martedì 22 marzo 2011

Vogliamo che la Cgil dica NO alla guerra

Bisogna mobilitarsi per fermare immediatamente questa guerra insensata e ipocrita che si copre con i documenti dell’Onu, come tutte le altre, ma in realtà fa quello che vogliono coloro che l’hanno scatenata. L’Italia deve uscire dalla guerra neocoloniale della Francia e della Gran Bretagna, devono cessare immediatamente i bombardamenti, si deve andare al cessate il fuoco e aprire un confronto fra tutte le parti. Per realizzare questi obiettivi bisogna che finisca immediatamente l’intervento militare occidentale in Libia. 
Ancora una volta, ci siamo trovati dentro alla solita guerra cosiddetta umanitaria, cosiddetta democratica, che, come in Kosovo, in Iraq, in Afghanistan viola tutti i fondamentali diritti umani. Finora le posizioni della Cgil sono state o ambigue o inaccettabili. Ancora una volta si finisce per condividere l’intervento militare, a cui partecipa il nostro paese. Anche se l’opposizione politica approva tutto, la Cgil deve dire di no perché questa scelta è nel suo Statuto e nel suo spirito profondo. Per questo occorre mobilitarsi per esprimere tutto il dissenso verso le posizioni finora espresse dalla segreteria della Cgil e per pretendere che il più grande sindacato italiano si schieri decisamente contro questa guerra insensata. Non si rovesciano i tiranni con i bombardamenti e i missili, non si costruisce la democrazia con la guerra.
di Giorgio Cremaschi

Sostegno alle RSU Piaggio


Alle compagne e ai compagni della Piaggio
La RSU FIOM e il Coordinamento del Comitato degli Iscritti d'Insiel di Trieste esprime sostegno e solidarietà alla vostra lotta.
Certi che anche questa volta la dirigenza Fiom rifiuterà l'accordo, avvallando l'orientamento delle assemblee e della maggioranza delle proprie RSU, restiamo vicino a tutti quei lavoratori che rifiutano il “Metodo Colannino”.
RSU e CCdI Insiel S.p.A. di Trieste

lunedì 21 marzo 2011

Libia. Fiom: “Fermare i bombardamenti e intraprendere le iniziative diplomatiche per arrivare alla pace. L’Italia e l’Europa svolgano il loro ruolo e garantiscano la protezione dei profughi”

La Segreteria nazionale della Fiom-Cgil ha diffuso oggi la seguente nota.
 
“La Segreteria nazionale della Fiom-Cgil valuta con grande preoccupazione la drammatica situazione che si è determinata in Libia.”

“È necessario fermare i bombardamenti, arrivare immediatamente ad un cessate il fuoco e che l’Onu intraprenda le iniziative politiche diplomatiche utili ad una soluzione negoziata del conflitto.”

“È necessario che l’Onu, attraverso l’invio di osservatori e di mezzi, garantisca effettivamente le condizioni per difendere i diritti umani della popolazione e impedisca che la risoluzione 1973 venga usata per scatenare una guerra, superando ogni lettura ambigua. La pace, infatti, non può essere difesa con atti di guerra.”

“La Segreteria nazionale della Fiom-Cgil, nel condannare il carattere dispotico e autoritario del regime di Gheddafi, è convinta che la difesa dei diritti umani e il sostegno a chi si batte per la libertà e la democrazia si realizzano fermando la violenza e favorendo il negoziato politico ad ogni livello.”

“È su questo terreno che l’Italia e l’Europa devono e possono svolgere un ruolo decisivo per la pace e la sicurezza nel Mediterraneo, superando le ambiguità e i ritardi accumulati.”

“La Segreteria nazionale della Fiom-Cgil, in quanto parte del movimento per la pace, considera utile che per tali obiettivi si sviluppi una discussione e mobilitazione delle lavoratrici, dei lavoratori e dell’opinione pubblica, che chieda anche di garantire misure di protezione dei profughi e di predisporre in Italia e in Europa una dignitosa accoglienza dei migranti.”

La Fiom sbaglia, necessario un chiarimento

Nella vicenda Piaggio occorre ricordare a tutti che esiste anche la democrazia d'organizzazione.
Non e' possibile procedere contro il parere della propria rsu e sicuramente di parte non piccola dei nostri iscritti. Ne' tanto meno si puo' sostenere che la rsu e' solo unitaria quando ovunque chiediamo ai nostri delegati di rappresentare il sindacato stesso, la Fiom, nei luoghi di lavoro. Dichiarare, come ha fatto qualcuno, che sarà la consultazione dei lavoratori a decidere sapendo che la parte più cosciente,più militante, il nerbo stesso della Fiom in fabbrica e' contrario, significa sperare che fim,uilm e l'azienda
siano determinanti per la vittoria dei si. Non esistono ragioni superiori alle quali piegare il rapporto con la nostra base, soprattutto quando la stessa, più volte, ha esplicitato anche con iniziative di lotta la non condivisione del confronto con l'azienda sul piano di ristrutturazione. Per questi motivi e' necessario un chiarimento immediato in segreteria nazionale.

Sergio Bellavita
segretario nazionale Fiom

No alla guerra, sempre.

Non penso che si debba cambiare idea. Siamo stati contro la guerra in Iraq, che pure avveniva per spodestare un dittatore più feroce di Gheddafi, che aveva gasato il suo popolo. Siamo contro la guerra in Afghanistan che, tra l’altro, non ha alcuna via d’uscita. Non vedo la diversità delle argomentazioni oggi per sostenere l’intervento militare delle potenze occidentali in Libia.
Tra l’altro un vecchio principio, evidentemente dimenticato, delle Nazioni Unite stabiliva che eventuali interventi militari non potessero essere in alcun modo svolti da paesi coinvolti in occupazioni militari o precedenti conflitti nella stessa area. Francia, Gran Bretagna, Italia, sono le principali potenze coloniali del Nord Africa e un loro intervento è quanto di più stupido e controproducente ci possa essere a sostegno della causa democratica.
Se poi a questo si aggiunge la confusione dell’iniziativa, che è passata dalla “no fly zone” al bombardamento di tutti i siti militari, naturalmente con l’assicurazione che non vi sono danni ai civili, non si può non vedere la solita guerra umanitaria che si impantana nelle sue contraddizioni. E nella contraddizione principale e cioè che la guerra non può essere usata per affermare diritti e libertà. Lo è stato nel passato, è vero, e infatti continuamente si fa richiamo alle guerre antifasciste. Ma da allora il mondo è cambiato e non c’è stata una sola guerra in questi ultimi sessant’anni che non sia stata macchiata alla radice da interessi che con l’antifascismo e la democrazia non c’entrano nulla.
Ancora una volta, peraltro, scopriamo la catastrofe della sinistra italiana di fronte ai grandi eventi. Dopo mesi di mobilitazione contro Berlusconi, improvvisamente c’è l’unità nazionale per fare la guerra e, semmai, si criticano i dubbiosi e i recalcitranti nella maggioranza di Governo. Così tutta la dialettica politica che c’è in Europa pare oggi racchiusa tra le posizioni filotedesche della Lega e quelle filofrancesi e americane di La Russa e Frattini. Questa ennesima dimostrazione di inutilità della sinistra italiana porterà altri danni e, ancora una volta, mostrerà il vuoto di proposte e di iniziativa che c’è di fronte a Berlusconi.
Siamo stati e siamo senza reticenze e dubbi contro Gheddafi, e siamo contro i bombardamenti e la guerra. Dovrebbero essere questi due punti fermi. Il fatto che non lo siano, che si oscilli tra l’uno e l’altro, è l’ennesimo segno di una crisi della sinistra italiana che, nelle prove di fondo – vedi il Kossovo -, non è in grado di dire e fare nulla di diverso da tutti gli altri.
articolo di Giorgio Cremaschi

La Piaggio non si piega al «modello Colaninno»

Lettera aperta ai movimenti, ai sindacati e a chi si riconosce nel percorso di «Uniti contro la crisi» 
 
In queste settimane i lavoratori della Piaggio stanno resistendo ad un pesante attacco alle loro condizioni di lavoro. A provocarlo non è la crisi, ma l’ultimo diktat emesso da Roberto Colaninno. La più grande azienda italiana delle due ruote gode, infatti, di ottima salute: neanche un mese fa ha annunciato una crescita sul mercato italiano di 2,7 punti rispetto al febbraio 2010 e un aumento degli utili lordi di 9,7 milioni di euro rispetto al 2009.
Ma la crisi offre un alibi imperdibile a chi vuole ristrutturare la fabbrica. E così, agitando lo spettro di nuove delocalizzazioni, Colaninno ha deciso di ricorrere alla «mobilità volontaria» per circa 300 operai e 100 impiegati, subordinando a questa procedura e all'andamento del mercato, le stabilizzazioni di altri 262 lavoratori già previste dal precedente accordo del 2009. Risultato immediato: un calo netto degli occupati del 10% e un conseguente aumento dei ritmi di lavoro, già insostenibili, per i restanti lavoratori. Il tutto in assenza di un piano industriale e di garanzie per l'occupazione, e con un ricorso abusivo alle risorse pubbliche messe a disposizione dall’Inps per la mobilità, ma destinate a reali situazioni di crisi.
Noi stiamo coi lavoratori della Piaggio che in assemblea si sono espressi contro l’accordo e l’uso distorto del referendum, e con quelle RSU della FIOM che coerentemente li sostengono. Ma parole chiare devono venire anche da tutti i movimenti, i sindacati e i soggetti politici che in questi anni si sono uniti contro la gestione autoritaria e capitalista della crisi, per difendere la democrazia, i diritti, i beni comuni. Alla Piaggio i diritti di sciopero e di rappresentanza sindacale non sono in discussione, ma questo non cambia il fatto che siamo di fronte ad una precisa strategia di riduzione dell’occupazione e di intensificazione dello sfruttamento. Colpisce molto che i vertici della FIOM provinciale, regionale e nazionale non lo comprendano: com’è possibile al tempo stesso considerare positivo l’accordo e non sottoscriverlo, salvo rinviare la firma al risultato di un referendum che rischia di assomigliare a quelli, assai poco democratici, voluti dalle aziende quando l’esito è scontato?
Alla Piaggio si gioca una battaglia che riguarda tutti, perché in Toscana si sta sperimentando un «modello Colaninno» generalizzabile ad altri contesti. Con l’avallo del Partito Democratico, si fa strada un nuovo patto sociale che, invocando il senso di responsabilità dei lavoratori e mettendoli in concorrenza con gli operai dell’estremo oriente, fa crescere gli utili a spese dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, nonché a spese dei contribuenti che pagano la mobilità. Il rinvio delle stabilizzazioni, unito alle dichiarazioni di Colaninno sul superamento del contratto a tempo indeterminato e sulla necessità che si lavori sabato e domenica, costituisce un evidente salto di qualità nella mercificazione della forza lavoro, a cui opporre resistenza.
Che in Piaggio la FIOM non faccia proprio l’orientamento dei lavoratori e della maggioranza delle proprie RSU, e in alcuni casi le metta sotto forti pressioni, appare come un passo indietro rispetto alle mobilitazioni di Pomigliano e Mirafiori. Noi siamo nati anche nel vivo di quelle mobilitazioni e nella grande piazza del 16 ottobre. Se vogliamo davvero generalizzare lo sciopero generale del 6 maggio abbiamo bisogno di unire tutte le forze, per bloccare il paese e invertirne finalmente la rotta. Ma questa rotta si inverte solo mettendo in discussione anche il «modello Colaninno».

Coordinamento Uniti contro la crisi Pisa

domenica 20 marzo 2011

Il segretario nazionale Fiom: «Questa ipotesi d'accordo è positiva»

«Considero questa ipotesi di accordo, realizzata dopo diversi incontri di trattativa, una soluzione positiva: affronta il problema dell'uscita in mobilità dei lavoratori vicini alla pensione su base volontaria e permette di fare nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato». È il giudizio del segretario nazionale della Fiom Maurizio Landini sull'intesa Piaggio. Un'intesa definita a partire dalla richiesta di mobilità avanzata dall'azienda per 400 addetti. Landini, al di là del ruolo, la realtà Piaggio la conosce da vicino, è stato tra i protagonisti del confronto che ha portato all'ultimo contratto integrativo. «L'azienda s'impegna, per la prima volta in esplicito in un'intesa sindacale, a realizzare importanti investimenti nello stabilimento e per le produzioni da svolgere a Pontedera - aggiunge il segretario Fiom -. Ora, come previsto nel nostro statuto, il giudizio finale spetta ai lavoratori. Ed è una regola per la Fiom, fondamentale a ogni livello». Eppure nella galassia dei metalmeccanici aderenti a Cgil le acque sono agitate. «In queste fasi è necessario da parte di tutti assumere atteggiamenti responsabili - taglia corto Landini -. Non è in discussione il diritto di esprimere il proprio punto di vista». E precisa: «Almeno all'interno della Fiom, è un vincolo per tutti mettere i lavoratori nelle condizioni di votare e decidere. E conseguentemente vincolarsi all'esito del voto». Mobilità o depontenziamento della fabbrica? «Credo sia un atto di solidarietà importante che persone dopo molti anni di fabbrica possano decidere di anticipare il proprio pensionamento e permettere l'assunzione di altre a tempo indeterminato. In questa vicenda non sono in discussione diritti indisponibili ma si tratta della mobilità volontaria e quindi di una scelta che il lavoratore può fare o no». Eppure il referendum per la maggioranza dei delegati della Rsu Fiom in Piaggio non è valido, anche per la previsione di un esito "falsato" dagli impiegati. «La mobilità è sia per gli impiegati che gli operai e per questo è importante che tutti siano messi nelle condizioni di potersi esprimere e valutare». Per i "duri" della sua organizzazione nella trattativa si poteva ottenere di più. «L'intesa nulla toglie o aggiunge ai problemi relativi a tempi, carichi e condizioni di lavoro. Occorre affrontarli con una vertenza. Lo si può fare anche in presenza di un'ipotesi di accordo che mi auguro venga approvata dai lavoratori».

Manolo Morandini

Articolo su il Tirreno

sabato 19 marzo 2011

La sindacalista che resta per lottare

«Ho 40 anni di contributi ma a questa mobilità dico no». È quanto sostiene Angela Recce, delegato sindacale Fiom in Piaggio ed esponente della Rete 28 aprile. «È un fatto di coerenza con ciò che ho fatto in questi anni a difesa dei lavoratori. Si guarda alla fabbrica e non certo agli interessi personali. In questa trattativa si poteva strappare di più a Colaninno».  Ci mette la faccia Angela per dar più forza alle ragioni che la vedono contrapposta alle segreterie della sua stessa organizzazione. Ed è in compagnia della maggioranza dei delegati Fiom eletti in Piaggio: 9 su 14.  «Non è accettabile che l'azienda scarichi i costi di 400 persone sull'Inps - tuona -. È in questa fase che dovevano puntare a strappare qualcosa a Colaninno. Adesso che ha ottenuto ciò che voleva con quale potere contrattuale ci apprestiamo a definire la piattaforma per il rinnovo dell'integrativo che scade quest'anno? Avremo la mobilità aperta per tre anni».  A marcare la differenza è la lettura dello scenario di crisi dei mercati che non ha certo risparmiato la Casa della Vespa, e in cui s'inserisce l'accordo. «Il personale viene ridotto, saranno coperti meno della metà dei posti liberati - spiega Recce -. Non abbiamo ottenuto che arrivino meno componenti dall'Asia e neppure che qualche lavorazione rientrasse a Pontedera. Alle Meccaniche sono un centinaio le persone che potrebbero approfittare della mobilità su un totale di 580 addetti. E ciò è un dato che deve far preoccupare perché si tratta del cuore dell'azienda».  Eppure la mobilità in forma volontaria per molti è un'opportunità. «Chi è in fabbrica da una vita in fabbrica ha il sacrosanto diritto di andarsene, sulle spalle ha il peso dell'età e di un lavoro usurante. Ma il sindacato deve avere la prospettiva della fabbrica».  Oltre i cancelli Piaggio c'è chi racconta di un clima teso. «Attenzione a caricarlo di significati che non hanno riscontro nella realtà. È tutto molto semplice. Ci sono solo dei lavoratori che possono anche esprimersi aspramente perché una cosa che li riguarda non la condividono. E il referendum è da considerare nullo».  Nella vicenda una sponda ai compagni della Rete 28 aprile la offre il leader nazionale Giorgio Cremaschi: «Non ci sono minacce da esorcizzare ma c'è una grande situazione di tensione». E aggiunge: «Occorre un grandissimo rispetto per i delegati della Rsu Fiom della Piaggio che da anni si battono per i diritti dei lavoratori in condizioni difficilissime».  L'accordo è di fatto già operativo, la partita è adesso tutta interna ai metalmeccanici della Cgil. «C'è un grosso problema politico perché si fanno accordi con la maggioranza dei delegati Fiom che è contraria - afferma -. In Piaggio gli accordi passano con una maggioranza che unisce Fim, Uilm e la minoranza della Fiom. È un'anomalia politica che deve essere affrontata e che non può essere saltata». Al di là del merito dell'intesa, che definisce "fumosa", a Cremaschi non convince la soluzione referendum. «Ho dei dubbi perché salta il principio della partecipazione dei gruppi dirigenti della fabbrica. Il voto conclusivo non può essere sostitutivo della contrattazione. È un accordo sofferto e che produrrà più problemi di quelli che risolve». E chiarisce: «Se Fiom firma un accordo senza il consenso dei delegati della sua stessa organizzazione si apre un problema grande come una casa».
iltirreno.gelocal.it

venerdì 18 marzo 2011

LIBIA,LANDINI: "LA FIOM DICE NO ALLE OPERAZIONI MILITARI"

No della Fiom Cgil alle operazioni militari contro la Libia. Lo spiega il segretario Maurizio Landini, che si trova a Trieste per un convegno. ''Le logiche di interventi armati a me non convincono. Credo invece che ci sia la necessita' di garantire davvero un cessate il fuoco.

Allora non bisogna andare la' a bombardare, ma bisogna mandare la' delle organizzazioni dell'Onu che siano in grado di risolvere i problemi e garantire la possibilita' di un recupero. Ma soprattutto bisogna cercare di capire - conclude Landini - quello che e' successo e credo ci sia un ritardo con cui ci si e' mossi. Bisogna anche porre le domande di cambiamento che da quei paesi stanno venendo''.

La Cgil deve stare fuori dal coro interventista in Libia

Quanto sta accadendo in questi giorni intorno alla vicenda libica deve essere per la Cgil fonte di profonda riflessione e di obiettiva valutazione.
Una sottovalutazione dei fatti porterebbe la confederazione ad assumere posizioni che invece di andare a sostegno delle popolazioni in rivolta, agevolerebbero la conservazione del dominio dei paesi occidentali e dei fantocci al potere in diversi stati arabi. Il rischio ci sembra presente in CGIL dalla lettura di comunicati e da diversi interventi dove si è affermato che di fronte ad un dittatore che spara sui civili inermi non è possibile mantenere un atteggiamento equidistante e che in qualche modo Gheddafi va fermato. 
Gli avvenimenti in Libia si sono innescati su quelli della Tunisia e dell'Egitto ed in concomitanza con una serie di proteste e rivolte popolari in altri paesi del Maghreb e della penisola arabica. Non è possibile in poche righe approfondire le cause, i risultati ottenuti ed i possibili sviluppi di questi importanti fenomeni sociali, analisi che comunque andrebbero fatte all’interno della Cgil. A nostro modo di vedere è importante evidenziare alcune palesi differenze tra la situazione libica e le altre vicende dell’area. Negli altri paesi abbiamo assistito ad un crescendo di manifestazioni popolari, composte da differenti strati sociali e per la maggior parte disarmate che sempre più numerose invadevano le piazze. Ciò è avvenuto con particolare evidenza in Tunisia ed in Egitto, dove l'inizio delle proteste veniva da almeno due anni prima, con l’intensificazione di importanti scioperi degli operai nei centri industriali prontamente repressi nel sangue dai rispettivi regimi amici dell’occidente. In Libia non abbiamo assistito ad un escalation di questo tipo, non ci sono resoconti di proteste di massa nelle piazze delle principali città del paese, in particolare della regione Tripolitania, né tantomeno di scioperi da parte degli operai. Dai resoconti più attendibili che abbiamo a disposizione quella in atto sembra più un'operazione armata di una parte della popolazione, in particolare quella residente in Cirenaica e appartenente ai clan tribali presenti in quella zona, nei confronti dei clan tribali facenti capo a Gheddafi (la tribù è ancora struttura portante della società libica). Da sottolineare è che il tenore di vita medio dei libici è più elevato di quello dei tunisini o degli egiziani. Tanto è vero che i cittadini libici normalmente non emigrano in cerca di lavoro in altri paesi. Il movimento di protesta appare spinto da diverse motivazioni: gestione del petrolio, secessione della Cirenaica dal dominio dei clan Gheddafi, volontà da parte dei giovani, numerosissimi come negli altri paesi arabi, di costruire una vera nazione liberandola definitivamente dal dominio dei clan familiari. Questo forte desiderio è trasversale all’appartenenza tribale, non è concentrato da una sola parte e questo è l’aspetto che più ci dovrebbe coinvolgere in questa vicenda. Dentro il movimento però si inseriscono anche i tentativi di controllo e strumentalizzazione da parte dei paesi dominanti e delle rispettive multinazionali, in particolare occidentali. Si tratta di un conflitto che in ogni caso si inserisce nel quadro generale che ha alla sua radice la crescente lotta concorrenziale, acuita dalla grave crisi economica, tra nazioni e tra aziende multinazionali per la spartizione delle materie prime nel mondo. Se partiamo da queste considerazioni, l’appiattimento mostrato dal nostro sindacato sulle posizioni tenute dai governi europei, americano e di parte dei paesi arabi appare molto pericoloso, perché  rischia di avallare nella sostanza le loro politiche di ingerenza. 
Una grande organizzazione sindacale non può limitarsi alla totale disinformazione propinata da televisioni e giornali. Ad esempio, le sanzioni Onu ed il deferimento di Gheddafi al Tribunale penale internazionale, sono state assunte sull’onda della notizia, poi smentita, di 10.000 morti procurati dai bombardamenti aerei del regime libico su civili inermi e dalla diffusione di foto di fosse comuni rivelatesi in seguito un preesistente cimitero della periferia di Tripoli. In questo modo la macchina bellico-mediatica ha ottenuto il suo scopo: creare nell’opinione pubblica un forte risentimento nei confronti del dittatore e precostituire le possibilità per l’intervento militare che se fin ad oggi non è avvenuto è dovuto soltanto ai contrasti tra i vari galli nel pollaio per decidere chi si debba sobbarcare l’onere della missione, al fatto che i ribelli non sembrano poi così facilmente controllabili dai paesi occidentali e non ultimo al timore di suscitare nuovi sentimenti anti imperialistici in un’area caldissima. Queste manovre le abbiamo già viste in passato, la più clamorosa è stata quella sulle armi di distruzione di massa di Saddam, e non possiamo continuare a non riconoscerle. Questo non significa appoggiare l’attuale regime libico, anzi, se vogliamo sostenere la rivolta libica dobbiamo appoggiare l’elemento comune alle altre situazioni, cioè l’esplosiva volontà dei giovani di liberarsi non solo di Gheddafi ma anche di una struttura sociale atavica che impedisce loro di vedere un futuro certo. Ma esistono delle difficoltà reali che indeboliscono la lotta e sono le tribù e l’organizzazione sociale arretrata.  In Egitto e in Tunisia invece l’estensione e la compattezza della protesta hanno avuto la meglio su apparati repressivi, non meno feroci di quelli libici. Gli stati occidentali  hanno dovuto prenderne atto ed abbandonare Ben Alì e Mubarak, loro grandi alleati.
Invece sulla Libia dopo soli tre giorni di notizie fasulle e roboanti è partito il tam tam politico-mediatico: “fermiamo il crudele dittatore”; “Gheddafi è un criminale che spara sul suo popolo” (frasi echeggiate anche dentro la Cgil) ed ecco arrivare subito le sanzioni Onu e il deferimento al tribunale penale, con una velocità inaudita per organismi di solito molto lenti o incapaci di decidere come è avvenuto nel caso dell’invasione di Gaza e prima ancora del Libano decretata dai governi israeliani e nel corso delle quali i militari bombardarono tranquillamente uomini, donne e bambini, procurando qualche migliaio di morti certificati.  O come quando si è trattato delle “guerre umanitarie, per la democrazia, contro il terrorismo ecc. ecc.” portate in giro per il mondo dalle coalizioni Usa-Nato e che ormai assommano milioni di vittime civili dirette ed indirette.
 Perché Gheddafi è un criminale e gli altri no?  I Bush, Blair, Sharon non sono stati mai incriminati né è mai stata invocata la loro deposizione. Lo stesso Obama continua più del predecessore a fare guerre in giro per il mondo, vanto che gli è valso l'assegnazione del Nobel per la pace. Mentre in Egitto sono state uccise almeno 400 persone e Mubarak se ne sta a Sharm tranquillo. Così come nello Yemen, in Arabia Saudita, in Bahrein si spara sulla folla disarmata e non si dice nulla.
In conclusione, le parole d’ordine della Cgil non possono essere simili a quelle adottate dai politici degli Stati che molto più degli altri hanno le mani in pasta. Non si può invocare la non equidistanza rischiando di appoggiare un nuovo intervento militare che non avrebbe niente di umanitario. Così come non si deve essere equidistanti quando non si dovrebbe. Per l’Afghanistan si è invocata l’"exit strategy" senza denunciare apertamente che si tratta di una guerra di aggressione svolta anche dall’Italia e senza chiedere a gran voce l’immediato ritiro dei militari. La Cgil deve saper distinguere le diverse situazioni, difendere apertamente le rivendicazioni popolari che nascono dal basso ed evitare di schierarsi senza accorgersene con le manovre dei paesi ricchi e delle multinazionali che mirano proprio a conservare, invece, lo status quo. Solo in questo modo possiamo aiutare e prendere esempio dalle lotte medio orientali e nordafricane, dove tante persone a cominciare dagli operai hanno preso in mano la propria vita ed hanno aperto una stagione di vera conquista sociale e di resistenza, contro i potenti locali ed internazionali. Se non ora, quando?

Simona Barbiani  (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
Luca Berrettini (Direttivo Fisac-Cgil Roma Nordest)
Maurizio Bisegna (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Antonella Bonvini  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Alessandro Castrichella (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Leonardo De Angelis  (Direttivo Camera del Lavoro Cgil Roma sud)
Antonio Formichella  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Andrea Furlan  (Direttivo Regionale Filcams-Cgil Lazio)
Luigi Giannini  (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
Giuseppe Legnante  (Direttivo Fisac-Cgil Roma Sudovest)
Antonio Maiorano (Direttivo Nazionale Fisac-Cgil)
Maurizio Mancuso  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)
Pasquale Panìco (Segretario Rsa Filcams Cgil)
Riccardo Tranquilli  (Direttivo Regionale Fisac-Cgil Lazio)

Cerchiamo di non ripetere la stessa storia di Giorgio Cremaschi

La regressione prodotta da Berlusconi a volte si manifesta anche nei modi e negli argomenti di chi si oppone. Hanno ragione tutti coloro che sfidando la retorica ufficiale, hanno colto la debolezza di un’opposizione a Berlusconi che sembra costretta ad avvolgersi nel tricolore del Risorgimento e in una difesa della Costituzione che, a mio parere, finisce addirittura per snaturare il senso di quel testo, riducendolo a una pura variante dello statuto albertino. Ma davvero dobbiamo tornare a Silvio Pellico per cacciare il padrone di Mediaset? Se fosse vero allora quello che si fa e' assolutamente inadeguato..contro le tirannia si fa come in egitto. Davvero dobbiamo esaltare l’unificazione dell’Italia abbandonando tutti i temi critici sui quali la sinistra ha costruito il suo punto di vista in cento anni? La paura del leghismo ci fa abbandonare la questione sociale?
Eppure basta guardare a cosa ha deciso in questi giorni l’Unione Europea sul risanamento dei bilanci pubblici per capire che l’unità d’Italia ha gli anni contati, se non si torna a parlare di economia, diritti, ricchezze, potere.
Secondo l’Unione Europea dovremo rientrare dal deficit pubblico con una cura di tipo greco, pare 40 miliardi di euro all’anno di tagli che, grazie al federalismo, produrranno una drammatica guerra tra i poveri e tra i territori. Come nella Jugoslavia che ha cominciato a separarsi quando il Fondo monetario internazionale impose le sue drammatiche ricette di risanamento strutturale. Oppure come nel Wisconsin ove il governo repubblicano ha deciso di cancellare ogni contratto di lavoro per i dipendenti pubblici, spiegando ai cittadini che così non aumenterà le tasse.
Già, il lavoro e i contratti. Nuovamente cancellati, dopo la parentesi Fiat, dalle prime pagine del dibattito politico e sociale e dalle grandi manifestazioni. 
E questo per la semplice ragione che coloro che quelle manifestazioni promuovono, scelgono di non parlare di lavoro e di economia perché, se lo facessero, si dividerebbero tra chi è a favore e chi contro Marchionne, fra chi sta con la flessibilità contrattuale e chi invece difende il contratto nazionale, chi vuole le privatizzazioni e chi vuole rilanciare lo stato sociale. La manifestazione del 12 scorso in difesa della Costituzione ha visto così una sentita partecipazione nel nome della difesa della scuola pubblica, anche da parte di chi ha tranquillamente votato, a destra e a sinistra, i finanziamenti alla scuola privata. 
Dal nucleare all’acqua, dalla precarietà ai contratti di lavoro, dalle privatizzazioni alla scuola pubblica, non c’è un solo tema su quale si possa dire  che chi si oppone a Berlusconi oggi è in grado di presentare un’alternativa coerente e comune. E allora si riproduce la fotografia politica del Risorgimento. Entusiasmo nelle piazze e moderatismo e autocensura sui palchi, tranne gli artisti che, si sa, hanno qualche libertà in più. Si chiama il popolo a manifestare in difesa della Costituzione, ma gli si chiede di non portare bandiere di partito, di quei partiti che la Costituzione repubblicana, a differenza dello statuto sabaudo, considera parte integrante dell’edificio della democrazia. Non si ricorda che la bandiera rossa è parte viva della storia del nostro paese, come il tricolore. Si contrappone all’indistinto reazionario di Berlusconi un indistinto liberale, dimenticando che dietro l’ideologia berlusconiana sta un blocco di potere definito composto dalla Confindustria, dalla Lega Nord, dai poteri economici forti, dal Pdl, ma anche dai sindacati confederali Cisl e Uil. Berlusconi non piacerà a molti di costoro, ma, tutto sommato, continua a tenerli assieme con reciproche convenienze. All’opposizione si pensa invece che basti cambiare un uomo perché l’Italia riprenda a progredire, al punto di offrire alla Lega l’approvazione di quel federalismo distruttivo dell’Italia, se abbandonerà l’uomo di Arcore.
Insomma, si ripropone una critica liberale del sistema di potere berlusconiano che se può servire a tenere insieme tutti, da Fini a Vendola, nelle manifestazioni, non produce però alcun risultato in termini di consapevolezza, critica e avanzamento reale. 
Non c’è nulla da obiettare al fatto che ci sia un’opposizione liberale a Berlusconi. Ben venga. Ciò che non è accettabile è che ad essa sia ridotta tutta l’opposizione e che, come nel Risorgimento, chi vuole un cambiamento sociale e democratico profondo debba nascondersi o rinunciare a se stesso.  Forse sta proprio qui l’attualità della lezione risorgimentale che, paradossalmente, stiamo riproducendo nelle nostre piazze ove andiamo a manifestare contro Berlusconi sperando in cambiamenti profondi mentre chi ci guida, come nel Gattopardo, vuole che cambi tutto perché non cambi proprio niente.
Giorgio Cremaschi

mercoledì 16 marzo 2011

Due firme sbagliate

Sono passati pressoché sotto silenzio, con tutti  i drammi e i problemi che ci sono, due accordi interconfederali con la firma di tutti. E invece si tratta di due accordi pericolosi la cui sottoscrizione da parte della Cgil è un fatto politicamente grave. 
Il primo è un avviso comune che riguarda le cosiddette politiche di conciliazione della vita delle donne con l’organizzazione dei tempi di lavoro. Sotto una valanga di buoni propositi si celano almeno due code velenose. La prima è il riferimento esplicito al piano Italia 2020, per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro, che finora era stato giudicato negativamente dalla Cgil. In secondo luogo, con il solito pretesto della conciliazione dei tempi di vita con i tempi di lavoro, si apre alla flessibilità annuale degli orari di lavoro. 
Sono due scelte che, giustamente, Sacconi considera patrimonio della propria impostazione di governo.
Ancora più grave è la sottoscrizione da parte della Cgil di un accordo sulla detassazione delle retribuzioni per produttività, nel quale vengono accettati tre principi gravissimi. Il primo è la sussidiarietà e “cedevolezza” della contrattazione aziendale e territoriale rispetto a quella nazionale. Con questo concetto sostanzialmente si dà il via libera alle deroghe al contratto nazionale La Cgil non aveva mai accettato il principio della sussidiarietà nella contrattazione, perché farlo significa considerare meno importante il contratto nazionale degli accordi aziendali e territoriali. In secondo luogo la contrattazione sui salari viene disciplinata da accordi territoriali confederali. Si cancella così l’autonomia delle categorie e ancora di più quella delle Rsu. In terzo luogo si fa riferimento nell’intesa al recepimento dei contratti nazionali applicati, il che vuol dire che nella sostanza si dà il via libera al valore generale degli accordi separati.
Queste due firme non sono frutto di errori o trascuratezza, ma delle ambiguità che continuano in una linea politica della Cgil, che da un lato proclama lo sciopero generale, ma poi ne riduce la portata quantitativa e qualitativa. Si dichiarano 4 ore di sciopero generale contro il governo, ma poi nella politica contrattuale si continua a subire la linea di flessibilità e decontrattualizzazione che esercitano assieme governo e Confindustria. D’altra parte nei volantini sinora emessi dalla Confederazione per spiegare lo sciopero non c’è un solo accenno alle posizioni della Confindustria e del sistema delle imprese. In questo modo l’aggressione e il logoramento al sistema dei diritti sindacali e contrattuali continua senza che la Cgil costruisca una vera opposizione ad essa.

di Giorgio Cremaschi

giovedì 10 marzo 2011

Gli scioperi puramente dimostrativi della Cgil “che non vogliamo”

La maggioranza della Cgil e l’accordo separato di Cisl e Uil
Dopo l'accordo agli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori, che hanno sancito per quei lavoratori la fine del Ccnl (Contratto collettivo nazionale) e dello Statuto dei lavoratori, la strategia politica della Confindustria e del Governo procede senza soste nell'estensione dei contenuti dell'accordo a tutto il resto del mondo del lavoro. Infatti, la stessa sorte – subire, cioè, un accordo capestro stile Fiat - è toccata ai lavoratori del Pubblico impiego e in questi giorni ai lavoratori del Commercio. Appare evidente che dopo il terzo accordo sindacale separato, dove Cisl e Uil dimostrano sempre di più essere complici del progetto politico messo in campo dalla Confindustria, la strategia politica decisa al congresso nazionale della Cgil di riconquistare l'unità sindacale con Cisl e Uil su basi e regole diverse da quelle definite da Cisl, Uil, Governo e Confindustria, è definitivamente tramontata.
L'errore di analisi politica da parte della maggioranza della Cgil sull'accordo separato che Cisl e Uil hanno firmato con Governo e Confindustria sulle regole della contrattazione a gennaio del 2009 è stato quello di credere che quell'accordo - che in peggio seguiva la logica concertativa del luglio ‘93 istituendo l'Ipca [Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi dell’Unione] sul calcolo del salario e il sistema delle deroghe sulla parte normativa - sarebbe stata solamente una parentesi facilmente recuperabile e non invece un progetto politico ben preciso, funzionale al padronato per distruggere i diritti dei lavoratori e superare così la crisi economica.
Era evidente che né il Governo e la Confindustria, né tantomeno Cisl e Uil, erano disposti a mediare con la Cgil sui sacrifici che il padronato italiano chiede ai lavoratori. Semplicemente, la vecchia concertazione sindacale degli anni ‘90 e primi anni duemila, per il padronato è praticamente sepolta. Per questo al tavolo delle trattative nei confronti della Cgil, la quale era disposta a rinunciare a una parte della sua linea politica per non rimanere fuori dagli accordi sindacali (come dimostrato alla Fiat e nella trattativa del Commercio), Cisl e Uil hanno presentato il conto: o la Cgil firma tutto quanto già stabilito nelle linee guida della riforma contrattuale e riconosce gli accordi alla Fiat, oppure è fuori dal tavolo delle trattative.
Per ripararsi dalla crisi economica - che ovviamente non colpisce solo i lavoratori, ma comincia anche a minare la stabilità delle burocrazie sindacali - Cisl e Uil hanno coscientemente scelto una precisa strada da percorrere che porta dritto verso la trasformazione dal sindacato contrattuale al sindacato corporativo dei servizi. Una trasformazione che, dentro la logica degli enti bilaterali (strutture paritetiche formate da sindacalisti e rappresentanti dei padroni), fa diventare il sindacato un certificatore delle scelte legislative compiute dai governi della borghesia affossando definitivamente la contrattazione e la democrazia sindacale. Tale obbiettivo, di portare in dote al capitale la fine del sindacato contrattuale e conflittuale, Cisl e Uil l'hanno barattata con il Governo in cambio di una presenza stabile del loro apparato burocratico dentro le strutture degli enti bilaterali e dentro gli enti statali regionali dove, attraverso la gestione dei corsi di formazione, Cisl e Uil gestiscono notevoli risorse economiche che garantiscono la sopravvivenza dei privilegi dei loro parassitari apparati burocratici.
La cecità politica del gruppo dirigente di maggioranza della Cgil, che ancora oggi continua a perseguire in modo scellerato il "patto per lo sviluppo" con la Confindustria, tentando di riagganciarsi al nuovo corso della concertazione, ha consentito al Governo e al padronato di conseguire indisturbati importanti risultati che hanno determinato - con l'adozione di provvedimenti come il collegato al lavoro, la riforma contrattuale, gli accordi di Mirafiori e Pomigliano - un pauroso spostamento dei rapporti di forza tra le classi a favore del sistema delle imprese scaricando i costi della crisi economica sui lavoratori.

Il triangolo Cgil-Pd-Governo
La Cgil di Susanna Camusso, continua a fare finta che non vi sia un legame organico sul piano degli obbiettivi, tra il Governo Berlusconi e la Confindustria di Emma Marcegaglia. Tale atteggiamento politico è riconducibile al rapporto quasi strutturale che l'apparato burocratico della Cgil continua ad avere con il Pd ovvero con l'altra parte politica che organicamente rappresenta gli interessi della borghesia italiana. Infatti, come possiamo vedere e constatare, la polemica politica della Cgil è rivolta quasi esclusivamente verso le scelte compiute dal Governo in materia di lavoro come se tali scelte, che rappresentano palesemente gli interessi della Confindustria, siano compiute dal governo contro i voleri della Confindustria stessa. Su questo versante sono esplicative alcune dichiarazioni del segretario del Pd Bersani il quale asserisce che con il governo Berlusconi non si possono fare le riforme sul lavoro di cui necessita il paese.
Quali siano le "riforme" che  il Pd vuole davvero realizzare, lo ha chiarito esaustivamente il suo gruppo dirigente quando sulla partita del referendum truccato di Mirafiori, quasi all'unanimità, si è schierato a favore del piano Fiat elaborato da Marchionne. In precedenza invece, aveva elaborato una proposta di legge che tuttora giace in Parlamento firmata da dirigenti del calibro di Nerozzi e Ichino, dove il Pd dichiara apertamente la sua disponibilità a discutere con Confindustria e Governo la destrutturazione completa dello Statuto dei lavoratori che verrà sostituito dallo Statuto dei lavori appoggiando in pieno la proposta Sacconi per abolire definitivamente l'art. 18.
La stessa risposta tardiva e insufficiente della Cgil recentemente proclamata dalla Camusso, che contro la logica degli accordi separati ha indetto lo sciopero generale nazionale di quattro ore che si terrà il prossimo 6 maggio, è la testimonianza oggettiva della precisa volontà politica di indirizzare la protesta dei lavoratori unicamente contro il Governo. Mentre è facilmente deducibile che le imprese non soffriranno nessun disagio da uno sciopero che non sarà in grado di paralizzare il paese come invece si dovrebbe fare. La finalità dello sciopero come del resto è già accaduto in altre occasioni, è finalizzato a convincere la Confindustria della necessità di costruire un tavolo di confronto con la Cgil per la costruzione di quel "patto per lo sviluppo" che, nelle intenzioni della Camusso, deve servire per riattivare un modello concertativo che consenta alla Cgil di moderare i sacrifici dei lavoratori senza che ciò possa costituire un ostacolo alla concorrenzialità delle aziende italiane sul mercato globale.

Passività de “La Cgil che vogliamo”
Di fronte a questo quadro, la politica della minoranza della Cgil organizzata in area programmatica denominata "La Cgil che vogliamo", rappresenta una debole risposta alla deriva imboccata al congresso di Rimini da parte del gruppo di maggioranza della Cgil che si appresta lentamente a trasformarsi in un sindacato corporativo come Cisl e Uil. D'altronde, non è un mistero per nessun lavoratore che pezzi importanti di alcune Camere del lavoro o intere categorie della Cgil, vogliono anch'esse diventare un sindacato dei servizi - sempre per tutelare gli interessi dell'apparato burocratico minacciato dalla crisi - e inseguire su questa strada Cisl e Uil.
Di fronte a questa prospettiva - che a mio avviso si potrà compiere fino in fondo solo quando al governo si determinerà un nuovo quadro politico di centrosinistra - la "Cgil che vogliamo" fino ad ora non è riuscita a prendere nessuna iniziativa concreta per frenare tale processo. Infatti, l'azione politica dell'area programmatica diretta da Rinaldini, dentro e fuori la Cgil, è praticamente inesistente. Malgrado la presenza consistente di gruppi dirigenti che fanno riferimento alla "Cgil che vogliamo" in importanti categorie - come per esempio la Funzione pubblica e la Fisac (bancari e assicurativi) - l'iniziativa politica non è andata più in la del sostegno attraverso i comunicati stampa nei confronti della battaglia sindacale condotta dalla Fiom a difesa del Ccnl e dello Statuto dei lavoratori. Anzi, in alcuni rinnovi contrattuali, i dirigenti della "Cgil che vogliamo" della Fisac hanno sottoscritto insieme al gruppo di maggioranza nella loro categoria il contestatissimo accordo Unicredit che ha determinato un peggioramento normativo e salariale per tutti i lavoratori neoassunti.
Nella Filcams, invece, dove la presenza organizzata di lavoratori e dirigenti è inferiore a quella delle altre due categorie sopracitate, nell'area programmatica "la Cgil che vogliamo" che esprime alcuni dirigenti nazionali e intermedi di categoria, si è prodotta una rottura politica tra il gruppo dirigente e la base dei lavoratori a causa della scelta operata da parte dei dirigenti di gestire unitariamente le politiche della categoria insieme alla maggioranza. Tale comportamento palesemente contraddittorio ha contribuito chiaramente ad isolare nella Cgil la battaglia della Fiom. I limiti politici dell'area programmatica continuano ad essere gli stessi limiti che hanno caratterizzato negativamente le altre esperienze delle sinistre sindacali che nel corso degli anni passati si sono determinate in Cgil.
La continua mediazione tra gruppi dirigenti e la ricerca spasmodica di incarichi sindacali denotano un modo di affrontare i problemi solo ed esclusivamente dentro il perimetro delle logiche burocratiche e di apparato. Inoltre, gran parte del gruppo dirigente della "Cgil che vogliamo", continua ad avversare qualsiasi possibilità di una convergenza politica con il sindacalismo di base precludendo così una concreta possibilità di allargamento del fronte antipadronale che possa dare un sostegno attivo e concreto di unificazione alle lotte dei lavoratori. La lenta ma inesorabile deriva della Cgil verso posizioni politiche di completa collaborazione filopadronale - con l'idea della fine del sindacato rivendicativo che si appresta ad essere metabolizzata dalla stragrande maggioranza del gruppo dirigente, dimostrando in modo sempre più palese di accettare il modello di sindacato che il capitalismo italiano richiede - è un’ulteriore dimostrazione dell'impalpabilità dell'azione sindacale del gruppo dirigente della “Cgil che vogliamo”.

Sciopero a oltranza contro la logica fallimentare degli scioperi puramente dimostrativi
Anche la stessa battaglia condotta affinché la maggioranza della Cgil proclami lo sciopero generale per l’intera giornata e senza aspettare il mese di maggio, non è sostenuta da una comprensione di come si dovrebbe condurre la lotta sindacale e gli scioperi generali in modo particolare. Si continua ad accettare, infatti, la logica degli scioperi puramente dimostrativi (e questo vale sia per la Cgil, sia per il sindacalismo di base), rifiutando di impegnarsi per la convocazione di scioperi a oltranza (scioperi generalizzati) che si concludano solo col conseguimento dell’obbiettivo o con un compromesso accettabile. Meglio uno sciopero a oltranza per un obiettivo minimo, concreto, ma che duri fino a che l’obbiettivo non viene raggiunto (dando così forza e coraggio ai lavoratori per continuare e al sindacato per crescere), che non queste proclamazioni altisonanti, con o senza adunate spettacolari,  che si concludono senza il conseguimento di alcun risultato concreto.
Con questa politica degli scioperi dimostrativi, i dirigenti sindacali (e del sindacalismo di base) ottengono un’esposizione mediatica per se stessi e magari ridanno un po’ di lustro all’apparato, ma allo stesso tempo contribuiscono a demolire lo stato d’animo degli scioperanti (che tornano a casa senza risultati tangibili) e anche a svuotare le tasche (le ritenute sul salario) di quegli strati d’avanguardia che partecipano a tutti gli scioperi, pagando dei prezzi altissimi (ma anche riducendosi per numero mano a mano che continua questa politica spettacolare dimostrativa ma inconcludente).
In questi ultimi anni non sono certo mancati gli scioperi generali convocati dalla Cgil (senza contare tutti gli scioperi presuntamente “generali” convocati dal sindacalismo di base). Purtroppo, non ce n’è stato uno che sia riuscito a strappare un qualche risultato concreto per i lavoratori, sia sul terreno salariale, sia nel far ritirare al Governo le leggi sul lavoro. Questo perché la modalità con la quale gli scioperi sono stati convocati era e continua ad essere profondamente errata. Di scioperi se ne sarebbero potuti fare di meno in termini di ore perdute, ma con risultati sicuramente diversi se solo si fossero mobilitati i lavoratori su obbiettivi precisi considerati irrinunciabili (ovviamente prevedendo spazi di mediazione nella trattativa), preparandoli e chiamandoli ad una mobilitazione ad oltranza da far terminare solo quando l'obbiettivo fosse stato raggiunto.
Questa metodologia non è un parto della nostra fantasia ma è incarnata da quasi due secoli di storia del sindacalismo in Italia e nel mondo, che però in Italia non funziona più dalla metà degli anni ’70 in poi, vale a dire dagli anni in cui si è cominciato a formare l’attuale quadro dirigente della Cgil. 

Caste burocratiche o autorganizzazione dal basso?
Rimango convinto, d’altro canto, che le strutture del movimento operaio dovrebbero imparare dalla borghesia come meglio si rappresentano gli interessi di classe. Difatti, mentre la borghesia riesce a coalizzarsi come classe nell'attaccare i diritti e il salario dei lavoratori, e persegue pervicacemente e senza indugi i propri obbiettivi (anche accantonando divergenze interne, come si è visto alla Mirafiori con Marchionne), la casta dirigente del movimento operaio non riesce a organizzare una resistenza politica di blocco sociale contro il padronato e i suoi governi. Non si riesce a costruire uno straccio di azione politica comune né tra le organizzazioni sindacali né tra i movimenti che in questi anni si sono contrapposti alle controriforme capitalistiche sul mercato del lavoro, della scuola e contro le privatizzazioni dei settori più o meno strategici dell'economia.
La mancanza di vittorie, sia pure parziali, sia pure minime fa sì che il movimento dei lavoratori - sul quale pesano le sconfitte subite ininterrottamente per decenni su scala nazionale e internazionale - non riesca a liberarsi dallo strapotere degli apparati burocratici per avviare un processo di autorganizzazione dal basso delle lotte. Dinnanzi all'infiammarsi della mobilitazione sociale in alcune parti dell’Europa e in Medio Oriente, la lotta di classe in Italia appare come una delle più arretrate nonostante l’alto tasso di sindacalizzazione, il numero di ore di sciopero e a fronte di un attacco padronale violento. Anche l’esperienza dei governi di centrosinistra, lungi dal favorire una crescita dell’organizzazione di classe, ha seminato demoralizzazione e ulteriore frantumazione. Un fattore, questo, che va tenuto bene a mente visto che gli stessi responsabili delle sconfitte passate continuano a proporre il ritorno a governi di collaborazione con la borghesia (quali che siano i partiti su cui si costituiranno tali governi).
Con questo orientamento prevalente nella Cgil (e a fronte dell’immobilismo in cui si trova la sua principale corrente di opposizione, la “Cgil che vogliamo”) se la lotta di classe dovesse divampare anche in Italia nei prossimi anni a causa dell'aggravarsi delle condizioni materiali e per effetto della crisi economica, non vi sono dubbi che i settori più combattivi della classe lavoratrice tenderanno a rompere con gli apparati burocratici, per adottare nuove forme di lotta. La deriva dei sindacati burocratici (Cgil compresa) verso la trasformazione in apparati di gestione corporativa e di servizi, disposti a rispondere passivamente alle esigenze del capitalismo e della sua crisi, non lascerà alternativa ai lavoratori che costruire strutture autorganizzate, sulle quali il sindacato dovrà decidere di fondarsi se non vorrà scomparire. Occorre quindi impegnarsi perché queste strutture abbiano fin dalla nascita un carattere consiliare e antiburocratico. Questo è il sindacalismo che vogliamo… 

di Andrea Furlan Direttivo Filcams Cgil - Roma Centro "La Cgil che vogliamo"

venerdì 4 marzo 2011

Sciopero Cgil, bisogna fare sul serio

E’ inutile nascondersi dietro le parole. Lo sciopero generale proclamato dalla segretera della Cgil si presenta come uno sciopero a metà. Da un lato, è evidente, esso raccoglie una domanda di mobilitazione che è partita dalla piazza del 16 ottobre scorso dove si sono incontrati Fiom e movimenti. Dall’altro, però, non solo per le sue dimensioni, le quattro ore, ma anche per gli obiettivi, si presenta come uno sciopero in assoluta continuità con le iniziative del passato. Il 26 giugno dell’anno scorso la Cgil proclamò uno sciopero generale di quattro ore contro la politica del governo Berlusconi. Un anno dopo, fa la stessa identica cosa, nello stesso identico modo. In mezzo a queste due date è cambiato il mondo. 
 L’attacco di Marchionne, quello della Gelmini, il propagarsi dal pubblico al privato, dai metalmeccanici agli insegnanti agli addetti al terziario, della devastazione contrattuale, ha messo in discussione tutto. Cisl e Uil sono state complici convinte di tutte le scelte del governo, della Confindustria, della Fiat. E’ avanzato un processo di distruzione dello stato sociale che in Italia viene presentato come Federalismo. Tutto questo si è accompagnato all’aggravarsi della crisi della democrazia, all’abolizione delle libere elezioni nella Fiat come nel lavoro pubblico, all’attacco alla Magistratura, all’aggressione alla Costituzione, all’impunità di Berlusconi rivendicata e proclamata come sistema di governo. Eppure dopo tutto questo, lo sciopero generale proclamato dalla segreteria della Cgil è lo stesso di un anno fa.
E’ evidente che questo errore di sensibilità e scelta politica nasce da un vizio di fondo che persiste nella linea della confederazione. Si continua a negare la realtà. Si continua a credere che oltre Marchionne, oltre Berlusconi e Sacconi, oltre gli accordi separati, ci sia ancora un mondo ove si possa ricostruire una politica unitaria con Cisl e Uil e un patto sociale con la Confindustria. Questo mondo in realtà non esiste più. C’è oramai un blocco di potere, una vera e propria concertazione che fa sì che tutte le principali decisioni di politica economica e sociale siano prese di comune accordo fra la Lega, Tremonti, Berlusconi, la Confindustria, Cisl e Uil. C’è un blocco di potere concertativo che governa l’Italia ed esclude la Cgil. Questo blocco di potere fa sì che Berlusconi continui, nonostante i suoi misfatti, a restare in sella, mentre appare inconcludente e inefficace l’opposizione politica. Il gruppo dirigente della Cgil continua a illudersi che prima o poi la signora Marcegaglia, la Cisl, la Uil, facciano un’altra politica.
E’  la stessa illusione che coltiva Bersani quando chiede alla Lega di dissorciarsi da Berlusconi. Ma negare la realtà può essere più facile che cambiare linea e comportamento. Per cui, specularmente, ad un’opposizione politica che ogni cinque minuti chiede la caduta di Berlusconi, ma non fa nulla di vero e serio perché ciò avvenga, così la Cgil chiede un cambiamento profondo nelle politiche economiche e sociali, ma poi non fa uno sciopero generale in grado di bloccare davvero il Paese.
E’ questa contraddizione che è stata immediatamente colta in tutti i luoghi di lavoro ove, dopo la prima cauta soddisfazione per la proclamazione dello sciopero generale, è emersa la rabbia per la data e soprattutto per le quattro ore. Sbaglia chi, come fa il nostro caro amico Loris Campetti su il manifesto, sottovaluta questo aspetto e si fa trascinare nella vecchia logica del bicchiere mezzo pieno. Questo sciopero generale così com’è non va, bisogna cambiarlo. Innanzitutto si deve mettere nella piattaforma che esso va proclamato non solo contro il governo, ma anche contro la Confindustria e contro il sistema delle imprese. Pensiamo alla Confcommercio, che sta estendendo ovunque, assieme al governo, il modello Marchionne. Bisogna smettere di illudersi che ci sia un altro padronato buono che è pronto a dissociarsi dall’amministratore delegato della Fiat. In secondo luogo bisogna fare uno sciopero generale di otto ore. Già diverse categorie: la scuola, la funzione pubblica, il commercio, i metalmeccanici, hanno deciso o paiono intenzionati a decidere, l’estensione dello sciopero. Bisogna provare a bloccare il Paese e non a fare uno sciopero di circostanza.
Nelle prossime settimane, ogni luogo di lavoro, ogni rappresentanza sindacale, ogni struttura, dovrà essere portata a discutere e a decidere sugli obiettivi e sull’estensione dello sciopero. Lo sciopero dovrà essere un appuntamento di tutto il Paese che lotta per i diritti e la democrazia. Per questo si dovranno incontrare i movimenti sociali e gli studenti. Essi devono essere soggetti attivi e partecipi dello sciopero e non semplicemente spettatori tollerati. Infine questo sciopero va costruito politicamente anche rispetto a Cisl e Uil. Il primo maggio unitario, che precede lo sciopero è una pura ipocrisia e rischia persino di danneggiare la giornata di lotta se quel giorno, nelle piazze, si dovrà diplomaticamente tacere di essa. Si faccia un primo maggio che prepari lo sciopero, che ne spieghi le motivazioni e gli obiettivi e si vada in piazza anche per questo. Pazienza se Cisl e Uil a questo punto ne saranno travolte o saranno costrette a non partecipare.
Bisogna fare sul serio. Ogni giorno le lavoratrici e i lavoratori, i giovani, i disoccupati e i precari sono di fronte a drammi che si abbattono sulla loro vita. Per questo mobilitazioni rituali non servono più a nessuno e possono persino diventare controproducenti. Abbiamo a questo punto due mesi per arrivare a uno sciopero generale vero. Facciamo sì che ogni appuntamento - lo sciopero dell’11 marzo dei sindacati di base, le altre lotte e mobilitazioni, le assemblee degli studenti e dei movimenti sociali, le manifestazioni della società civile, da quella del 12 marzo a quella sull’acqua - pur conservando naturalmente la propria autonomia, servano anche a far sì che lo sciopero del 6 maggio sia un appuntamento di tutti.
Impadroniamoci di quella data e facciamo dello sciopero generale proclamato senza convinzione dalla segreteria della Cgil una data che segni la vita sociale e politica Paese. Con la consapevolezza che oggi più che mai è necessaria la critica a quei gruppi dirigenti che non vogliono cogliere la dimensione dura e drammatica del conflitto in atto. La trasformazione dello sciopero del 6 maggio in uno sciopero generale vero, è la strada sulla quale dobbiamo muoverci.

Giorgio Cremaschi

Sergio Bellavita: "Riaprire immediatamente la discussione su data, forma e contenuti dello sciopero generale. Cosi' non va"

Finalmente, anche se con estremo colpevole ritardo, e' stato deciso lo sciopero generale. Tuttavia e' uno sciopero che nasce gia' depotenziato per la scelta di una data irragionevolmente distante dalla necessita'  di rispondere alla gravita' dell'attacco padronale che non ha da venire... ma che e' abbondamente iniziato e che prosegue, forse indisturbato.  E' necessario costruire un ampio fronte sociale che, da subito, definisca obbiettivi e conseguenti forme di lotta. Non possiamo più permetterci mobilitazioni che rischiano di non apparire credibili ed efficaci di fronte alla pesantezza dell'attacco della Confindustria e del governo.
Costruire una piattaforma di unita' sociale per una mobilitazione prolungata, questo e' il compito a cui e' chiamata la Cgil. 
Sergio Bellavita
Segretario nazionale Fiom

giovedì 3 marzo 2011

Vendola e Cremaschi. Due sinistre?

Nello scorso fine settimana si sono tenuti due importanti appuntamenti a Roma. Sabato c’è stata l‘Assemblea nazionale autoconvocata di delegate/i, Rsu e Rsa per uno sciopero generale e generalizzato contro Governo e Confindustria mentre domenica si è tenuta la manifestazione nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà dal titolo ” Cambia l’Italia”.  Si è trattato di due inziative certamente riuscite anche oltre le più ottimistiche previsioni degli organizzatori e che hanno mostrato una diffusa voglia di reagire di una sinistra tutt’altro che scomparsa.
Anche se la natura dei due eventi non era identica (soprattutto sindacale la prima ed eminentemente politica la seconda) al centro di entrambi gli appuntamenti c’era l’eterna questione del “Che fare?”. L’intervento di Giorgio Cremaschi, presidente del Comitato Centrale della FIOM, da un lato e di Nichi Vendola dall’altro hanno fornito alle due platee risposte se non opposte platealmente divergenti in primo luogo sul terreno che da almeno quindici anni ha diviso la sinistra : le alleanze politiche.
Se Cremaschi infatti afferma categoricamente che la “pregiudiziale Marchionne” deve avere la stessa forza di quella su Berlusconi e quindi indica la necessità di escludere a premessa ogni accordo con chi sostiene o non si oppone al progetto della FIAT, Vendola invece pur di battere Berlusconi difende la propria decisione di aprire persino ad un accordo elettorale con il terzo polo di Fini e Casini.
Altra questione decisamente significativa che indica una divaricazione profonda tra Cremaschi e Vendola riguarda il rapporto con il conflitto sociale in corso e con la dinamica sindacale. Se Cremaschi per spingere verso lo Sciopero Generale valorizza il rapporto anche con i sindacati di base (cosa non affatto scontata da parte di un dirigente anche della FIOM) Vendola non cita nemmeno il tema nel suo lunghissimo discorso eludendo la questione dello Sciopero Generale e non citando nemmeno Marchionne e la FIAT. Abbiamo quindi un sindacalista che, in nome del conflitto, si spinge ben oltre il presunto limite di sovranità della politica ed un politico che si ferma sulla soglia di quella sovranità sindacale così dimostrando per lo meno una grave sottovalutazione di una questione che questa sì  che “Cambia l’Italia”.
Ovviamente nessuno può affermare che Cremaschi non voglia battere Berlusconi o che Vendola sia tenero con Marchionne. Dai contenuti dei discorsi appare però evidente una diversa scala di priorità se non una profonda divergenza strategica.
Come direttore di Libera.tv ho quindi deciso di pubblicare entrambi gli interventi per dare l’occasione ad ognuno di trovare una risposta alla domanda che sorge spontanea: ” Vendola e Cremaschi: due sinistre?”
L’inventore della teoria delle “due sinistre” è stato Fausto Bertinotti che la invocò per rompere con Prodi nel 1998. Oggi Bertinotti è accreditato come il principale ispiratore di Vendola che comunque è nei fatti (e nei piani) il suo erede politico. Eppure Nichi Vendola,  invoca una “sinistra che vuole vincere”, “un nuovo centrosinistra” e “la contaminazione delle culture politiche” in una logica bipolarista classica di prodiana memoria che risulta un poco stantia ma molto funzionale a fare rientrare nell’immediato la sinsitra nel gioco elettorale e parlamentare.
Giorgio Cremaschi invece, a sostegno della propria continua “provocazione” verso una sinistra “di palazzo” ormai incapace di praticare nuovamente con coerenza e partecipazione la radicalità ed il conflitto sociale e politico, sostiene che Berlusconi in realtà sia già il passato mentre la vera partita in corso è quella con Marchionne ed il suo progetto di dominio della società.
Mentre Vendola propone uno schema ben noto dentro una gestione tattica efficace Cremaschi guarda oltre  l’immediato indicando il terreno più avanzato dello scontro ed anticipando il ciclo politico.
Le “due sinistre” sembrano quindi riproporre, attualizzandola, una divergenza strategica anche se, per ora, si muovono su piani non direttamente confliggenti.  Se Vendola infatti ha il suo un partito che agisce sul terreno eminentemente politico occupando con forza crescente tutto lo spazio della “sinistra del centrosinistra”  Cremaschi parla, con crescente autorevolezza,  ad una galassia  di soggetti politici e sindacali ancora incerta su come “dare rappresentanza” a quella nuova dimensione un conflitto di classe che oggi imporrebbe la rottura delle compatibilità politiche imposte dal bipolarismo e dal maggioritario.
L’evoluzione della politica dirà se ciò che oggi appare più “nuovo” non sia nei fatti solo l’ultima riproposizione del conosciuto, e ciò che può apparire più “antico” non sia in realtà uno squarcio di futuro. 
L’unico errore che non dobbiamo commettere, comunque la pensiamo, é di credere che sia solo l’ennesimo gioco delle parti.  A differenza del recente passato la società sta cambiando velocemente e nel profondo portando alla luce confiltti drammatici che non permettono più le ambiguità del gioco politicista, tanto caro  alle caste autoreferenziali di ogni colore, ma  impongono scelte nette e coraggiose.
di Jacopo Venier - direttore Libera.tv 

Landini (Fiom): “Bene la decisione sulla data dello sciopero generale. Perché sia più efficace, estensione a 8 ore”

Il Segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini, ha rilasciato oggi la seguente dichiarazione.
“L'annuncio della data di effettuazione dello sciopero generale della Cgil è la miglior risposta all'estensione della pratica degli accordi separati, alla volontà di Confindustria di mettere in discussione l'esistenza dei Contratti nazionali e dei diritti del lavoro e alle inaccettabili politiche del Governo.”
“È necessario preparare la mobilitazione, coinvolgendo tutte le lavoratrici e i lavoratori e tenendo assemblee in tutti i luoghi di lavoro.”
“È necessario, inoltre, coinvolgere tutti i movimenti e tutti i soggetti della società civile che in questi mesi hanno sostenuto le lotte per la difesa della dignità del lavoro e della democrazia.”
“Al fine di una sua più efficace riuscita, come Fiom valuteremo la possibile estensione dello sciopero a 8 ore.”