lavoratori anziani, i pensionati, erano stati il punto di sostegno delle politiche concertative di Cgil, Cisl, Uil. 
Oggi, non solo dai giovani ma anche dagli anziani, viene una rabbia crescente contro questo governo e chi lo sostiene. Chi lo sostiene ha per la prima volta incontrato la contestazione popolare. E’ successo a Portella della Ginestra per Bersani e ancor di più a Torino per Fassino. In quella città c’è stato il massimo di visibilità di due primi maggio opposti. Da un lato quello istituzionale inutile, colpevolmente voluto da Cgil, Cisl e Uil locali che hanno scelto di farsi rappresentare dal sindaco della città nel giorno della festa dei lavoratori. Questa totale caduta di autonomia dei gruppi dirigenti del sindacato torinese ha però incontrato una reazione popolare. I fischi al sindaco e a ciò che rappresenta non erano di soli trenta giovani dei centri sociali, come si è subito affrettata a dire tutta la stampa di regime. E’ stata la maggioranza della piazza che ha fischiato. E qui, gravissimo, è stato l'intervento della polizia, scatenato unicamente per impedire i fischi, per intimidire una libera piazza. Bastonate contro i fischi. Anche questo è un segno dell’attacco alla democrazia sotto il governo Monti.
Sì, è stato un Primo Maggio ancora incerto e confuso, ma dal quale emergono segnali positivi di volontà di lottare che abbiamo incontrato in tante piazze. E’ un Primo Maggio che dà il via alla lunga e difficile, ma necessaria, marcia della  ribellione sociale contro questo governo e chi lo sostiene.

Giorgio Cremaschi - 02/05/2012


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