sabato 21 maggio 2011

Nei ballottaggi di Milano e Napoli la differenza la può fare il lavoro.

Milano è stata per anni la capitale ideologica dell’esaltazione della flessibilità. Centinaia di migliaia di giovani, e anche meno giovani, sono entrati nelle nuove professioni, come nelle vecchie, nel lavoro cognitivo come in quello materiale, sull’onda di una campagna ideologica che, iniziata con la “Milano da bere” di Bettino Craxi, prometteva carriere prestigiose e ricchezza a chi, pur nella precarietà, fosse capace di arrangiarsi.
Questa Milano è stata la base ideologica di Berlusconi, del suo blocco sociale, del suo modello di società. Ora questa Milano è profondamente in crisi. Milano è diventata anche la città della precarietà giovanile, ove intelligenza, cultura e professionalità sono sprecate e disperse in miriadi di contratti capestro, siano essi di lavoro dipendente, siano essi partite Iva o quant'altro. La Milano postfordista è diventata così la Milano di San Precario, delle mobilitazioni dei giovani, della ricerca delle strade nuove per la conquista dei diritti e della dignità del lavoro. Anche la mobilitazione dei disabili, i loro fischi alla Moratti e a Formigoni, sono il segno di una città e di un mondo del lavoro frantumato e disperso che si sta riorganizzando e che sicuramente non crede di più alle favole di Berlusconi, degenerate, è bene ricordarlo, nella risposta data a una giovane precaria che chiedeva del suo futuro: “sposare un milionario”. Ma questa città dei lavori nuovi, delle nuove professioni, improvvisamente due anni fa si è incontrata con la più tradizionale delle lotte sindacali. Quella dei 50 operai specializzati metalmeccanici dell’Innse, che dopo una durissima occupazione durata più di un anno, sono riusciti a vincere la loro vertenza salendo, per primi, sulla loro gru e inaugurando così un modello di protesta sociale. Davanti ai cancelli della fabbrica, presidiati da ingenti forze di polizia, in quei giorni c’erano tantissimi giovani del lavoro precario. Coloro che, secondo l’ideologia dominante, avrebbero dovuto sentirsi i più lontani da quella vertenza di operai metalmeccanici. E invece quella lotta riuscì a mobilitare una solidarietà civile e culturale enorme, che scosse la città. Il ministro Tremonti, quando gli operai vinsero, dichiarò che quella era la più bella notizia che aveva ricevuto in quell’anno. Peccato però che in quei mesi i più tenaci avversari degli operai, coloro che avevano spinto perché venisse chiusa la fabbrica e trasformato il tutto in un centro commerciale, erano la giunta di Milano e, in particolare, la Lega. Sì, proprio quella Lega Nord che si finge popolare e che quei giorni, di fronte alla lotta dell’Innse, parlò di esproprio proletario per bocca di un suo esponente di governo. La Milano civile, la Milano dei diritti di cui parla Pisapia, è anche la Milano dei diritti del lavoro, quello più antico e quello più nuovo, quello delle fabbriche come quello del lavoro diffuso nell’informazione e nella commercializzazione.
A Napoli la questione lavoro è la priorità delle priorità. Tutto ruota attorno ad essa. Il dilagare del lavoro nero e del caporalato, delle clientele e delle discriminazioni, che sfruttano drammaticamente la disoccupazione, hanno creato dei veri e propri padroni del lavoro, come denuncia De Magistris, che sono figli dell’intreccio tra criminalità affaristica e criminalità camorrista. L’attacco ai diritti e al contratto nazionale che in particolare nel Mezzogiorno è un indispensabile bene comune; l’assenza di interventi, piani, programmi di investimento per il lavoro e lo sviluppo degni di questo nome; tutto questo ripropone la questione sociale come la priorità assoluta della città. Già i lavoratori di Pomigliano hanno saputo con grande coraggio dire in tanti no al ricatto di Marchionne, due volte più feroce perché rivolto a un Mezzogiorno nel quale la distruzione delle fabbriche, come la Fiat ha fatto a Termini Imerese, è una vera e propria devastazione sociale. In tutta Napoli c’è oggi una domanda di riscatto che vuol dire una speranza per il lavoro per sé, per i figli, per il futuro. Il candidato del centrodestra viene dai meandri della Confindustria napoletana. E’ dunque uno dei principali artefici, economici prima che politici, del disastro sociale della città. Presentarlo come il nuovo è un imbroglio misero, privo di qualsiasi efficacia. A Napoli le lotte per la legalità, il risanamento ambientale, la giustizia e la democrazia, hanno sempre un preciso riscontro e versante nella lotta per il lavoro. La mobilitazione del lavoro che si può mettere in campo mentre si riprogetta e si riorganizza la vita della città, dalla raccolta differenziata porta a porta fino al rilancio dei beni comuni e dei beni culturali, tutto questo può sfociare in un vero e proprio piano per il lavoro. Che naturalmente può essere messo in campo solo c’è un profondo cambiamento nei gruppi  dirigenti della politica. Ed è questa la speranza che si è raccolta e si sta organizzando attorno a De Magistris.
E’ vero, Milano e Napoli paiono oggi i poli opposti della società italiana. Uno il polo della ricchezza e di un modello di sviluppo che vogliamo cambiare, l’altro il polo della devastazione e della subalternità quasi coloniale e quello stesso modello di sviluppo. Milano e Napoli sono le facce opposte della stessa medaglia, esse oggi assieme rappresentano la crisi di quel modello sociale e culturale che Berlusconi ha rappresentato politicamente e che con Berlusconi va oggi in crisi. Per uscire con diritti e democrazia da questa crisi, il lavoro, il diritto al lavoro e i diritti del lavoro, assieme, possono fare la differenza decisiva. E la faranno.

Liberazione,  Giorgio Cremaschi

venerdì 13 maggio 2011

UN CEDIMENTO GRAVISSIMO ALLA CONFINDUSTRIA E ALLA FIAT

Nota di Giorgio Cremaschi sul documento della Segreteria della Cgil sulla riforma del sistema contrattuale


Premessa
La segreteria della Cgil ha emesso un documento sulla riforma del sistema contrattuale che rappresenta una svolta negativa sul piano della politica contrattuale e delle scelte di fondo della confederazione.
Il documento si apre con un giudizio incredibilmente ottimistico sullo stato della contrattazione, un giudizio peraltro contraddetto da quanto successivamente affermato sui rischi di balcanizzazione del sistema contrattuale. La segreteria della Cgil afferma che ben 83 contratti nazionali su 89 sono stati siglati in maniera unitaria, concludendo così che la Cgil e la maggioranza delle imprese si trovano d’accordo sulle scelte contrattuali di fondo. Peccato però che anche la Confindustria, nelle sue punte più aggressive, sottolinei questo dato e lo faccia come una conferma delle proprie posizioni, a partire da quelle che hanno portato all’accordo separato del gennaio 2009 sul sistema contrattuale.
Ancor più grave però è la contabilità numerica dei contratti, a prescindere dalla dimensione dei lavoratori interessati. I metalmeccanici, tutti i lavoratori pubblici, tutti i lavoratori del commercio, a cui il documento non fa alcun cenno, sono oggi sotto il regime di accordo separato. Sono più di 7 milioni di lavoratori dipendenti, cioè la maggioranza dei lavoratori soggetti a contratti nazionali.
L’analisi della segreteria è dunque profondamente sbagliata, priva di contatto con la realtà, e unicamente strumentale al fine di dimostrare che quanto avvenuto in Fiat, tra i metalmeccanici, tra i lavoratori pubblici e del commercio, è una piccola eccezione che non contraddice la tendenza positiva di fondo. Ci si inventa, così, una convergenza tra sistema delle imprese e Cgil, che non è nei fatti, ma che è quello che si vuole in realtà ottenere.

Riassumiamo qui i punti che caratterizzano il documento e le nostre principali critiche.  
1.    Il documento fa un'analisi pasticciata e confusa della crisi e delle condizioni di lavoro. Sostanzialmente l’unico problema che viene definito è quello della crescita e della produttività, con una sottolineatura sulla quale davvero la Confindustria non potrebbe che convenire. Manca un’analisi dello stato dell’economia, delle tendenze di fondo, degli obiettivi produttivi economici e sociali del sindacato. La riforma della contrattazione che si vuole rivendicare è un puro atto burocratico che non ha dietro alcun progetto sociale, economico e produttivo. Si tratta solo di fare la pace con gli imprenditori e con Cisl e Uil, dopo una serie di microconflitti che possono essere superati con la buona volontà.

2. Come dicevamo, improvvisamente da questa analisi confusa e minimalista, emerge la necessità della riforma contrattuale per impedire “la balcanizzazione”. Perché ce n’è tanto bisogno, se la stragrande maggioranza dei contratti è unitaria? La spiegazione che viene data è che bisogna evitare una non meglio precisata “entropia” nei luoghi di lavoro e costruire un sistema che ricostruisca l'unità tra le organizzazioni sindacali. Si dice così che bisogna costruire una riforma del sistema contrattuale che renda validi per tutti e unitari gli accordi. Per fare questo si propone a Cisl e Uil di “mettere da parte le divisioni del passato”, questo perché evidentemente si pensa che oggi divisioni non ci siano più. Si abbandona totalmente così la necessità di una vera democrazia sindacale, non si parla più del referendum, neanche nei termini minimalistici con cui era affrontato nel documento sulla democrazia e sulla rappresentanza approvato dall'ultimo Comitato Direttivo e si riduce il tutto alla definizione di procedure per cui i sindacati più rappresentativi partecipano tutti ai contratti e trovano le forme per disciplinare i loro dissensi. Non c'è la riforma della Rsu e non c'è il diritto per le lavoratrici e i lavoratori di votare con il referendum sulle piattaforme e sugli accordi. Nella sostanza, si va a un sistema burocratico e centralizzato di amministrazione della contrattazione. Paradossalmente più si auspica un decentramento della contrattazione, più si centralizza nella confederazioni il controllo dall'altro sui comportamenti sindacali. Frantumazione  della contrattazione e centralizzazione burocratica e sindacale si accompagnano assieme.

3.    Con queste premesse la riforma del sistema contrattuale che viene proposta corrisponde sostanzialmente a quanto auspicato dalla Confindustria, da Cisl e da Uil. I contratti nazionali dovranno essere più leggeri e “meno prescrittivi”. In questo modo non ci sarà più bisogno delle deroghe, perché sarà la leggerezza stessa, cioè la debolezza del contratto nazionale, a far sì che, azienda per azienda, territorio per territorio, ognuno faccia quello che vuole. La contrattazione nazionale riduce drasticamente la sua funzione. Si passa ai contratti cornice, che accorpano anche più settori, di cui hanno sempre parlato la Confindustria e la Cisl. Lo scopo del tutto è quello di ottenere una produttività aziendale più ampia e una più equa distribuzione del reddito. Da questo punto di vista gli stessi scopi dell'accordo del 23 luglio 1993, di cui questo documento rappresenta una revisione al ribasso, sono abbandonati. Non ci sono obiettivi sociali di fondo, l'unico vero obiettivo è quello dell'aumento della produttività e, grazie ad esso, della possibilità per i lavoratori di avere qualcosa di più.

Si apre all'introduzione generalizzata degli Enti bilaterali, salvo la cautela di affermare che non potranno occupare funzioni dello Stato. Cosa che non vuol dire assolutamente nulla, visto che è lo Stato stesso che sta definendo le funzioni che delega agli Enti bilaterali.

4. Dal punto di vista dei principi concretamente enunciati, il testo è molto più prescrittivo di quanto si annuncia nelle premesse. Infatti:

-    il contratto nazionale non potrà più aumentare le retribuzioni. Suo compito è solo tutelarne il valore reale rispetto all'inflazione, tenendo però conto della competitività e dell'andamento dei settori. Per la prima volta, cioè, la Cgil si dichiara disponibile a calare il salario reale dei lavoratori in caso di crisi. Questo è l'esatto rovesciamento dell'interpretazione Cgil dell'accordo del 23 luglio, quando si diceva che nei contratti nazionali si poteva rivendicare il recupero dell'inflazione più l'andamento positivo di settore. In questo caso l'andamento di settore, se negativo, viene sottratto al recupero dell'inflazione. Si può così passare a contratti nazionali che non incrementano nemmeno formalmente le retribuzioni.
-    L'inquadramento professionale viene sostanzialmente devoluto ai livelli aziendali, senza definire principi e linee guida. Questo apre la via, come da tempo chiede la Cisl, alla balcanizzazione vera delle collocazioni professionali e alle paghe di posto.
-    gli orari di lavoro “massimi” vengono sì assegnati al contratto nazionale, ma manca nel documento l'aggettivo “settimanali”. Nella sostanza, si apre all'orario flessibile annuale, come si è già fatto nel documento sui tempi di lavoro delle donne.
-    si introduce nel contratto nazionale il concetto di esigibilità delle flessibilità, quello per cui la Fiat, a cui fa eco la Federmeccanica, pretende sanzioni individuali e collettive. Naturalmente non si arriva fino a quel punto, anzi si escludono, forse, le sanzioni individuali, ma resta l'accettazione del principio.
-    tutto il resto va alla contrattazione aziendale, territoriale, eccetera, che  lo scopo essenziale di incrementare produttività e redditività  delle imprese e, solo per questa via, quello di redistribuire reddito.

La sintesi è che il contratto nazionale perde definitivamente il suo valore di strumento di promozione generale dei lavoratori. In realtà non è nemmeno più un vero contratto nazionale:  è semplicemente un sistema di regole esigibili, con il sindacato nazionale cane da guardia di tutti i comportamenti sindacali e contrattuali, ai vari livelli. Per queste ragioni anche il livello aziendale in realtà non esiste, Il secondo livello è solo una sede nella quale adattare i lavoratori alle esigenze di produttività delle imprese. L'autonomia rivendicativa è cancellata ad ogni livello, mentre la centralizzazione delle relazioni sindacali è totale. 

6.    Si dà un contentino alla Cisl, come se non bastasse, sulla partecipazione. Infatti, oltre ai soliti temi che potrebbero prefigurare, però non viene detto, un ritorno al modello partecipativo previsto dal vecchio protocollo Iri, peraltro disdettato dalla Confindustria, si apre la via a una non meglio precisata partecipazione dei lavoratori “all'amministrazione”. Forse qui non si è avuto il coraggio di scrivere chiaramente “partecipazione ai consigli d'amministrazione”, cioè l'azionariato, che peraltro non viene respinto. Ora, se la partecipazione all'amministrazione di un'azienda non è il coinvolgimento del sindacato nell'ufficio paghe, bisogna chiarire meglio di che si tratta. La verità è che si vuole semplicemente far capire ai sindacati con cui si sono avute divisioni nel passato che ci si può mettere d'accordo su tutto.

7. Il documento si conclude con il ritorno formale alla concertazione. Cosa diranno quegli esponenti di “Lavoro e Società” che avevano spiegato a tutto il mondo che stavano con la maggioranza congressuale perché era definitivamente superata la concertazione? Niente, suppongo, ma al di là di questo la sostanza è che la Cgil scrive nella maniera più brutale che si deve tornare alla concertazione, nella quale tutti i partecipanti sono vincolati nei comportamenti una volta sottoscritti gli accordi. Non bastava l'esigibilità aziendale, adesso si realizza anche l'esigibilità confederale. E' chiaro che anche per questa via c'è una drammatica regressione nell'iniziativa autonoma del sindacato confederale. In ogni caso sorge una domanda: qual è l'obiettivo economico, sociale, produttivo di una nuova concertazione? Nel documento non viene indicato, quindi la concertazione diventa un valore in sé.


Conclusioni
Il documento che è stato prodotto dalla segreteria Cgil è un gravissimo cedimento alle posizioni espresse finora dalla Confindustria, dalla Cisl e dalla Uil. Anzi è sostanzialmente un'accettazione del terreno proposto da queste organizzazioni. Certo non si arriva agli estremi autoritari imposti dalla Fiat, ma si dà una risposta che va nella loro direzione. 
In questo documento non c'è un progetto sociale, non c'è un progetto di emancipazione del lavoro e di sviluppo industriale, non c'è un programma economico, c'è solo un adeguamento della Cgil all'ideologia aziendalista del salario legato alla produttività e alla centralizzazione burocratica delle relazioni sindacali. 
E' una svolta negativa che indica come la proclamazione dello sciopero generale sia vissuta dal gruppo dirigente della confederazione come  un atto di testimonianza, come una parentesi rispetto a un percorso che deve portare al ripristino della concertazione e dell'accordo totale con Confindustria, Cisl e Uil. In questo senso il  documento rende fragilissime anche le contestazioni della Cgil al Governo. Il documento infatti non è molto diverso dai punti di fondo di  riforma contrattuale, più volte affermati nei vari libri bianchi del  ministero del Lavoro. D'altra parte un accordo di riforma contrattuale e di concertazione ora  non si potrebbe che fare con la Confindustria, la Cisl, la Uil e il governo Berlusconi. Ancora una volta si dimostra che la linea prevalente in Cgil, conflitto con il Governo e non con la Confindustria, finisce per portare al cedimento verso entrambi.
Il documento della segreteria sulla riforma contrattuale va contrastato a fondo, per questo è necessario che in tutta l'organizzazione, fino ai luoghi di lavoro, i militanti, gli iscritti, le lavoratrici e i lavoratori possano discutere su un progetto alternativo.


giovedì 12 maggio 2011

Dopo lo sciopero, il «patto»

Una proposta di modello contrattuale che somiglia alla «riforma» del 2009. Una discussione «non univoca e articolata». Poi arriva il voto: 77 «sì» 19 «no» e 3 astenuti

Lo sciopero generale è già dimenticato, dopo un omaggio e un documento approvato senza problemi. Ma la prospettiva in cui si muove il vertice della Cgil non è di andare avanti sulla via della mobilitazione, ma quella di un «patto per la crescita» per «uscire dalla crisi che non è solo economica ma anche istuituzionale».
Il problema che gli altri attori del suddetto «patto» sono da identificare in quella Confindustria che ha fatto proprie molte delle «novità» suggerite dal «modello Pomigliano»; e che comunque, come ha ripetuto da Bergano Emma Marcegaglia, considera come «dato acquisito» l'accordo sulla riforma del modello contrattuale che due anni fa la Cgil si rifiutò di sottoscrivere. Non parliamo poi di Cisl e Uil, che dell'aderenza alle esigenze delle imprese hanno fatto una ragione di vita. O quel governo che si è dato come unico compito realizzabile (e in gran parte realizzato) eliminare la legislazione a protezione dei lavoratori e il sindacato che pretenda di rappresentarli.
In questa prospettiva, comunque, ieri sera il Direttivo di Corso Italia ha approvato la «proposta» avanzata dalla segreteria al termine di una discussione - come si dice in gergo - «articolata e non univoca». Il testo finale corrisponde per larga parte a quello presentato in apertura, ma con numerosi cambiamenti. La minoranza de «La Cgil che vogliamo» ha cercato a lungo di «far assumere tutta la discussione» in testi da sottoporre poi al vaglio delle strutture sindacali. Ma la scelta di Susanna Camusso è stata netta: far «precipitare» il dibattito in un voto sulla propria «proposta». Ha ricevuto 77 sì, 19 no e tre astensioni. Con spostamenti interessanti rispetto agli schieramenti finali del congresso di Rimini.
Alla minoranza questa bozza non era piaciuta affatto, né per il metodo (nessuna discussione interna), né per il contenuto. Fin dalla «premessa politica», un'analisi degli avvenimenti sindacali dagli ultimi due anni «come se non fosse successo nulla di grave», al solo scopo di «rilanciare la concertazione». Che nel frattempo tutte le controparti dichiarano «morta e seppellita».
Ancor peggio per quanto riguarda la «contabilità burocratica» dei contratti unitari raggiunti nel frattempo, senza «pesare» il numero di lavoratori delle categorie con «contratto separato» (scuola, pubblico impiego, metalmeccanici e commercio); né il fatto che questi ultimi sono arrivati tutti negli ultimi mesi, dando il segno di un'offensiva che si è fatta forte della breccia aperta dalla Fiat con il «modello pomigliano». Il contratto del commercio, per esempio, accoglie in pieno il «collegato lavoro». Non a caso si parlava apertamente di «assalto a diritti, democrazia, libertà sindacale»; difficile «concertare» in queste condizioni.
Ma il punto dove proprio non ci si capiva erano quelli dell'«esigibilità» degli accordi sottoscritti. Qui, almeno, è stato messo nero su bianco che non è qualcosa di simile alle «clausole Fiat» (ovvero «sanzioni» che possono arrivare la licenziamento o all'eliminazione dei permessi sindacali per quelle organizzazioni che proclamano scioperi in caso di contenziosi sull'applicazione di un accordo).
E' stato invece introdotto il concetto di «adattabilità» del contratto, che può essere decisa a ogni livello della rappresentanza sindacale, fino alla rsu. Com'è noto, la «riforma separata» del 2009 ha introdotto la «derogabilità». Tra i due termini non sembra esserci una distanza abissale. Fabrizio Solari, che l'ha spiegata in mattinata, ha parlato di un modello contrattuale che «che preveda la possibilità di aderire a situazioni diverse, che si adatti cioè a realtà sempre meno omogenee».
Nessun progresso, invece, sui nodi democrazia, rappresentatività dei sindacati e criteri di validazione degli accordi. La minoranza Cgil - sul modello Fiom - chiedeva l'obbligatorietà del referendum in caso di divisione tra i sindacati. Mentre la «bozza Camusso» prevede un sistema assai farraginoso che, di fatto, rende il referendum o impossibile o solo abrogativo.
La conferma della - diciamo così - «sottovalutazione» dei problemi di democrazia, secondo «La Cgil che vogliamo», si vede anche nel tentativo di ricercare nuovamente una «via pattizia» (un accordo interconfederale) per risolvere il problema delle «regole» della rappresentanza; anziché la «via legislativa». Forse non era per questo che i lavoratori sono accorsi in massa allo sciopero generale.

Rocco Di Michele il manifesto 12/05/2011

Svolta negativa nel direttivo della CGIL

Il Direttivo nazionale della Cgil il 10 e 11 maggio ha compiuto una scelta negativa, approvando un documento che, nella sostanza, propone un patto sociale “per la crescita” con la Confindustria, e alla fine con il governo, e accetta il ridimensionamento del ruolo del contratto nazionale. Come è stato dichiarato dal segretario generale della Fiom che ha votato contro assieme a tutta la minoranza congressuale, questo documento apre la via alle deroghe, la cui responsabilità viene addossata alle Rsu che spesso sono costrette a operare in condizioni difficili e di ricatto. E’ quindi una svolta moderata, che va contrastata nell’organizzazione. Il voto finale è stato di 77 a favore, 19 contrari e 3 astenuti. Tutta la minoranza congressuale ha votato contro. Ad essa si è aggiunto il voto contrario del segretario generale della Filctem, che ha espresso un giudizio particolarmente critico proprio sul tema dello spazio concesso alle articolazioni e alle deroghe al Contratto. I tre astenuti appartengono invece alla maggioranza congressuale. Tutti quei dirigenti, in particolare dell’Emilia e di alcune categorie, che avevano chiesto tempi più lunghi per la discussione senza farla precipitare con una decisione politica, hanno alla fine votato a favore del documento della segreteria. Lo stesso ha fatto Lavoro società, che pure inizialmente aveva espresso delle critiche. Particolarmente negativo è stato poi il voto sul documento che chiedeva la cessazione immediata dei bombardamenti in Libia, che ha visto Lavoro società schierarsi contro di esso, assieme alla segreteria. 
Il Comitato direttivo della Cgil segna un ricompattamento della maggioranza congressuale su una linea moderata, sostanzialmente parallela all’evoluzione politica del Partito Democratico. C’è quindi la necessità per la minoranza congressuale, in tutte le sue articolazioni, di decidere come affrontare questa svolta che, a nostro parere, può essere messa in discussione solo attraverso la costruzione di una diffusa critica e opposizione ad essa in tutto il corpo dell’organizzazione. Di tutto questo dovrà discutere l’area “La Cgil che vogliamo” nei suoi prossimi appuntamenti. Sono previste la riunione dei componenti del direttivo il 31 maggio e l’assemblea di tutti i delegati del congresso il 7 di giugno. 

martedì 10 maggio 2011

Fischi plebei e applausi confindustriali

Appena in Italia qualcuno fischia qualche autorità o qualche esponente politico, economico, sindacale, succede lo scandalo. Tutto il palazzo si scatena per condannare i fischiatori e per assolvere i fischiati. Il fischio, contrariamente a quanto sosteneva il Presidente Pertini, non è considerato un’espressione di libertà ma una violenza. Si dimentica così che solo nelle dittature si applaude sempre.
Ci sono anche applausi che fanno scandalo. Quando dei giovani teppisti hanno applaudito un loro amico reo di aggressioni violente mentre veniva arrestato, c’è stata la pubblica condanna. Lo stesso avviene quando in un quartiere degradato c’è chi solidarizza con il criminale nel momento dell’arresto. Ma qui siamo nell’ambito delle condanne rivolte mondo all’emarginazione sociale e civile, si disprezzano gli applausi plebei.
All’assemblea della Confindustria la Presidente Emma Marcegaglia, ha affermato che la condanna per la strage della ThyssenKrupp è troppo pesante e che così le aziende sono costrette a lasciare il Paese. La platea di 5.000 industriali ha risposto tributando un applauso lungo e caloroso all’amministratore delegato della Thyssen, presente in sala, che è stato condannato per pluriomicidio con dolo eventuale. Questi applausi a un condannato per omicidio, sollecitati di fatto dalla Presidenza della Confindustria, hanno ricevuto pochissime condanne nel Parlamento italiano. Un ministro della Lega, un’esponente dell’Italia dei Valori, e basta. Gran parte del mondo politico e purtroppo anche di quello sindacale, non ha detto nulla. Oltre che la libertà di licenziamento e quella di cancellare i contratti di lavoro, oggi lor signori hanno anche la libertà di applaudire i colpevoli di omicidio.
Quando denunciamo giustamente il degrado della nostra democrazia, dobbiamo pensare non solo a Berlusconi, ma anche a quell’assemblea della Confindustria dove si è applaudito con calore e solidarietà l’amministratore delegato della ThyssenKrupp. 
Pensiamo a questo e indigniamoci contro tutta l’ipocrisia politica e istituzionale che condivide o consente questo degrado.

di Giorgio Cremaschi [articolo pubblicato su Micromega on-line]

lunedì 9 maggio 2011

Una Confindustria di assassini e stragisti di Eugenio Orso


E’ inutile girare intorno alle questioni, con espressioni ipocrite, eleganti perifrasi o distinguo pelosi, quando sono chiare ed inequivocabili.
Ci sono situazioni in cui è inutilizzabile, come schermo, anche il “politicamente corretto”, e questo è esattamente il caso degli applausi tributati da una platea di confindustria [che da questo momento in poi scriverò, per disprezzo, con l’iniziale minuscola] all'amministratore delegato di Thyssenkrupp, Espenhahn, un assassino condannato a 16 anni e 6 mesi per omicidio volontario, in seguito alla morte di sette operai nello stabilimento di Torino il 7 dicembre del 2007.
Qualsiasi giustificazione si può addurre, davanti alle ovazioni tributate dal consesso di industriali ad un assassino e stragista, nato dalla putrefazione del peggior capitalismo mutante, non è sufficiente, non basta per non farci dire: ecco cos’è veramente confindustria, un covo di sfruttatori e parassiti disposti alla strage, abituati da troppo tempo al caviale dei contributi erogati con i soldi pubblici ed allo champagne del profitto estorto ai lavoratori.
Dietro l’aspetto austero, moderatamente piacente ed elegante di Emma Marcegaglia, si malcela un nido di serpenti, assassini e sfruttatori che si fanno apertamente beffe della sicurezza sul lavoro, degli stessi operai caduti sulle linee di produzione, perché tanto il lavoro è interamente a carico degli altri, e la cosa non li riguarda, se non nel momento di intascare gli utili e di consolidare la loro posizione di privilegio.
La vecchia immagine dell’imprenditore-puttaniere privato usata dai soliti “comunisti” otto-novecenteschi, il quale sfruttava cinicamente i lavoratori, costringendoli ad oltre dieci ore di lavoro giornaliere per la mera sopravvivenza, mentre lui se ne andava tranquillamente a puttane [ieri cocotte ed oggi escort] e si baloccava nel vizio con i frutti del lavoro coatto altrui, oggi ci sembra tornata prepotentemente di moda, quanto mai veritiera ed attuale.
Gli applausi di una platea di assassini e sfruttatori ad un loro complice, condannato ma naturalmente a piede libero – perché i veri assassini in questo sistema non pagano mai, confermano una volta di più che non esiste “il lavoro libero” capitalistico, ma agiscono forme di costrizione che in questa epoca tendono a diventare più stringenti, tanto è vero che un ministro della repubblica, nella persona di Giulio Tremonti, ha dichiarato tempo fa in merito alla sicurezza sul posto di lavoro, dalla legge 626 del 1994 al Testo Unico Sicurezza Lavoro [Decreto legislativo n. 81 del 2008] che avrebbero dovuto garantirla per tutti: “robe come la 626 sono un lusso che non possiamo più permetterci”, perché troppo costosa, una mera zavorra nella competizione globale.
Ma forse è meglio dire, con chiarezza, non ci si può più permettere la sicurezza sul posto di lavoro – accettando come se nulla fosse le morti bianche, quali incidenti collaterali dello “sviluppo economico” – esclusivamente perché limita il profitto intascato dalla stessa platea di assassini e schiavisti che ha applaudito Espenhahn.
Altri ministri in carica [Romani, Calderoli] hanno debolmente condannato, ma senza esagerare nel biasimo, l’atteggiamento benevolo, anzi, apertamente favorevole, di confindustria nei confronti dell’AD pluriomicida di Thyssenkrupp, parlando di “applauso improprio” [Romani] o “fuoriluogo” [Calderoli].
Pur apprezzando la moderata e cauta umanità di questi ministri [Romani e Calderoli] davanti alla sfacciatezza degli assassini che si riconoscono e si applaudono pubblicamente, devo rilevare che l’applauso non è improprio né fuoriluogo, ma rappresenta il più palese riconoscimento che Harald Espenhahn è in tutto e per tutto uno di loro, figlio della stessa logica sistemica e membro della stessa classe, e fa quello che anche loro cercano di fare, per perseguire obbiettivi di puro arricchimento personale, di carriera e di potere vendendo la pelle degli altri, se necessario.
Il rischio d’incendio c’era, alla Thyssenkrupp di Torino, e la cosa era nota alla dirigenza che aveva deciso di continuare la produzione, senza però provvedere alla manutenzione degli impianti, in uno stabilimento in dismissione, tanto che in quel tragico 7 di dicembre del 2007 si poteva dire che le morti erano annunciate, e che potevano essere evitate manutenendo gli impianti ancora in attività.
Anche le condizioni di pulizia dell’ambiente di lavoro, tali da incidere sulla sicurezza, erano in quel caso discutibili, tanto che il giorno dopo l’incidente [8 dicembre 2007] la ditta incaricata delle pulizie che da tempo interveniva “a chiamata”, dovette pulire tutte le linee di produzione, meno l’ultima, quella in cui si era verificata la tragedia, perché posta sotto sequestro giudiziale.
Il risparmio sulla sicurezza e quello sulle stesse pulizie dell’ambiente di lavoro, la rinuncia alla manutenzione degli impianti, che posso costituire un pericolo per l’incolumità fisica dei lavoratori, hanno un solo scopo: alimentare il profitto, la creazione del valore ad esclusivo beneficio dell’”azionista” [l’Investitore], davanti al quale in questo liberalcapitalismo sovrano non c’è etica né legislazione che tenga.
In altre parole, c’è chi si sente al di sopra della legge civile e penale degli stati, riconoscendo soltanto “la legge del mercato” che per lui significa ricchezza e potere e per moltissimi altri sfruttamento, povertà e morte.
Anzi, ai gradi ed ai livelli più alti della scala sociale, i grandi Investitori sono “esenti” anche dalla spietata legge del mercato, che colpisce sempre e soltanto i subordinati, quale strumento di dominazione e sistema di razionamento ed esclusione imposto.
Altro che il vecchio ordigno islamico Bin Laden che si sognava nuovo califfo, ma ormai quasi arrugginito, morto da poco oppure, secondo altre fonti, dieci anni fa … sappiamo bene, qui, in occidente chi e cosa rappresentano il vero pericolo per il nostro futuro!
E’ ora di finirla di parlare di “imprenditori buoni” in contrapposto a quelli “cattivi”, di bere menzogne come quelle della “coesione sociale”, di cercare “concertazioni” che penalizzano sempre e comunque lavoratori e subordinati.
Il nemico sociale va riconosciuto e combattuto senza esclusione di colpi, altrimenti si moltiplicheranno le platee che applaudiranno con esultanza gli stragisti e gli assassini di questo capitalismo, mentre noi saremo condannati in massa ad una nuova, più pesante e più invasiva servitù, a quel punto senza scampo.

venerdì 6 maggio 2011

Giorgio Cremaschi: "Sciopero riuscito, si va avanti contro governo e Confindustria, anche senza Cisl e Uil"

Lo sciopero è riuscito dappertutto, nonostante le difficoltà e l’attacco continuo ai diritti del lavoro e anche le debolezze nella sua preparazione. Lo sciopero ha mostrato una volontà di lotta che tocca milioni di persone. E’ un segnale importante e non scontato. Si vuole continuare, non ci si vuole arrendere, non si vuole accettare la politica economica disastrosa del governo e, assieme ad essa e corollario di essa, l’attacco ai diritti e alle libertà del lavoro condotto da Marchionne e dalla Confindustria. Chi ha scioperato, chi è sceso in piazza, lo ha fatto contro il governo, ma anche contro il padronato, senza particolari e sempre meno comprensibili distinzioni. Questo è il messaggio che viene da questa giornata. Bisogna continuare sia rispetto alle scelte del governo, sia contro l’attacco ai contratti e ai diritti. Non è all’ordine del giorno un ritorno alla concertazione ma bisogna ricostruire il potere contrattuale e i diritti del mondo del lavoro, mentre si lotta per una diversa politica economica e sociale. Il governo ieri ha fatto capire che le responsabilità della crisi sono della Confindustria. La Confindustria domani dirà che le responsabilità sono del governo. La verità è che Confindustria e governo sono solidali entrambi nella responsabilità di aver affrontato la crisi economica con il taglio ai diritti sociali, con l’attacco al contratto nazionale e con gli accordi separati, con la ricerca del massimo guadagno mentre si taglia l’occupazione. Se la crisi si è aggravata è colpa loro e delle ricette che hanno utilizzato per affrontarla. Lo sciopero è anche un segnale chiaro che non si può tornare all’unità con Cisl e Uil fino a che queste organizzazioni non cambiano strada rispetto al governo e al padronato. Tutte e tutti coloro che hanno scioperato e sono scesi in piazza hanno mandato un messaggio chiaro: si va avanti contro il governo e la Confindustria anche senza Cisl e Uil.

Bergamo - Bruciata bandiera cisl: dichiarazione di Simone Grisa


Non mi sento né di giudicare e né di condannare quei lavoratori che hanno bruciato una bandiera della Cisl, per questo non ho condiviso la posizione presa a maggioranza dalla segreteria della Fiom di Bergamo. Come al solito si sta facendo una tempesta in un bicchiere d’acqua. Piuttosto che affrettarsi ad accusare dei lavoratori, sarebbe più utile interrogarsi sul perché accadono episodi come questo. Perché può capitare che qualche lavoratore più esasperato bruci una bandiera in piazza; molto più grave è che una organizzazione sindacale abbia accettato le deroghe al contratto nazionale dei metalmeccanici e un segretario generale nazionale abbia rivendicato in una occasione pubblica “una cento mille Pomigliano”.
Simone Grisa

giovedì 5 maggio 2011

Cremaschi: «Dentro la Fiom e la Cgil occorre aprire un confronto approfondito»

La Fiom sta cercando di percorrere un crinale molto difficile tra una firma delle Rsu e una non-firma dell'organizzazione nazionale, ampiamente spiegata dai vertici. Ciò ha provocato un dibattito piuttosto acceso all'interno. Onestamente il problema resta. Non voglio discutere della condizione dei lavoratori, uomini in carne ed ossa che si sono trovati di fronte a una scelta drammatica. Questo voto viene usato da tutto il mondo politico per dire che i lavoratori hanno detto alla Fiom di smetterla. Questo era prevedibile anche prima. Credo che la Fiom debba discutere di tutto questo. Della sua strategia e di come siamo arrivati fino a qui.Landini sostiene che il mandato del Comitato centrale è stato rispettato.L'unica cosa che non si può dire è che tutto è uguale a prima. Alla Maserati di Modena hanno si sono detti contrari a quanto deciso alla ex-Bertone e anche da Melfi arrivano critiche alla Fiom. Landini disse dal palco del 16 ottobre "noi siamo qui non solo perché la Fiom ha detto "No" ma perché hanno detto "No" i lavoratori di Pomigliano. Allora, delle due l'una, o la firma della Rsu della ex-Bertone è la firma della Fiom e allora siamo di fronte a un cambiamento di linea, o la firma della Rsu non è la firma della Fiom. Ma in questo caso la Fiat vorrà la firma della Fiom e così saremo esattamente da capo.C'è chi ha avanzato l'ipotesi di un tratto molto "torinese" in tutta questa vicenda.L'intervista di Chiamparino sul "manifesto" mi pare penosa. Dovremo discutere in Fiom del fatto che evidentemente abbiamo giudizi molto diversi sull'operato di quel sindaco che è stato il principale aiuto di Marchionne contro la Fiom. Mi pare che la Fiom di Torino la pensi diversamente. Dopo di che c'è da discutere come andiamo avanti. Quello che è avvenuto lì è stato un arretramento. Tutto non è uguale a prima. Parlare di mossa del cavallo è una frase della burocrazia sindacale, porta sfortuna.La vicenda non la si può circoscrivere. Una Rsu ha il potere di uscire dal contratto nazionale? Questo punto non si può saltare. E' un fatto di salvaguardia dell'organizzazione.Ancora non è chiaro cosa voglia fare la Fiat.La Fiat, come fa da anni, scarica sui lavoratori quello che è l'assenza totale delle istituzioni. Chiamparino invece di occuparsi di cose sindacali dovrebbe discutere di politica industriale, di dove è veramente la testa del gruppo. E poi dovrebbe farsi spiegare come farà la Fiat a produrre le cinquantamila Maserati. La verità è che la Fiat da tempo investe sul ricatto operaio. L'operazione è sull'usura del lavoro. Marchionne aspetta che una fabbrica vada in crisi e poi colpisce. E' la tipica strategia di chi ha in testa il ricatto. Non si sa se serve a lavorare, sicuramente serve a far salire il titolo in borsa.Il 6 maggio ci sarà lo sciopero generale ma è evidente che il sindacato confederale ha mollato i lavoratori di fronte alle loro scelte...E' mancato un sindacato generaleI lavoratori si sono trovati soli con la Fiom. Non c'è dubbio che questo sciopero è affidato alla buona volontà e all'autogestione delle singole strutture. Ognuno se lo interpreta come vuole e non c'è un messaggio forte. E' diventato più uno spazio che uno sciopero generale con una sua piattaforma. E' significativo che la Cgil non abbia comunicato il raddoppio di fatto delle ore di sciopero. Ufficialmente resta di quattro ore. Un lavoro che fa il paio con quello sotterraneo di depotenziamento dello sciopero. Basta pensare alla gestione triste del primo maggio a Marsala. E poi questo sciopero è stato costruito con il freno a mano tirato. Un errore di fondo dire che si sarebbe fatto solo contro Berlusconi, senza dire che quella politica è stata totalmente condivisa da Cisl e Uil. Non si parla mai di Confindustria e di Fiat. Solo Fiom, Filcams e settore pubblico ne parlano. La mobilitazione dà valore alle singole realtà ma indebolisce il significato generale. Intanto Cisl e Uil chiedono la resa dei conti con la Fiom e dicono che è ora di farla finita. Dove vogliamo andare? Vale per la Fiom e vale ancora di più per la Cgil. Il 7 e 8 maggio ci sarà una assemblea generale di Confindustriache lancerà un messaggio chiaro ai sindacati, "accettate il ridimensionamento e insieme faremo una politica corporativa che critichi il governo sullo sviluppo". E' la versione generale del modello Marchionne. La crisi italiana resta tutta e ha una ricetta padronale, sul piano sociale, e neocentrista sul piano politico, che punta al rilancio del liberismo. Credo che la Cgil debba rompere con questa scelta.
Articolo su Liberazione di Fabio Sebastiani

mercoledì 4 maggio 2011

Sergio Bellavita: dichiarazione sulla vertenza Ex Bertone

Non c'è nessuna continuità con le scelte Fiom sulla vertenza Fiat di questi mesi e quanto accaduto alla ex Bertone. Il sindacato non può accettare che di fronte ad un ricatto pesante, scellerato come quello di Marchionne non ci sia nessuna alternativa perseguibile. Occorreva, così come accaduto a Pomigliano e Mirafiori, contrastare Fiat sul terreno politico, sociale. Smascherare e denunciare il carattere eversivo, spregiudicato e arrogante dell'ad Fiat Marchionne. Costruire cioè una vertenza ben più larga della sola dimensione della fabbrica di Grugliasco, coinvolgendo, vista la portata dell'offensiva Fiat, i lavoratori e le lavoratrici metalmeccanici/che tutti/e. I lavoratori e le lavoratrici hanno espresso con il si la loro autodifesa e a loro va la nostra totale e incondizionata comprensione e vicinanza. Ora, con il pesante esito della vicenda ex Bertone, la Fiom, il suo gruppo dirigente, è chiamato ad una riflessione profonda, nè retorica, nè liquidatoria. Riconoscere limiti e sconfitte è indispensabile per correggere una linea sindacale che, in tutta evidenza, non è riuscita a produrre alla ex Bertone la stessa straordinaria resistenza operaia di Pomigliano e Mirafiori ai diktat di Marchionne.

Sergio Bellavita, segretario nazionale FIOM

martedì 3 maggio 2011

QUANDO IL SINDACATO SI RIDUCE A STRUMENTO DELLA POLITICA

La Rsu FIOM-CGIL di Trieste desidera rendere pubblico l'atteggiamento di subalternità nei confronti della politica da parte delle Rsu FIM, UGL e UILM dell'Insiel. Tali rappresentanze sindacali, infatti, organizzano un incontro con alcuni candidati sindaci (Antonione, Bandelli, Cosolini, in quanto da esse ritenuti i più rappresentativi) nella giornata del 6 maggio 2011 (lo stesso giorno in cui si svolgerà lo sciopero generale della CGIL), utilizzando per questo evento le ore di assemblea retribuita che solitamente sono destinate alle problematiche dei lavoratori.

lunedì 2 maggio 2011

Il servilismo è la piaga che affligge il paese. Perché siamo a disposizione del padrone di turno

In nessun paese la piaga del servilismo è prospera come da noi. Grazie anche ai comportamenti di questo governo e alla cultura che passa attraverso dei media sempre più asserviti È il trionfo della sistematica rinuncia alla propria dignità. Ma la voglia di affermarla torna a farsi strada nelle lotte che animano la scena sociale. La piaga che affligge il paese è il servilismo. Non è una piaga esclusivamente nostrana; è diffusa in tutto il mondo, e per ragioni strutturali che poco hanno a che fare con i "valori" propugnati da chi lo pratica. Ma in nessun paese è così pervasiva, consolidata e ostentata come da noi. Non è un fenomeno esclusivo del nostro tempo; è vecchio come il mondo. Gli antichi Greci disprezzavano gli schiavi - prigionieri catturati in guerra o comprati e venduti - perché avevano preferito servire invece di morire. Il feudalesimo - un regime da non rimpiangere, per molti versi riproposto da alcuni tratti della nostra epoca - era fondato su un patto personale che implicava l’asservimento a tutti i livelli gerarchici. Ma quella fedeltà era regolata da un codice che impegnava tanto il signore che il vassallo. Oggi invece il servilismo è "nomade": si offre di volta in volta a seconda delle convenienze: la compravendita di deputati con cui l’Italia si governa e fa mostra di sé al resto del mondo ne è una delle manifestazioni più esplicite. Ciò che caratterizza il servilismo del nostro tempo e del nostro paese è l’essere il meccanismo operativo della competitività: cioè di quella guerra di tutti contro tutti, per affermarsi a spese degli altri, che è la riproposizione - nei rapporti interpersonali, nei meccanismi di promozione sociale, negli avanzamenti in carriera, nella selezione delle classi dirigenti - della concorrenza tra imprese. Un meccanismo che costituisce il fondamento (indiscusso quanto sistematicamente disatteso) di quel "pensiero unico" che ha improntato di sé la nostra epoca fin nei più reconditi e inesplorati recessi del nostro pensiero; anche quando siamo convinti di esserne immuni. Il servilismo è la ricerca di un’affermazione personale - anche minima, anche irrisoria; solo a volte ben remunerata - a spese della propria autonomia. Cioè, non in base a quello che siamo, o ci sforziamo di essere, o abbiamo acquisito col tempo e a fatica; bensì rinunciando a tutte queste cose; mettendoci "a disposizione" del padrone di turno. Pronti non a sviluppare un nuovo modo di pensare - benvenga!- ma solo a passare a un diverso padrone, che ci dirà lui che cosa possiamo e dobbiamo "pensare". Il servilismo è la rinuncia sistematica e volontaria alla propria dignità.
Al servilismo è strettamente legato il razzismo, anch’esso dispiegato, feroce e ostentato in tutte le sue sfaccettature oggi più mai. Il razzismo è la rivendicazione di un rango, anche infimo, legato alla nascita, al proprio territorio, alla propria lingua, alle proprie abitudini, alla propria appartenenza a un "corpo sociale": un simulacro di una "dignità" affidata a una dimensione fantastica proprio da chi si sente schiacciato e perdente in un contesto dominato dalla competizione; costretto a "farsi servo" per cercare di conservare il proprio status. Il razzismo alligna sempre, in qualche forma sopita, dentro ciascuno di noi, ma si sviluppa - ce lo ha mostrato Zigmund Bauman fin dai tempi di Modernità e Olocausto - solo quando è fomentato e coltivato dall’alto, come compensazione delle frustrazioni di un’esistenza precaria.
Ma che cosa ha reso il servilismo così prospero e diffuso nel nostro paese? Che cosa ci ha portato a cadere così in basso? Certamente, qui più che altrove, c’è stata una carenza di difese immunitarie; un deficit di presidi culturali (in senso antropologico e non elitario) che ha travolto tutta la società come una valanga che si ingrossa rotolando. Si tratta di un processo sicuramente promosso dall’alto: dai comportamenti di questo governo, dalla cultura che esprime attraverso mass media sempre più asserviti; da meccanismi di selezione di ministri, deputati, governatori, consiglieri, dirigenti politici, manager, banchieri, giornalisti e direttori di media e istituzioni, ai quali non sono stati e non sono certo estranei partiti, forze e culture della vera o presunta opposizione.
Ma quei presidi sono affondati, o - auspicabilmente - hanno imboccato un percorso carsico, anche per un processo che nasce "dal basso"; per responsabilità di molti di noi. Perché la rivendicazione della propria dignità, che quarant’anni fa aveva caratterizzato un intero decennio di lotte, di maturazione, di orgoglio di sentirsi protagonisti, di "presa di parola" da parte di persone che non l’avevano mai avuta, è stata per anni associata agli esiti fallimentari di quella stagione di cui molti di noi portano la responsabilità: un fardello che nessuno, o quasi, dei protagonisti di allora si è sentito di caricare sulle proprie spalle; o lo ha fatto in sordina, lasciando a pochi, e non certo ai più attrezzati, l’onere di rivendicare il carattere "formidabile" di quegli anni.
La dignità, la ricerca e la conquista di una propria autonomia personale all’interno di un processo condiviso, azzerando le disparità e le gerarchie che ne ostacolano la realizzazione, è il grande contenuto che aveva accomunato le rivolte studentesche del ’68 contro l’autoritarismo nelle scuole, nell’università, nelle istituzioni e nella società, con l’insubordinazione e la presa di parola degli operai nelle fabbriche, contro le discriminazioni, le gerarchie e i meccanismi di imposizione del servilismo propri dell’organizzazione - allora "fordista" - del lavoro. Un contenuto che si era andato via via diffondendo in tutti i gangli della società: carceri, magistratura, esercito, polizia, quartieri, redazioni; per spianare poi la strada al femminismo degli anni ’70, che in qualche modo aveva coronato, e anche concluso, quel processo.
Ed à proprio quel contenuto di fondo - premessa di ogni altra rivendicazione sostanziale, o di ogni progetto condiviso di trasformazione dei rapporti personali e sociali - quello che, a quarant’anni di distanza, i vari detrattori del "sessantotto" (ultimo in ordine di tempo, dopo Tremonti, Brunetta, Gelmini, Giovanardi & Co, si è ora aggiunto il ministro Sacconi) non riescono ancora e non riusciranno mai a capire; perché è del tutto estraneo al loro modo di vivere e pensare; e, per dirla tutta, al modo in cui hanno fatto carriera. Ma è anche un contenuto che molti di noi, se sufficientemente anziani, hanno dimenticato, o fatto o lasciato dimenticare; e, se più giovani, non hanno mai o quasi mai avuto l’occasione di sperimentare all’interno di un processo condiviso.
Oggi la voglia di affermare la propria dignità, la legittimità dei propri desideri, delle proprie aspirazioni, dei propri sforzi, ritorna con forza a farsi strada all’interno di molti dei processi di lotta o di resistenza che animano la scena sociale: e non solo da noi, ma anche, e molto di più, in paesi vicini da cui da troppo tempo avevamo colpevolmente distolto lo sguardo. In tutti i casi - i movimenti nostrani come le rivolte di altri popoli - si tratta di un fenomeno che va salutato con rispetto e accolto con gioia.
Si discute molto in questi mesi, soprattutto a proposito delle nuove generazioni, di una "scomparsa del desiderio" legata alla dissoluzione della figura del padre e del senso del limite che essa impone. Chi ha avuto occasione per motivi professionali di osservare da vicino questo fenomeno è certo attrezzato a parlarne con cognizione di causa.
Ma visto dall’esterno, e con diversità lessicali in cui si rispecchiano approcci tra loro distanti, l’impressione che si ricava da questo dibattito è quella di una distorsione ottica. Più che prodotto dalla ricerca di un godimento illimitato indotta dal consumismo, la "scomparsa del desiderio" sembra manifestarsi, per lo più, come uno stato di depressione provocato da un mondo senza sbocchi diversi dal servilismo.
È difficile, infatti, desiderare di farsi servi; anche se molti lo fanno: soprattutto per mettersi in grado di poter a loro volta asservire altri. Ma nella rivendicazione della dignità che torna a fare capolino come evento dirompente nei movimenti di questo periodo c’è la potenzialità di una reazione e di una "cura" della depressione, propria di un mondo senza sbocchi.
di Guido Viale (da "Il Manifesto" - 28 aprile 2011) 

Volantino sciopero 6 maggio