lunedì 19 ottobre 2009

Non è più tempo di pace sociale

Le recenti dichiarazione del ministro Tremonti sull’opportunità di ritornare al “posto fisso” sono una lezioncina alla sinistra che ha tutto il sapore della presa in giro.

Tremonti predica il posto fisso. La Chiesa di Ratzinger invoca la responsabilità sociale delle imprese e dei paesi ricchi. Sacconi e la CISL chiedono la partecipazione agli utili delle imprese. E tutti insieme intendono una società più gerarchica, depauperata di meccanismi di partecipazione democratica, raccolta intorno alle elemosina che i ricchi vorranno concedere ai poveri.


La verità che è finito il tempo della pace sociale: quella pace continuamente invocata da Tremonti, Sacconi e Ratzinger. Questo tempo è scaduto simbolicamente il giorno in cui il Governo e la Confindustria hanno dichiarato guerra alla CGIL, dopo che per oltre venti anni questa aveva pacatamente accettato riduzioni dei salari reali, aumenti dei prezzi dei servizi e continue privatizzazioni, espandersi del sistema del precariato che scarica sui giovani le incertezze della competizione commerciale e finanziaria globale. La ricompensa per questo atteggiamento “responsabile” è stata che, alla prima pesante crisi economica, si è colta al volo l’occasione per scardinare l’unità dei sindacati e spezzare le reni all’unico sindacato confederale che aspira a mantenere un rapporto diretto con il mondo del lavoro e favorire la sua partecipazione ai processi decisionali.


E siccome c’è gente che fraintende: che sia finita la pace sociale, non significa ovviamente che sia iniziato il tempo delle rivolte armate. Significa invece qualcosa di più complesso e di più duraturo.


Significa che a livello sindacale occorre mutare radicalmente la strategia della concertazione per aprire una nuova stagione in cui si ricostruisca il rapporto con i lavoratori e, soprattutto, con il mondo del precariato. Occorre un cambiamento che porti, già dal prossimo congresso, alla guida del maggior sindacato confederale chi lo considera un luogo indipendente dalle contese interne ai partiti, in grado di leggere l’economia nazionale e internazionale e proporre ricette autonome e non semplicemente farsi trainare dalle analisi di organismi internazionali come l’OCSE o il Fondo Monetario.


Significa, a livello politico, che il tempo delle microscissioni, il tempo di quella che Corrado Guzzanti definirebbe “la strategia del microrganismo” (vincere sparendo dal mondo del visibile), non ha più senso. Non hanno più senso quelli che “Di Pietro non è di sinistra”. Occorre un fronte comune di tutte le opposizioni sociali, da Rifondazione a Di Pietro, che muovano una battaglia su alcune questioni comuni per arginare la frana della costante privatizzazione di tutti gli interessi pubblici: moratoria sui licenziamenti e su ogni ulteriore privatizzazioni dei servizi pubblici, abolizione dei contratti precari, istituzione di referendum obbligatori fra tutti i lavoratori sui contratti nazionali, salvaguardia delle pensioni di anziani e giovani, fine della guerra in Afghanistan, richiesta di referendum su ogni modifica dei trattati europei. Poi come presentarsi alle prossime elezioni si vedrà, a seconda di chi sia più concretamente (e non nelle assemblee) in grado di interpretare questo desiderio di battaglia sociale.


E significa che ogni individuo di sinistra deve essere investito della responsabilità di dar vita ad associazioni, gruppi che mettano insieme le persone sulle questioni più disparate, operando concretamente perché la cooperazione, il pubblico, la partecipazione e l’eguaglianza tornino, delineate in modo nuovo ed attraente, ad essere egemoni nella società. La cultura di sinistra deve smettere di trincerarsi nelle “riserve indiane” e aspirare nuovamente a farsi sentire da tutti, perché il mondo è migliore di quello che sembri a guardarlo in televisione.


Attendere che tutto questo accada dall’alto, magari scaricandosi la coscienza con un voto alle primarie ad un bravo chirurgo o ad un bravo amministratore regionale, è velleitario; perché la pace sociale deve finire prima di tutto dentro ogni persona, che deve ritrovare la convinzione di poter imporre concreti cambiamenti sociali e la forza di battersi attivamente per le cose in cui crede. Non servono dei tifosi oggi che la pace sociale deve andare in cantina, servono dei giocatori che si impegnino ognuno al meglio delle proprie competenze.

Giuliano Garavini

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