giovedì 3 novembre 2011

No ai governi delle lettere sì al referendum

L’annuncio di un referendum in Grecia sul “fraterno aiuto” europeo ha avuto il grande pregio di squarciare i veli dell’ipocrisia e dimostrare che oggi il continente è governato con un regime autoritario che rigetta ogni forma di reale partecipazione. Diversi commentatori hanno infatti scritto: la Grecia è in guerra e sulle guerre non si fanno consultazioni.
In realtà il primo ministro Papandreu probabilmente ha concepito, per ricostruire il proprio consenso, un’operazione alla Marchionne su scala nazionale: imporre ai propri cittadini di votare sì sotto il ricatto della catastrofe economica e della fame. Ma nonostante queste intenzioni, che dovrebbero piacere ai vertici europei, il primo ministro greco non è stato capito, tutti i potenti d’Europa si sono scandalizzati e, di fronte alla sola ipotesi di un intervento dei cittadini nella gestione della crisi, le borse e i titoli del debito pubblico sono crollati.
Nel 1989 furono i popoli dell’Est a travolgere i regimi del socialismo reale. Allora nelle cancellerie occidentali si brindò per l’estendersi della democrazia in tutto il continente. Nel 2011 i pronunciamenti dei popoli europei fanno paura e si teme che qualsiasi atto di partecipazione democratica - un referendum ma anche solo uno sciopero come una manifestazione - possa far crollare il regime burocratico finanziario che governa il continente. Tra queste due date si dipana il fallimento del capitalismo liberista assieme a quello di una costruzione europea fondata sulla moneta, sulle banche, sul mercato selvaggio e sulla flessibilità del lavoro. L’unità dell’ Europa non esiste e nulla di quello che oggi si decide fa davvero riferimento ad essa. L’unità dell’ Europa è oggi uno specchietto per le allodole, un argomento di vuota retorica buono solo per coprire gli interessi reali delle fallimentari classi dirigenti del continente. Francia e Germania hanno in mente prima di tutto la tutela della propria finanza e delle proprie banche e  hanno la forza di chiedere il conto a tutti gli altri. I paesi più deboli, tra cui l’Italia, mendicano riconoscimenti e sostegni in competizione e in alternativa tra loro. Tutti sono uniti solo nel colpire i redditi e i diritti del mondo del lavoro. L’Europa democratica non c’è, al suo posto arranca una costruzione misera economicamente e moralmente che sta riproducendo le decisioni dei tempi di guerra. I governi di destra e la sinistra ad essi subalterna sottoscrivono i rispettivi crediti di guerra come avvenne nel tragico suicidio europeo del 1914. Per fortuna oggi non si spara, ma quegli impegni e quelle “riforme” che i governi sottoscrivono per salvare i profitti della finanza e delle banche colpiscono in maniera brutale tutti i diritti e le condizioni di vita dei popoli. Questo mentre un regime informativo embedded al seguito dei convogli bancari veicola un unico pensiero secondo il quale lo scopo della politica oggi dovrebbe essere prima di tutto quello di rassicurare i mercati.
L’Italia è solo un punto estremo della crisi della democrazia europea.
L’impresentabilità e i fallimenti del governo Berlusconi aggiungono costi ai costi. Il governo Berlusconi va cacciato, ma non per continuare a somministrare le stesse ricette di sempre. Questo rischio c’è tutto visto che il programma scritto nella lettera che il presidente del consiglio ha inviato in Europa sta diventando il testo di riferimento per tutti i prossimi governi. Non siamo d’accordo con il presidente della Repubblica quando, come ha fatto per la guerra in Libia, interviene esplicitamente nella gestione politica della crisi chiedendo coesione nazionale attorno a un governo che attui le misure richieste dalla lettera famigerata della Bce.
Il vincolo europeo dei patti di stabilità non può più essere accettato. 
Per uscire dalla crisi bisogna innanzitutto respingere la lettera della Bce e costruire una politica economica sociale e fiscale alternativa a quella proposta in quel testo. Bisogna, come afferma anche Guido Rossi sul Corriere della sera, ripartire dall’uguaglianza, cioè togliere ricchezza a chi ce l’ha e redistribuire reddito a favore prima di tutto dei salari. Bisogna allargare non diminuire la spesa pubblica. Bisogna nazionalizzare il sistema bancario invece che finanziarlo gratuitamente con i soldi dello stato sociale. 
Si torna così alla crisi politica italiana. Infatti ormai è chiaro che non solo il centrodestra, ma anche l’attuale centrosinistra sono inadeguati di fronte a questo disastro e non a caso si stanno scomponendo. Una riedizione degli schieramenti del 2006 ci consegnerebbe un centrosinistra magari vincente ma sostanzialmente succube alle banche e alla grande borghesia che hanno sfiduciato Berlusconi da destra. Sbaglia il Pdci di Diliberto a riproporre le scelte di cinque anni fa. O si sta con la Bce e allora si fa una politica di destra anche se ci si chiama in un altro modo, oppure ci si batte per il cambiamento sociale ed economico e allora si entra in conflitto immediato con i poteri che oggi governano l’Italia e l’Europa. 
E’ per questo che il referendum greco fa tanta paura. Ed è per questo che nell’assemblea del primo ottobre contro il debito abbiamo chiesto di poter votare anche in Italia. Bisogna riprendersi il diritto di decidere, come chiedono le piazze degli indignati che difendono davvero la democrazia.

di Giorgio Cremaschi [Articolo su Liberazione del 3 novembre 2011]

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